La norma impone la conservazione degli ovuli fecondati ma non trasferiti nell'utero. Che possono rimanere sospesi in eterno. Ma ora c'è chi chiede la possibilità di scegliere

Imponderabile è l’aggettivo più vicino a spiegare quanto si percepisca nel sollevare una di quelle asticelle. Il peso della vita in potenza sembra quasi astratto, di certo impossibile da quantificare da non scienziati. Eppure in fondo a ognuna di quelle stanghette c’è una materia, e una materia che attraversa speranze, progressi, medicina e politica: la realtà sospesa degli embrioni crioconservati. Ovvero delle cellule fecondate in vitro e non (ancora) trasferite in utero.

In Italia la legge impone la loro conservazione in eterno. A prescindere dalla volontà della coppia o della madre, a prescindere dalle eventuali diagnosi che possano rendere parte di quegli embrioni non idonei al trapianto, a prescindere dal tempo trascorso dalla donazione. A prescindere: le cellule fecondate dovranno restare in azoto liquido per i secoli dei secoli, così sia. È un ante-limbo difficile anche solo da immaginare: un futuro all’infinito di una vita non ancora tale. Ma è un limbo che esiste. Che ha dei luoghi, un peso, delle ricevute, e che solleva d’obbligo molte domande. Nei centri pubblici e privati dove le coppie tentano la strada del concepimento in vitro infatti comparti allarmati e monitorati 24 ore su 24 conservano decine di migliaia di quelle asticelle imponderabili destinate all’eternità. Ma sui numeri, gli esiti e le promesse di questa conservazione, mancano ancora molte risposte. Fra silenzi, dubbi e ipocrisie su un tema scomodo.

L’ufficio personale di Liliana Restelli è una stanza tappezzata di lettere e foto di bimbi, oltre a un disegno di una “sperm whale”, un capodoglio, o a un poster della val di Fassa. Con la sua squadra di sei biologi, tutte donne ad eccezione di un ragazzo, gestisce il laboratorio pubblico più grande d’Italia per la procreazione medicalmente assistita, al Policlinico di Milano, struttura clinica e istituto scientifico. Qui non può entrare nessuno, nemmeno il primario. È il regno protetto delle biologhe di Restelli. Un regno rigidamente ordinato. «Gameti ed embrioni restano in azoto dentro banche che devono essere tenute sotto controllo in modo perfetto, sia per la tracciabilità della singola cellula, che è fondamentale e deve essere rigorosa, sia per la loro conservazione». Per entrare nella stanza in cui sono tenuti i freezer bisogna indossare maschera e guanti. Un allarme vieta l’ingresso in caso di mancanza d’ossigeno dove si trovano a terra i contenitori. Sulla scrivania, Restelli tiene un dossier con tutte le sentenze, le leggi e i decreti che regolano la sua disciplina. «Faccio questo lavoro da vent’anni, e in vent’anni è cambiato tutto».

Dati
Procreazione assistita, l'età della donna rimane la barriera più difficile da superare
18/8/2017
Nell’ultimo rapporto sulla fecondazione assistita, presentato dal ministero a fine giugno, l’Istituto superiore della Sanità (Iss) ha pubblicato come ogni anno i dati sui percorsi che permettono la nascita di quelli che contano ormai per il 2,6 per cento di bambini del paese, concepiti in provetta. E mostra che nel 2015, in Italia, sono stati formati in vitro 111mila embrioni. Di questi, 74mila sono passati nel corso dell’anno dal concepimento all’atto (qui i numeri della Pma in Italia).

Mentre gli altri, oltre 34mila, poco più del 30 per cento, sono stati congelati in attesa di un prossimo tentativo. Può trattarsi di congelamenti a prospettiva indefinita come a brevissima durata: oggi la prassi di molti centri prevede infatti un passaggio obbligato “in freezer” prima del trasferimento, perché darebbe risultati migliori permettendo al corpo della donna di risposarsi dopo la sovra-stimolazione necessaria per produrre ovociti in gran numero e imitando i giorni che trascorrono dalle tube all’utero prima dell’assestamento del feto in divenire.
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Fra le informazioni contenute nella relazione ne mancano alcune ingombranti, denuncia Filomena Gallo, avvocato e segretario dell’Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica: «Sappiamo che il registro raccoglie anche le informazioni sulle diagnosi pre-impianto, rese possibili da una sentenza di Corte Costituzionale, che nel 2009 ha eliminato il numero di tre gameti fecondabili. Di cui non c’è traccia nei risultati resi pubblici dal ministero però. Inoltre sarebbe importante sapere quanti embrioni oggi mantenuti non saranno mai trasferiti perché comporterebbero gravi problemi alla donna.

