Gli annunci del governo sui piani antimafia. Le sfilate dei politici in Calabria. La scomunica del Papa contro le cosche. Intanto però le toghe che mandano in carcere i mafiosi sono un numero esiguo, il più basso d'Italia. Troppo pochi e costretti a «fare i miracoli»

Persino il Papa è andato in Calabria a portare solidarietà alle vittime della 'ndrangheta. E ha scelto, non a caso, Cassano allo Jonio, il paese dove i sicari delle 'ndrine hanno ucciso il piccolo Cocò. Il comune calabrese ricade nel territorio di competenza della procura antimafia di Catanzaro e della sezione giudici indagini preliminari della stessa città. Qui però a contrastare il crimine ci sono pochissimi giudici e ancora meno pm. A Catanzaro, distretto giudiziario che comprende quattro province per quel che riguarda le indagini sulla 'ndrine, scarseggiano le toghe. La prima a denunciarlo è stata Gabriella Reillo, presidente della sezione dei giudici per le indagini preliminari del tribunale. «L'ufficio del Gip di Catanzaro ha competenza sul territorio di Catanzaro, Cosenza, Crotone e Vibo, in cui operano sette Tribunali: Lamezia Terme, Castrovillari, Cosenza, Crotone, Paola, Vibo Valentia e lo stesso Catanzaro, per un bacino di utenza, correlato alla popolazione, di oltre un milione di persone» spiega a l'Espresso il presidente.

Ma i giudici che si occupano di valutare le richieste dei pm, dagli arresti alle intercettazioni, e di svolgere i processi con i riti alternativi (abbreviato e patteggiamento) sono soltanto sette compreso il presidente di sezione. Il confronto con altri tribunali che hanno un bacino di utenza simile o addirittura minore ha dell'incredibile: a Catania, distretto da 788.809 utenti, sono presenti 13 giudici, un presidente aggiunto e uno presidente di sezione; il tribunale di Palermo, con il suo milione e mezzo di utenti (circa 300 mila in più di Catanzaro), ne ha 22 di giudici; a Salerno e Bari ce ne sono 11 per un bacino che è la metà del capoluogo calabrese. «In sostanza il distretto di Catanzaro è il più popoloso dopo quello di Napoli e Palermo ma anche quello che in proporzione presenta il minor numero di giudici in servizio, sei, e in organico, sette».



Per questo combattere ad armi pari la 'ndrangheta diventa una missione impossibile. «L’escalation della criminalità calabrese è sottolineata costantemente dagli organi investigativi e dai dati ufficiali che provengono da fonti governative. L’intervento in questo campo è avvertito come urgente tant’è che il Ministro dell’Interno ha dichiarato, in aprile, che sarebbero stati inviati in Calabria 800 agenti di polizia giudiziaria e, di recente, il presidente del Consiglio, ha tenuto una riunione a Reggio Calabria per confermare l’attenzione verso la lotta alla criminalità organizzata in questa Regione» continua il giudice, che commenta amareggiata: «La constatazione che ancora una volta si segue l’opinione diffusa che per contrastare la mafia necessita potenziare il settore delle indagini, mi ha indotto a intervenire, rompendo il naturale riserbo del giudice, per segnalare l’emergenza in cui versa il settore giudiziario, che pure è il naturale referente di quelle indagini e lo strumento perché le ipotesi investigative diventino concreti provvedimenti coercitivi e, poi, sentenze di condanna».

Il territorio è segnato da numerose faide tra 'ndrine storiche ed emergenti. Il numero di omicidi continua a crescere. Gli ultimi casi hanno scosso l'opinione pubblica e portato Papa Bergoglio fino in Calabria, commosso dalla morte del piccolo Cocò. Esecuzioni che a volte riguardano persone estranee, colpite per errore. Come Antonio Maiorano, un operaio di Paola, o come il piccolo Domenico Gabriele, di undici anni, raggiunto da un proiettile mentre giocava a pallone a Crotone. E anche ragazzi e bambini che hanno la sola colpa di essere parenti di affiliati mafiosi, come Carminuccio Pepe, di sedici anni, ucciso nella zona di Cassano, o la figlia di Luca Megna, di soli cinque, colpita al cervello, rimasta in coma con danni permanenti, o lo stesso Cocò, ucciso nell’agguato contro il nonno.

