La riforma ha introdotto l'obbligo per i ragazzi di fare esperienza in azienda. Ma se qualcuno è stato fortunato e ha trovato possibilità interessanti, soprattutto al Nord, tanti altri sono costretti a ripiegare sul poco che trovano. Ecco cosa ci hanno raccontato i giovani
«Lo avevo detto al professore che così non andava. Ma mi ha risposto che non c’erano altre scelte». Per la sua alternanza scuola-lavoro, Oriana è finita a
fare le fotocopie negli uffici comunali di Campobasso. La sua scuola, il liceo Pertini, l’ha poi spedita a Roma per tre ore di lezione in Banca d’Italia: «Ho speso 100 euro per il soggiorno e non ho imparato niente».
Francesco invece ha diciassette anni e sa come creare nano-tubi di carbonio partendo dal grafene e come rilevare i raggi cosmici. Lo ha imparato all’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare di Roma, dove è stato mandato dal suo liceo scientifico, il Luigi Siciliani di Catanzaro. «Non mi sono sentito un emigrante, anche se ho dovuto pagare il soggiorno. All’Infn mi hanno accolto come uno di loro e sono stato fortunato perché l’alternanza è stata in linea con ciò voglio fare: l’ingegnere, a Torino».
Le storie di Oriana e Francesco sono le
due facce della riforma della Buona scuola che ha introdotto l’alternanza obbligatoria tra studi ed esperienze lavorative per gli studenti degli ultimi tre anni delle superiori e che, dal 2018, è prevista come materia dell’esame di Stato. Un piano da 200 ore per ogni studente del liceo e da 400 ore per quelli degli istituti tecnici e professionali, con l’obiettivo di portare i ragazzi in azienda. Una legge che ha subito causato non pochi problemi agli istituti e ai professori, che non sanno dove piazzare gli studenti. E su cui ora è possibile fare un primo bilancio.
Partito lo scorso anno con 653 mila alunni, nel 2018 una volta a regime
il programma riguarderà un milione e mezzo di studenti. Per evitare il flop, il ministero dell’istruzione ha messo sul piatto oltre 100 milioni di euro per la formazione dei professori-tutor e ha inserito tra le strutture che possono ospitare i ragazzi associazioni del terzo settore, enti ecclesiastici e sportivi, che si vanno ad aggiungere ad aziende, camere di commercio e ordini professionali.
Per quanto riguarda i criteri che rendono valida un’alternanza, però, si naviga ancora a vista. Così come sulla carta dei diritti e dei doveri con cui l’alunno dà la sua valutazione. Il Miur l’ha promessa ma ancora non c’è: tanto che l’Unione degli Studenti ha lanciato una campagna per farla scrivere dai ragazzi.
Finisce così che l’alternanza corre lungo la penisola
tra casi di eccellenza e storie di sfruttamento. In un contesto che finisce per ricalcare il divario tra Nord e Sud quando si parla di lavoro, con gli studenti settentrionali privilegiati rispetto ai compagni meridionali. Una situazione certificata anche da Carlo Mariani assieme a un gruppo di ricerca di Indire, l’istituto nazionale per la documentazione del Miur, che ha analizzato i fattori determinanti della buona alternanza: impiego di tecnologie, sviluppo creativo e spirito d’impresa. Si scopre, senza troppe sorprese, che l’innovazione si registra nelle scuole vicine ai cluster industriali, alla meccanica 4.0, ai poli manifatturieri, alle reti d’impresa, alla Confindustria.
Per le altre, invece, le cose non vanno così bene, come si capisce ascoltando le storie dei ragazzi.
C’è anche chi pulisce i bagniVincenzo, del liceo linguistico Mazzini di Vittoria, nel ragusano, parla ancora con rabbia della sua alternanza: «Ci hanno lasciato tre giorni nell’aula magna dell’università di Ragusa ad ascoltare un referente di un’associazione per un progetto di valorizzazione dei beni artistici. L’unica cosa valorizzata è stata la sua associazione:
si è fatto pubblicità. E ha chiesto se tra noi c’erano volontari per un lavoro, senza troppe spiegazioni. Insomma, cercava manodopera gratuita».
Il liceo scientifico Einstein a Milano, invece, ha avviato quest’anno
un percorso con l’Eni, uno dei campioni dell’alternanza, secondo il Miur, assieme ad altre quindici aziende, tra cui McDonald’s, Zara e General Electric. Jacopo è stato tra i fortunati: ha speso una settimana tra scuola e azienda, con i dipendenti del cane a sei zampe a fare da tutor. Il pranzo in mensa era offerto, a volte persino la merenda: «Ho visto come si lavora nei laboratori e ho selezionato i curriculum di alcuni candidati. Il 95 per cento di noi, quando Eni ci ha chiesto del nostro futuro, non sapeva rispondere. Io voglio fare il biologo e quest’estate, in vacanza in Calabria, cercherò un lavoretto: non posso fermarmi ora».
Anche Alessia, del liceo classico Forteguerri di Pistoia, ha le idee chiare. Aveva trovato, da sé, i contatti per fare l’alternanza agli Uffizi di Firenze: «Pistoia è capitale della cultura, di occasioni ce ne sono. E invece ci hanno fatto fare lezione sulla certificazione del biologico. Ci hanno chiesto le nostre preferenze, ma poi ci hanno lasciato alla deriva con progetti incompatibili. Cosa racconto alla maturità se l’alternanza è materia d’esame? Spero nello stage estivo».
Nadia, diciottenne di un istituto alberghiero di Bari,
ci ha raccontato di aver lavato bagni e pavimenti anziché stare in cucina, come prevedeva l’alternanza. Non dirà il nome del ristorante e della scuola: è stata rimproverata dal dirigente e teme che non la facciano lavorare finiti gli studi.