Nel dossier presentato al Parlamento, manca qualsiasi accenno». Per questo l’associazione ha depositato una nuova richiesta di accesso agli atti, dopo un’interrogazione parlamentare che non ha ricevuto risposta. «La nostra impressione è che il motivo del silenzio sia politico: non vogliono ammettere elementi su cui ci sarebbero proposte alternative». Sul destino degli embrioni eventualmente non idonei a tentare un futuro in gravidanza ma ugualmente conservati d’obbligo infatti l’associazione della galassia Radicale è netta, e immagina come prospettiva, ad esempio, la ricerca scientifica. «Sappiamo che le cellule staminali estratte dagli embrioni sono ancora molto importanti per le ricerche cliniche su malattie comuni come il Parkinson», spiega Filomena Gallo. Ma in Italia, dopo il naufragio del referendum del 2005 che non raggiunse il quorum proprio per abrogare diversi divieti della legge dell’anno prima, l’argomento è notoriamente tabù.

«In Francia e in Inghilterra, come in altri paesi, non ci sono leggi che tutelino di principio gli embrioni crioconservati. Esistono diverse opzioni fra le quali può scegliere la coppia», spiega Giulia Scaravelli, responsabile per l’Istituto superiore della sanità del registro sulla procreazione assistita. La coppia può scegliere: se aspettare e conservare quegli embrioni per farli diventare, se si riesce, un prossimo bambino, se donarli alla ricerca, se destinarli all’adozione, permettendo vengano trasferiti ad altre donne, oppure se lasciare che vengano smaltiti. Tutte prospettive vietate in Italia dal 2004. La legge non proibiva infatti soltanto qualsiasi sperimentazione. Eliminava in realtà anche la possibilità stessa di congelare le cellule fecondate: i blastocisti andavano utilizzati e trasferiti tutti “a fresco”, come si dice in gergo, quella singola volta. Significava per le donne sopportare di nuovo il ciclo dall’inizio (stimolazione, prelievo, concepimento in vitro, trasferimento) per provare un secondo tentativo.

Nel 2009 però una sentenza, come è successo per molti aspetti della legge, ha fatto cadere il divieto. Imponendo di produrre sì solo un numero «strettamente necessario» di embrioni, ma con la possibilità di conservarli per il futuro. Sul “per quanto”, conservarli, però, la commissione di scienziati e giuristi chiamata a dare il proprio parere bioetico si spaccò. Fra una maggioranza, che stabilì l’obbligo alla preservazione in eterno, a spese dei centri o dello Stato (per la protezione prioritaria «della vita») di quelle cellule in azoto. E alcuni professori, che si dissociarono da questa posizione, chiedendo di porre un limite, una durata massima, sufficientemente lunga ma con un termine, entro cui prevedere quell’impegno, come d’altronde accade in molti paesi europei che hanno fissato tetti a due, cinque, o più anni. Quell’anno i congelamenti passarono in un balzo da 763 a 7.337: le coppie presero subito quella possibilità prima negata, una possibilità di fatto in più per «avere un giorno un bambino in braccio: è questo l’unico motivo per cui si congelano gli embrioni, bisogna ricordarlo», insiste Scaravelli. Nel 2010 raddoppiarono ancora, a 16.280. E così via (vedi grafico a pag. 67). Ora, se sottraiamo agli embrioni vitrificati (la procedura oggi più comune per fermarli nel tempo) quelli scongelati, negli ultimi cinque anni, si arriva a uno stock complessivo di 50mila embrioni. Significa circa 10mila cellule “avanzate”, ogni anno. È un calcolo da considerare con molti paletti, essendo una fotografia istantanea, che conta anche quelli destinati al trasferimento un’ora dopo l’invio per la statistica, e cumulativa, che non segue cioè l’esito di ogni ciclo, ma ne fa una somma complessiva. Però permette di avere un’idea dell’estensione di quella realtà sospesa nei contenitori ghiacciati dei 178 centri per la fecondazione in vitro che hanno svolto attività nel 2015.

