Venditori e acquirenti di opere da milioni di euro si nascondono nei paradisi fiscali. Per non pagare tasse

Era chiuso in una scatola qualunque. Importato negli Stati Uniti da un’azienda logistica inglese, con l’indicazione generica di “dipinto (naturale)”, in arrivo dall’Olanda, per un “valore non commerciale” minimo, di soli 100 dollari. Dentro quella scatola era invece nascosta un’opera d’arte che è stata battuta all’asta a Londra questo ottobre, per 12,5 milioni di dollari.

Si trattava di “Hannibal” di Jean-Michel Basquiat. Il dipinto, realizzato nel 1982 dall’artista oggi di culto - un acrilico, olio e carta su tela, 152 centimetri per lato - faceva parte della collezione sequestrata a Edemar Cid Ferreira, il banchiere brasiliano condannato in un primo momento a 21 anni di carcere per la bancarotta fraudolenta del Banco Santos oltre che per il riciclaggio di quei capitali: sentenza cancellata nel 2015 e processo che ora deve ricominciare.

Restituito al Brasile, anche l’Hannibal è finito all’incanto per rimborsare i creditori dell’istituto. E a fine novembre si è tenuta a San Paolo quella che i giornali brasiliani hanno definito “l’asta dell’anno”: oltre settecento pezzi dalla sterminata pinacoteca dell’uomo d’affari messi in vendita, fra mani alzate di vip e galleristi locali - c’era una scultura di Victor Brecheret che ha superato i 700mila euro, opere di Oscar Niemeyer e Tomie Ohtake, oltre a un busto di marmo scolpito del nono secolo avanti Cristo.

Seguendo le tracce di quello sterminato patrimonio - la collezione di Ferreira superava i 12mila pezzi - il giudice Fausto Martin De Sanctis è diventato così uno dei maggiori esperti internazionali di riciclaggio di denaro attraverso le opere d’arte, cui ha dedicato anche un libro pubblicato da Springer, uno dei pochissimi sul tema. E non ha dubbi: «Per la facilità con cui si possono trasportare somme rilevanti, magari di decine di milioni di euro, arrotolate dentro a un tubo o in una cassa, senza che nessuno se ne accorga», spiega: «Per la facilità con cui si accettano ancora pagamenti in contanti, sul mercato; e per la difficoltà a stabilire in modo trasparente il valore delle opere, l’arte è diventata attraente per la criminalità, come mezzo per lavare i soldi sporchi». Soprattutto quando l’attenzione delle autorità transnazionali è sempre più forte sugli altri canali.


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«Che ci piaccia o no, l’arte è usata per aggirare le tasse ed evadere», ha dichiarato netto il grande economista Nouriel Roubini durante un incontro del Financial Times al forum di Davos del 2015: «E può essere usata per riciclare denaro. Moltissime persone la stanno usando a questo fine. Mentre l’arte sembra aver a che fare solo con la bellezza, vista come business è un mercato pieno di ombre. Che andrebbero corrette, o ne sarà danneggiato». Le debolezze riguardano soprattutto, secondo Roubini, la mancata trasparenza sui prezzi, sulle garanzie pagate dalle case d’asta per aggiudicarsi un patrimonio, fino alle informazioni cui hanno accesso gli insider per stabilire le cifre realmente incorniciate in un quadro.

Ad aprile i Panama Papers hanno riportato al centro dell’affresco un altro livello di questa scarsa trasparenza. Fra gli 11,5 milioni di file provenienti dallo studio legale Mossack Fonseca e analizzati dal consorzio giornalistico internazionale Icij, in Italia in esclusiva dall’Espresso, ci sono infatti molti documenti che raccontano quanto sia comune negli acquisti di opere d’arte l’utilizzo di società offshore, come ammettono anche alcuni dei galleristi intervistati nel documentario di Sky parlando di “regole del gioco”.

Lo studio Mossack Fonseca è implicato, ad esempio, in una delle aste che ha cambiato il mercato dell’arte globale, la vendita record della collezione Ganz da Christie’s a New York nel 1997, un’asta che superò i 200 milioni di dollari. Fu l’inizio di una crescita che ancora non conosce fine: una versione delle “Donne di Algeri” di Picasso, all’epoca stimata per 12 milioni di dollari, superò all’incasso i 31, e l’anno scorso è stata nuovamente venduta da Christie’s per 179 milioni. Cifre vertiginose che allora, hanno rivelato le carte, transitarono da una società offshore del miliardario trader inglese Joe Lewis.


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Venditori e acquirenti si schermano così dietro nomi di cui è difficile ricostruire volti, rotte e provenienza. Come è successo con la famiglia di intermediari d’arte Nahmad, con i collezionisti spagnoli Thyssen-Bornemisza, o gli armatori greci Goulandris, proprietari di un tesoro stimato fino a tre miliardi di dollari. E citati, tutti, nei Panama Papers. Anche una gallerista di Milano era risultata beneficiaria di una società con sede alle Seychelles; mentre Stephane Bloch Saloz, che ha presieduto la filiale italiana di Christie’s, compare come titolare di una compagnia offshore alle Isole Vergini Britanniche dal 2006 e al 2010. Contattato da l’Espresso, aveva risposto di «non essere al corrente di questa situazione».

Più vicino invece era il riservato approdo scelto da un altro nome noto del mercato dell’arte italiano: Italo Spagna, ex titolare della storica galleria Marescalchi di Bologna, travolta da uno scandalo di ricettazione e quadri falsi - con vittime celebri come l’ex calciatore della Juventus Roberto Bettega - fino al fallimento nel 2011. Nel 2015, come ha rivelato sempre l’Espresso, la Guardia di Finanza e la Procura di Forlì gli hanno contestato 27 milioni di redditi non dichiarati e 2,3 milioni su un conto a San Marino.

E ritorniamo infine a un Basquiat. Un altro Basquiat. Anzi due, entrambi realizzati dall’artista newyorchese nel 1981. E venduti da un gallerista di Brescia, Roberto Agnellini, a un imprenditore di Verona, Ivan Posenato. L’imprenditore è stato condannato in via definitiva per il crac fraudolento della Mondialfruit insieme a S. Z., arrestato da latitante a Santo Domingo. E a gennaio è arrivata una condanna in primo grado anche al gallerista di Brescia, Agnellini.

Un passato come socio di Dante Vecchiato, una candidatura alle europee del 2004 con Alternativa Sociale di Alessandra Mussolini, ancora prima la militanza politica nell’estrema destra. È accusato ora di aver aiutato il riciclaggio di quei capitali. Il gallerista aveva venduto da aprile a novembre del 2008, in soli sette mesi, quadri per 16 milioni di euro all’imprenditore di Verona. C’erano sette Lucio Fontana, sette Andy Warhol. E quei due Jean-Michel Basquiat.