Cerroni l’africano: il re della monnezza e gli appalti in Senegal
Il potente imprenditore dei rifiuti, in società con l’Ama, avrebbe dovuto creare una 'piattoforma ecologica' a Dakar. Ma gli impianti non lavorano ?come previsto. E la municipalizzata romana ci rimette 16 milioni
«Ehi, signore, non provi ad entrare. Sono da solo, non posso garantire per la sua sicurezza», sorride Mamadou, nonostante l’ambiente desolante in cui lavora. Mbeubeus, la discarica di Dakar, è una città nella città. Mamadou fa il mediatore culturale in questo luogo dove si vive di escamotage, dove si cercano a mani nude oggetti riciclabili, senza il minimo standard di igiene.
Questo inferno doveva scomparire entro il 2016, per lasciare posto ad un nuovo “ecopole”, una “piattaforma ecologica”, come chiamiamo anche in Italia le nuove discariche. E a cambiare quel posto avrebbero dovuto essere proprio gli italiani.
Prima quelli di Ama, la municipalizzata romana dei rifiuti. Poi quelli di TirrenoAmbiente, stesso tipo di azienda, ma di Messina. In comune, in Italia, hanno l’appartenenza alla galassia di Manlio Cerroni, potente imprenditore della monnezza; in comune in Africa hanno la responsabilità di avere causato disastri. Il filo della storia da Dakar si dipana fino a Roma, poi ad Abidjan, in Costa d’Avorio, per tornare in Italia, a Mazzarà Sant’Andrea, in provincia di Messina. Coinvolge imprenditori sotto indagine, soci in affari con un passato da narcos ed ex manager di importanti multinazionali.
AMA SENEGAL, DISASTRI ALL'ITALIANA
Tutto inizia nel lontano 2002 a Dakar, la capitale del Senegal, dove Ama si aggiudica un appalto per la raccolta dei rifiuti solidi urbani e per implementare la differenziata. L’azienda a Roma deve gestire un’emergenza perenne, non si capisce come possa occuparsi anche di quella senegalese. Infatti, il risultato è negativo: i camion non raccolgono i rifiuti, il governo locale finisce per cancellare il contratto dopo appena quattro anni e Ama perde 16 milioni di euro (dei cittadini romani).
In una relazione del 2013 della Corte dei Conti del Lazio, il magistrato Raffaele De Dominicis (che è stato per 24 ore assessore al Bilancio della Giunta di Virginia Raggi) ha scritto che i mezzi per la raccolta inviati da Ama in Senegal erano «inadeguati alle esigenze della commessa» e che la società locale creata per l’occasione, Ama Senegal, aveva «carenze strutturali» che hanno provocato danni. «Gli italiani hanno gonfiato le valutazioni dei mezzi che ci hanno mandato da Roma, in modo che il patrimonio di questa società risultasse più alto. Così hanno messo a posto i conti in Italia», accusa l’allora ministro senegalese all’ambiente Thierno Lo.
Ama Roma avrebbe spedito in Africa vecchi autocompattatori che non valevano nulla, nonostante sul bilancio di Ama Senegal vengano fatti risultare di grande valore. Ma c’è dell’altro. I camion erano stati concessi in leasing da Unicredit alla azienda vercellese Gi.cos, partner di Ama in Senegal, che dal 2007 è controllata da Cerroni tramite la municipalizzata dei rifiuti di Perugia, la Gesenu. Da quell’anno Gi.cos e Ama Senegal smettono di pagare e Unicredit fa causa.
A ottobre 2010 ci pensa la municipalizzata del Comune di Messina, la Tirrenoambiente - anch’essa controllata da Cerroni tramite la Gesenu - a subentrare nel contratto, acquisendo i mezzi e saldando il debito. A quel punto la partita Senegal è ormai nelle mani di TirrenoAmbiente che inaugura un nuovo consorzio con la vercellese Gi.cos, la GTA Environnement, ottenendo una licenza decennale con un progetto ambizioso di smaltimento rifiuti.
Il sistema, composto dal centro di raccolta differenziata di Mbao e dalla discarica di Sindia, avrebbe dovuto essere operativo entro il 2016. GTA avrebbe trattato 550 mila tonnellate di rifiuti l’anno, producendo in cambio tra i 40 e i 60 milioni di euro, stima un addetto ai lavori sentito in Senegal.
A sei anni dall’avvio del progetto, del centro di Mbao resta solo un ammasso di polvere. Avrebbe dovuto essere il punto di raccolta degli autocompattatori, ma di dodici promessi, ne restano nove, sotterrati dalla sabbia. Sulla rampa d’ingresso, sbiadita, si intravede ancora la scritta GTA. Nell’impianto, centinaia di operatori avrebbero dovuto dividere la frazione solida dall’umido, il vero oro dei rifiuti. In francese si usa un gioco di parole: “lordure”, “spazzatura”, diventa “l’or dur”, stessa pronuncia, ma significato ben diverso: “oro duro”. Dall’umido, infatti, si produce il biogas, il bene più redditizio, da vendere ad impianti speciali che lo trasformano in energia elettrica.