Nel 2013 sono stati trattati e definiti dalla sezione Gip di Catanzaro 121 casi di omicidio e 50 di tentato. La maggior parte sono legati alle faide tra consorterie contrapposte. «E’ ovvio che con questa mole di lavoro pressoché costante - ci sono anche le archiviazioni, le proroghe di indagini, le intercettazioni, i decreti penali, le circa 4.000 istanze annue che provengono dalle parti i procedimenti ordinari tra cui quelli di Pubblica Amministrazione - non si può evadere tutto in tempi brevi. E nel periodo in cui non si riesce a provvedere, le vittime continuano a vivere nella paura, e ad avere la percezione di una giustizia lenta e quindi lontana, sostanzialmente ingiusta, cui non può riporsi fiducia».

Insomma, ben venga il potenziamento dei team investigativi della procura, ma se i giudici sono pochi non sono in grado di evadere le proposte dei pm e quindi le indagini si arenano negli uffici. Con il rischio di non riuscire a intervenire in tempo per bloccare omicidi e violenze sugli imprenditori che hanno denunciato. Infatti se il magistrato invia una richiesta urgente di arresto perché dalla telefonate intercettate sono emersi segnali di un imminente agguato, il gip deve fare in fretta abbandonando i fascicoli su cui stava lavorando. Ma può anche succedere che quella richiesta, visto il carico di lavoro e i pochi giudici presenti, non venga letta in tempo, lasciando ai killer il tempo di agire.

La procura antimafia di Catanzaro e quindi il tribunale hanno a che fare con le cosche più feroci della Calabria. «Qui operano delle associazioni di stampo mafioso storiche che hanno una elevata capacità di condizionamento e di infiltrazione nei settori economici, istituzionali e politici» puntualizza il giudice. Ci sono i “Farao” di Cirò (con ramificazioni in Emilia, Lombardia e Germania); i “Lanzino-Cicero”, i “Muto”, gli “Acri”, i “Serpa “ della provincia di Cosenza; i “Megna” di Papanice, in provincia di Crotone; gli “Arena” di Isola Capo Rizzuto; i potenti “Mancuso” di Limbadi. E sono solo alcuni dei clan presenti. La maggior parte di queste 'ndrine intrattengono stretti rapporti con le famiglie mafiose della provincia di Reggio Calabria. Alcune gestiscono il traffico di cocaina con collegamenti internazionali e in varie zone dell’Italia del Nord. Altre godono di appoggi politici di altissimo livello e hanno agganci nella massoneria che conta.

Secondo i dati diramati dal ministero dell’Interno nella regione ci sono 160 organizzazioni criminali, per un numero di 4.389 affiliati: 2.086 sono presenti nel territorio di Reggio Calabria e 2.303 nel territorio del distretto di Catanzaro. La differenza è che nella sezione indagini preliminare del tribunale di Reggio Calabria lavorano 11 giudici. «Si scade addirittura nel ridicolo se si considera che la metà delle inchieste antimafia calabresi ricadono su sette giudici, quelli di Catanzaro» prosegue.

Nel periodo in cui non si riesce a intervenire, le vittime e la comunità continuano a vivere nella paura. Percepiscono una giustizia lenta e “ingiusta”. Si sfalda così il rapporto di fiducia costruito a fatica negli ultimi anni. Eppure i vertici dell'ufficio hanno sollecitato ripetutamente i governi. Ma nessuno ha mosso un dito. Parole tante, fatti nemmeno uno. «Dico solo che è sempre stato elevato nella gestione delle risorse da parte dei governi degli ultimi venti anni il “gap” tra l’antimafia parlata e quella praticata. Mentre al ministero si dibatte sul piano generale di riordino degli organici della magistratura e al Csm ci si interroga sul tipo di parere da fornire, qui si rischiano nuove vittime di gravi reati per l’impossibilità di operare con mezzi adeguati» denuncia il giudice Reillo che più di un mese fa ha scritto al presidente del Consiglio Matteo Renzi. L'appello però è caduto nel vuoto, il premier infatti non ha mai risposto alla missiva.