Al liceo Zaleuco di Locri l’alternanza è invece affare per pochi. «Qui le aziende vedono gli studenti come un peso», racconta Luigi Fazzolari, che oggi dirige la scuola, «così abbiamo creato convenzioni con studi professionali, ma per pochi ragazzi alla volta». Gli studenti sono finiti a venti chilometri di distanza, a Bianco e a Roccella Ionica: in udienza con gli avvocati, sul cantiere con gli architetti, dal commercialista. Ma il problema non sono solo le aziende. «Manca la formazione nelle scuole su come progettare », spiega Patrizia Pilato, preside dell’istituto tecnico Michele Foderà di Agrigento. Che aggiunge: dobbiamo individuare, a nostre spese, formatori esterni per co-progettare e per evitarlo ho mandato i miei ragazzi all’Inail: almeno apprendono la sicurezza sul lavoro e la previdenza».
Mondi che non si parlanoPer Antonio Guida, dirigente dell’istituto linguistico e tecnico economico Marco Polo di Bari: «Al Sud scuola e lavoro sono due mondi che fino a ieri si odiavano». Perciò ha scommesso su un ibrido: «L’alternanza si fa con l’azienda, ma in modalità “service learning”, ovvero un servizio utile a loro e al territorio. Grazie alle risorse della fondazione Stiftung Mercator e al Goethe-Institut, partecipiamo a un network di 30 scuole pugliesi e lucane per un’alternanza con la rete tedesca RuhrFutur».
Il liceo scientifico e musicale Bertolucci di Parma ha
costruito l’alternanza in service learning con l’Università di Bologna e il progetto europeo Horizon2020. L’obiettivo era creare un centro di analisi e ricerca e gli studenti ci sono riusciti: hanno presentato i loro risultati al sindaco Federico Pizzarotti sul tema, politicamente scottante, dell’inceneritore. E la prossima estate incontreranno gli euro-parlamentari, a Bruxelles. «Era l’unico modo per valutare le competenze sviluppate dagli alunni», spiega il dirigente Aluisi Tosolini , «perché il problema della riforma è anche la schizofrenia: ci chiedono di dare voti, ma non si può fare sulle competenze. Se il Miur non sa valorizzare e valutare le competenze, non si stupisca se le scuole improvvisino».
«Ma il problema della valutazione delle competenze in alternanza è la coda di una questione più grande», aggiunge Simone Giusti, docente formatore all’università di Torino, «è la didattica della scuola che si basa ancora sulle nozioni: se non si cambia il sistema di base, quale alternanza per competenze si può fare?».
Se l’azienda è rigidaIn General Electric, allo stabilimento del Nuovo Pignone, hanno quasi triplicato le ore di alternanza e c’è una dura selezione degli studenti, perché chi svolge uno dei due percorsi (meccatronica o logistica) ha qualche possibilità di rimanere in azienda. Come una delle prime ragazze in alternanza: dall’istituto professionale è stata assunta a tempo indeterminato.
La multinazionale ha 60 progetti per 12 mila studenti nelle sue sedi di Talamona, Massa, Firenze, Vibo Valentia e Bari. «Siamo legati al territorio: se un investitore trova un tessuto prolifico, è più propenso a investire », spiega Ludovica Fiaschi, che dal 2008 si occupa di formazione per la divisione Oil & Gas, «e poi c’è l’obbligo morale: rispondere alla cittadinanza».
Per Assolombarda, che tiene insieme 5.786 imprese, esiste un problema per le aziende: «Non è che non vogliano gli studenti», spiega il vice presidente Massimo Giovanardi, «è che
non sanno come muoversi. Per questo abbiamo predisposto un manuale per spiegare che si può fare».
L’Assolombarda ha creato una piattaforma digitale in cui far incontrare progetti e competenze e ha stilato un elenco per le competenze acquisite a fine progetto, oltre a una tabella su quelle trasversali. Un modello rigido, spiegano, «ma inevitabile».
Per il demografo dell’università Cattolica Alessandro Rosina, che coordina il Rapporto Giovani dell’Istituto Toniolo, «il problema non è la rigidità dei modelli o pulire bagni e pavimenti, ma fare in modo che i ragazzi si inseriscano in un tessuto socio-culturale ricco, che ci sia occasione di motivazione e sviluppo delle competenze: più ti scontri con i tuoi limiti, più vuoi imparare. Invece l’alternanza della Buona scuola ha obiettivi generici, nessun piano di stima d’impatto, scarsa uniformità sulla valutazione. Eppure gli studenti, che vedono e temono la disoccupazione, chiedono alla scuola di essere rafforzati proprio sulle competenze per poi stare sul mercato».
Gli insegnanti, nel loro piccolo, provano a farlo. Anna Maria Piemonte insegna storia dell’arte e cura l’alternanza per i ragazzi autistici del liceo artistico Ripetta-Pinturicchio di Roma: la riforma non prevede il docente di sostegno in alternanza. O ancora, Susanna Battistini, insegnante di spagnolo al liceo scientifico Carlo Livi di Prato, che ha passato l’estate a studiare la legge, organizzando percorsi di alternanza che gli studenti hanno potuto scegliere.
Quasi tutti i ragazzi protagonisti di questi racconti, anche quelli più sfortunati, sostengono che persino un’esperienza dietro al bancone di un McDonald’s andrebbe bene, purché si apprendano competenze e abilità. «Per stare sul mercato», dicono in coro, «devi imparare a creare il tuo lavoro».