DALL'AFRICA A MESSINA
Il secondo impianto si trova poco distante, a Sindia. «La struttura non si può visitare», dice il guardiano in pettorina arancione rimasto a sorvegliare la discarica inutilizzata. Non c’è nulla da vedere, in effetti, nonostante oltre sei anni di appalti.
Per realizzare l’impermeabilizzazione delle vasche, GTA ha scelto ancora una volta un’azienda vercellese: la Osmon Spa. In liquidazione da agosto 2016, ha come attività chiave la produzione di materiali impermeabili e l’estrazione del biogas. Poi, nel 2010, ha cercato fortuna in Africa, in Costa d’Avorio, dove ha aperto una succursale con lo scopo di produrre olio di palma per la propria centrale a biogas di Borgo Vercelli.
Osmon è una vecchia conoscenza di TirrenoAmbiente, la partecipata del Comune di Messina che ha preso il posto di Ama in Senegal. Sarà forse per questo che viene chiamata per la posa delle “geomembrane”, così si chiamano in gergo i tappeti che evitano il contatto tra materiali inquinanti e terreno. Osmon completa il lavoro nel 2011, ma la discarica di Sindia entrerà in funzione solo per poco tempo.
Secondo i titolari di Osmon, la colpa è di facinorosi dei villaggi vicini che avrebbero appiccato il fuoco alla discarica nel 2012. Un ex operaio che è stato licenziato subito dopo l’evento, la vede diversamente: «La vasca per i rifiuti non era stata danneggiata e in tre giorni si sarebbe potuti ripartire, risolti i problemi di sicurezza». Uno dei titolari di Osmon, Giuseppe Antonioli, spiega che «a seguito dell’incendio la GTA ci ha sospeso i pagamenti. Ha ripreso a pagare nel 2015, ma ad oggi parte del debito non è stato saldato». E non è l’unico indennizzo che Osmon ha ricevuto da TirrenoAmbiente.
Sempre nel 2012, riceve infatti 2.6 milioni di euro per “mancata produzione di energia elettrica”, che Osmon avrebbe dovuto ricavare dai rifiuti della discarica siciliana di Mazzarà Sant’Andrea. Per l’ad Antonioli «già dal 2010 la produzione del biogas era diminuita, a causa di una gestione non conforme della discarica da parte di TirrenoAmbiente», uno stato delle cose che «iniziava a creare danni economici evidentissimi per Osmon».
Consigliere d’amministrazione di TirrenoAmbiente, all’epoca, è Giuseppino Innocenti comproprietario di Osmon tramite un’azienda di consulenza ambientale, la Car. La sua doppia veste fa scattare l’indagine Riciclo nell’estate 2015: per il gip del tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto che firma l’ordinanza di custodia cautelare questo è operare in pieno conflitto di interessi. Innocenti avrebbe utilizzato la partecipata come una società privata, affidando incarichi di consulenza alla Car (per oltre un milione di euro), finanziando la squadra di calcio piemontese Borgopal di cui era presidente e sottoscrivendo contratti con la Osmon.
Per questo e per altri reati ipotizzati, come peculato e corruzione, Innocenti è indagato assieme al suo successore come amministratore delegato di TirrenoAmbiente (e socio in Osmon) Giuseppe Antonioli. Avrebbero trattenuto nelle tasche della TirrenoAmbiente soldi che avrebbero dovuto versare ai Comuni (l’unico a cui il Riesame ha annullato il sequestro dei beni è Antonioli poiché il reato di peculato non sarebbe stato commesso durante il suo mandato e Antonioli avrebbe pagato regolarmente il Comune di Mazzarrà Sant’Andrea).
A ritenere che gli amministratori gestiscono la Tirrenoambiente come fosse cosa loro è anche la procura di Vercelli (l’inchiesta in fase preliminare è stata trasferita per competenza a Messina ad ottobre 2016) che muove accuse di abuso d’ufficio a entrambi i titolari di Osmon perché, mentre «ricoprivano cariche apicali in Tirrenoambiente», avevano affidato l’incarico di smaltire il percolato della discarica di Mazzarà alla loro Osmon senza gara d’appalto. Per il legale di Antonioli, Giuseppe Tortora, le accuse si basano sul presupposto «non del tutto pacifico» che TirrenoAmbiente possa avere natura pubblica e non privata. Innocenti, contattato dall’Espresso ha preferito non commentare.
OLIO DI PALMA, ANZI DI 'NDRANGHETA
La Osmon, in liquidazione dall’agosto 2016, ha una centrale di produzione elettrica da fonti rinnovabili a Borgo Vercelli, dove avrebbe dovuto produrre elettricità sia dal biogas estratto in Sicilia sia dall’olio di palma prodotto in Costa d’Avorio. A inizio 2014, però, la procura di Vercelli inizia ad indagare i flussi finanziari che intercorrono tra Osmon, TirrenoAmbiente e una terza società sempre vercellese: la Green Oil Energy. Si indaga l’indennizzo ricevuto da TirrenoAmbiente per la mancata produzione elettrica in Sicilia e due pagamenti corrisposti da Osmon a Green Oil, 167mila euro in tutto, per consulenze nel commercio di olio di palma.
