Oltre 300 giornalisti di tutto il mondo per analizzare un'immensa banca dati finanziaria. La stessa su cui ora indagano le autorità fiscali negli Stati Uniti e in Germania, tra società fiduciarie e conti bancari

«Stai in campana». Così, nel giugno 2015, in visita presso gli uffici di Washington di The International Consortium of Investigative Journalists (ICIJ), mi sono sentito accogliere da Gerard Ryle e Marina Walker, direttore e vicedirettore del network che sta oggi lanciando i "Panama Papers". Visita di cortesia, ma anche di lavoro: sono il loro corrispondente italiano dal 2000. Poco dopo, il messaggio: "C’è una nuova storia per te e per l’Espresso". Per il resto, bocche cucite.

Qualche settimana dopo, ecco l’annuncio ufficiale. Sarebbe partita un’inchiesta giornalistica planetaria sullo studio legale Mossack e Fonseca (MF) di Panama, il più grande "cantiere" di offshore. Riservatezza e mistero circondano da sempre una macchina oliata, capace di allestire veicoli societari nei più lontani paradisi fiscali, grazie a più di 30 uffici dislocati dappertutto: Bahamas, British Virgin Islands, Gibilterra, Lussemburgo, Svizzera, Samoa, Seychelles e tanti altri.

Qualcuno, però, ha rotto il meccanismo. Una fonte anonima, un "whistleblower", ha per le mani il colossale file di MF e lo passa al quotidiano tedesco Suddeutsche Zeitung. Che, di fronte a una montagna di dati, si rivolge ad ICIJ per condividere la ricerca e scoperchiarne il contenuto. Occorrono tecnologie informatiche adeguate, e know how di software, per gestire materiale delicato e penetrare negli strati più reconditi dei gigabyte.

C’è di più. Le autorità tedesche, fiutando il loro scoop, più di un anno fa contattano l’anonimo personaggio acquistando da lui l’hard disk. Per scatenare subito dopo un raid contro la seconda banca tedesca, la Commerzbank, multata a suon di milioni di euro per aver aiutato suoi clienti a evadere le tasse. La ragnatela si è poi allargata. E così oggi anche le agenzie delle entrate americane, inglesi e islandesi possiedono le chiavi del "tesoro" panamense di Mossack e Fonseca.

Intanto la pattuglia dei giornalisti al lavoro con ICIJ cresce, settimana dopo settimana. Prima dozzine, poi qualche centinaio, per arrivare infine a quota 378. Viene creato un sistema informatico per la gestione delle informazioni. Un sistema a prova di hacker, nome in codice "Promethus", l’eroe greco che rubava il fuoco agli dei per darlo gli uomini e per questo punito da Zeus: simboleggia la ribellione. Occorre una password speciale per entrare nel database che custodisce i nomi di centinaia di migliaia di clienti celati all’ombra delle offshore. E tenere impegnato il computer. Se lo si lascia troppo in "sonno", si deve ricliccare la password.
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La "piazza virtuale", dove i giornalisti si aggiornano su come interpretare file complessi nel mare di 2.6 terabyte (chi sono gli azionisti? chi i beneficiari delle offshore? e così via) è il forum, anche questo protetto da password. Si fanno domande, si esprimono dubbi, si ricevono risposte e chiarimenti dagli esperti. Nascono gruppi che sviluppano temi comuni: la mafia in Italia; il caso FIFA; gli amici di Putin; le "celebrities". È una vera collaborazione transnazionale, uno scambio di informazioni utili a creare gli articoli che poi verranno scritti.

Lo scorso dicembre sul forum nasce la discussione. Come battezzare la nuova inchiesta? Qualcuno suggerisce "Panama leaks", sulla falsariga di altre denunce giornalistiche di ICIJ: "Swissleaks"; "Luxleaks", lo scandalo degli sfacciati accordi fiscali per multinazionali in Lussemburgo; "China Leaks", le rivelazioni sulla nomenklatura cinese. Alla fine vince "Panama Papers": con chiaro riferimento ai "Pentagon Papers", i documenti che hanno messo nudo le menzogne del segretario alla difesa di Nixon sulla guerra in Vietnam. Il whistleblower di allora era Daniel Ellsberg. Quei "papers" li ha pubblicati il New York Times. Era il 1971.