La denuncia ha trovato sponda nel Comune di Lamezia Terme guidato dal sindaco antimafia Gianni Speranza: «Le operazioni promosse dalla Procura antimafia di Catanzaro negli ultimi due anni contro la criminalità organizzata del lametino hanno determinato il risultato importassimo della liberazione del territorio da fattori di malvagità che, per lungo tempo hanno impedito l’esercizio di diritti fondamentali dei cittadini, politici, civili ed economici, in forma individuale e collettiva. Grazie a questa azione la legalità è stata ripristinata in maniera diffusa, il funzionamento adeguato di tali uffici assicura tutela e protezione a tutti i cittadini».

Non va meglio per la procura. La distrettuale antimafia catanzarese ha in organico solo sette magistrati. Ma di fatto sono soltanto cinque. Con la conseguenza che i sostituti procuratori si trovano quotidianamente di fronte alla scelta di seguire le indagini in ufficio per giungere a provvedimenti di custodia cautelare o di seguire i processi per giungere alle sentenze di condanna.

«Da una pianta organica di diciotto unità, dopo gli ultimi due trasferimenti, siamo diventati dodici: sei per l'antimafia e altrettanti per l'ordinaria. Dovremo gestire circa due mila procedimenti ciascuno in tempi rapidi, facendo dei veri e propri miracoli, ma in queste condizioni è evidente che qualcosa dobbiamo tralasciarla. Abbiamo, oltre ai procedimenti antimafia, altri dieci mila ordinari; a Catanzaro arriva di tutto, dalle indagini sui temi dei rifiuti a quelli per i parchi eolici». L'allarme è stato lanciato dal procuratore capo di Catanzaro nel gennaio del 2013. A distanza di un anno e mezzo le cose alla distrettuale antimafia del capoluogo calabrese sono addirittura peggiorate. Oggi, infatti, i sostituti procuratori in forze sono cinque, e rimarranno tali certamente sino alla fine dell’anno. E molto probabilmente anche oltre. Il confronto con altre procure è significativo. Catanzaro ha tanti pm quanti ne ha l'antimafia bolognese e  quella di Genova. Anche lì c'è una forte presenza mafiosa, ma di certo il fenomeno è meno violento che nella culla delle cosche.

A rinforzo della protesta che arriva dai magistrati, esce allo scoperto anche il procuratore aggiunto di Catanzaro, Giovanni Bombardieri che a “l'Espresso” spiega: «Bisogna necessariamente ridisegnare l’organico della nostra procura distrettuale, ormai sempre in continua emergenza. Questa è una priorità assoluta non più procrastinabile. Con cinque sostituti, a fronte della criminalità organizzata operante nei due terzi del territorio calabrese, stiamo veramente facendo i miracoli, basti vedere le recenti operazioni portate a termine. C’è assoluto bisogno di rinforzi. È una situazione drammatica. Situazione che andrebbe affrontata e risolta globalmente, senza più indugi. Gli uffici distrettuali vanno potenziati. Più volte in passato il procuratore capo, Lombardo ha rappresentato tale emergenze. Ma le sue parole, purtroppo, sono non hanno sortito alcun effetto».

Un paradosso la dice lunga sulla condizione surreale che vivono in procura: «Se i sette tribunali circondariali su cui siamo competenti convocassero, per ipotesi, udienze dei processi antimafia nella stessa giornata, non ci sarebbero sufficienti sostituti pm. C'è la necessità di cambiare passo nella lotta alla ndrangheta. Spesso rispondere in ritardo significa vanificare il risultato giudiziario e avvantaggiare così le cosche. Ritardare la risposta giudiziaria può essere avvertito come assenza, debolezza, delle istituzioni, e noi non possiamo permettere che ciò avvenga, specialmente in una terra come la Calabria in cui veramente occorrono risposte tempestive».
Chi denuncia fatti di ndrangheta ha bisogno di sentire vicino lo Stato. Il rischio, altrimenti, è che i cittadini si rivolgano ai boss che rispondono rapidamente ai bisogni della popolazione. «Chi ha avuto il coraggio di denunciare, lo ha fatto riflettendo a lungo prima di farlo, se però queste persone non vedranno risultati, prima di collaborare ancora ci penseranno due volte. La carenza di organico e l'impossibilità di disporre di un numero adeguato di sostituti ci spinge a selezionare delle priorità in base all'urgenza del momento, spesso agiamo seguendo l'emergenza e la gravità delle situazioni oggetto di indagine. Rinviando a dopo le altre pur delicate indagini». Alla faccia della prevenzione. Contro la 'ndrangheta quindi basterebbe qualche toga in più e un annuncio in pompa magna in meno.