Il titolare della Green Oil, Bartolo Bruzzaniti, ha un cognome ingombrante. Lo stesso di una cosca di ’ndrangheta della Locride. Bartolo, classe ’75, ha anche una fedina penale di un certo peso. Nel 2002 è stato condannato per traffico internazionale di cocaina per conto della cosca Palamara-Bruzzaniti-Morabito. Per Antonioli, Bruzzaniti è un uomo di cui potersi fidare: «Ho ritenuto che non ci fossero ostacoli per una collaborazione lavorativa, che mi era stata chiesta nell’interesse di Bruzzaniti durante il suo percorso giudiziario per l’affidamento in prova ai servizi sociali».
Bruzzaniti infatti, nel novembre 2011 comincia a scontare le pene alternative al carcere come impiegato nell’azienda Green Oil, di fatto un’azienda di famiglia amministrata dalla moglie. La prova va talmente bene che nel 2014 Bruzzaniti diventa presidente del consiglio di amministrazione di Green Oil. Ma i riconoscimenti vengono anche da Osmon, che lo manda a gestire la fabbrica di olio di palma di Dabou, a 50 km da Abidjan, in veste di responsabile generale. La Costa d’Avorio gli piace: apre infatti una succursale della sua Green Oil. Non è stato possibile chiedergli come vadano gli affari e se i legami con la cosca Morabito-Bruzzaniti-Palmara siano un capitolo chiuso della sua vita poiché i contatti mail e telefonici dell’azienda non risultano attivi.
SPUNTA LA TANGENTE SAIPEM
C’è un socio dell’affare olio di palma che però non sembra informato del tutto sul ruolo chiave svolto da Bruzzaniti in Africa. Questo socio è Tullio Orsi, ex presidente di Saipem Algeria, controllata di Eni oggi gestita da Cassa Depositi e Prestiti, protagonista della tangente Eni rivelata dalle carte dei Panama Papers (l’Espresso del 28 luglio). Tullio Orsi ha patteggiato una condanna a due anni e dieci mesi, ammettendo di avere incassato almeno 5 milioni e 290 mila euro da Farid Bedjaoui, presunto tesoriere-ombra dell’ex ministro algerino dell’energia Chakib Khelil.
Lo stesso Tullio Orsi è stato uno dei maggiori investitori del progetto Osmon Africa. Lo ha scoperto la Guardia di Finanza di Vercelli che ad aprile 2014 ha eseguito una perquisizione alla Osmon e alla Green Oil. Tra le carte gli investigatori hanno trovato un prestito obbligazionario da un milione di euro alla società ivoriana firmato da una società di Orsi, la svizzera PrOil. A quel punto i pm di Vercelli hanno ipotizzato il riciclaggio, con il sospetto che i soldi investiti provenissero della tangente Saipem. Il 25 ottobre 2016 il procedimento è stato archiviato. Eppure lo stesso Orsi aveva parlato dell’origine di questi soldi in un interrogatorio con i pm di Milano che indagano sul caso Saipem Algeria. L’8 aprile 2013 confessa ai magistrati che Bedjaoui gli avrebbe fatto recapitare circa 5 milioni di euro come “indennizzo” e quando i pm gli chiedono come li ha spesi risponde che in parte ha «finanziato un’attività in Costa d’Avorio, per la produzione di olio di palma». «Ho utilizzato una società svizzera, la Apo Energy Holding SA che, tramite la sua controllata PrOil, ha finanziato le attività in Costa d’Avorio e a questo proposito ha investito circa 1,5 milioni di euro per la costruzione di una fabbrica ad Abidjan», spiega Orsi. Orsi dichiara di essere entrato in Osmon Africa dopo aver conosciuto Antonioli tramite un consulente finanziario e di avere saputo dei precedenti di Bruzzaniti solo «quando ormai da parecchio tempo era stato assunto come mero dipendente, dietro rassicurazione di Antonioli che se ne assunse la piena responsabilità, quale “garante”». Spiega anche di essere stato l’ultima volta in Costa d’Avorio a maggio 2013, venendo poi estromesso dalla gestione, quindi prima che fosse completata la fabbrica da lui finanziata, e di averci «con ogni probabilità rimesso l’intero investimento». Nel bilancio della liquidazione, Osmon dichiara di aver interrotto le attività di produzione di olio di palma nell’estate del 2015, a poco più di un anno dall’avvio, a causa delle «oscillazioni del prezzo del mercato». Possibile che un investimento di quella portata, oltre 2 milioni di euro, possa finire così in fretta? Anche la fabbrica di Dabou, come le discariche GTA, sembra essere destinata a rimanere solo un castello di sabbia.
(questa inchiesta è stata supportata dal Connecting Continents Grant)