E se alcuni, non si sa quanti (come denuncia l’associazione Coscioni), sono non idonei e vengono conservati ugualmente in eterno anche se malati, altri invece sono adatti al trasferimento. E restano come un interrogativo costante nella vita delle coppie. «Ti fai moltissime domande. Al momento del concepimento è ovvio che vuoi tenere aperte tutte le possibilità, è il tuo desiderio più grande, avere un bambino. Ma dopo? Sai di avere lì degli embrioni. Nessuna se lo dimentica. È pesante», racconta Restelli, la biologa del Policlinico di Milano. «Eppure noi avremo ricevuto forse una decina di richieste, su 400 pazienti, per sapere come stanno gli embrioni. Dagli altri: niente». Le coppie non dimenticano, ma nemmeno si fanno avanti per sapere. Si fa cadere tutto in una sorta di piccolo oblio. «Una mia amica ha avuto un primo figlio. Dopo tre anni è tornata ed è riuscita a portare avanti la gravidanza con un altro degli embrioni conservati», racconta Rastelli: «Ma ora le resta un terzo embrione mantenuto qui. Si chiede, lo so, che farne». Sui forum online le conversazioni a riguardo sono migliaia. Le donne possono ripensarci - il partner, tra l’altro, dopo aver dato il suo consenso al concepimento non deve più essere per forza d’accordo per un trasferimento che avvenisse dopo anni - ma per quanto tempo?

Si rientra nel limbo. Fra questo, c’è un limbo ancora più stretto. Che riguarda gli embrioni conservati prima della legge 40. Un decreto dell’allora ministro alla Salute Girolamo Sirchia, ad agosto del 2004, stabilì cosa fare di quelle cellule. Sancendo che i centri avrebbero dovuto contattare le coppie per sapere se volevano “abbandonare” gli embrioni. Quelli sarebbero stati trasferiti alla Biobanca di Milano, che ricevette anche un importante finanziamento a riguardo. «939 coppie risposero, dando la rinuncia scritta su 3.862 embrioni», spiega Scaravelli, dell’Iss «Mentre fu impossibile per i centri rintracciare le altre 1.154 madri registrate». Così rimasero altri 6.279 blastocisti senza dichiarazioni. Né gli uni né gli altri comunque vennero mai trasferiti alla Biobanca, e restano tuttora nei centri pubblici o privati a spese degli stessi (le coppie pagano per la conservazione degli ovociti, una media di 200 euro all’anno, ma non degli embrioni). «Avevamo allestito tutto, ma non arrivò mai il decreto attuativo. Alla fine decidemmo di riconvertire l’area alla conservazione dei cordoni ombelicali, che già facciamo, per non sprecare i fondi ricevuti», racconta Paolo Rebulla, l’ex direttore del centro, ora in pensione.

Ragionare su questi temi è complesso, ma necessario. «La legge ci ha fatto inquadrare gli embrioni come vita. Io sono cambiato, per via di quella legge. Oggi mi turba pensare che prima del 2004 buttavamo quelli in eccesso», riflette Edgardo Somigliana, il direttore medico del centro del Policlinico. «Mi occupo di questi temi dal 1998 e ho ascoltato tantissimi scienziati e pareri diversi», ragiona Filomena Gallo: «E ritengo che l’embrione sia vita quando viene trasferito in utero. Se non c’è trasferimento non sappiamo come definirlo se non una blastocisti, una cellula». È un argomento su cui «non esiste un parere “di maggioranza”, perché le sensibilità sono troppo diverse», aggiunge Rebulla. Ma su cui manca, oggi, qualunque possibilità di scelta da parte delle coppie: «Ho ricevute alcune lettere di rinuncia, le ho registrate, ma non hanno valore legale», racconta la biologa Restelli. Oggi una coppia non può rinunciare, non può decidere. Saprà soltanto di avere lì fermo a -196°, quel germoglio - etimologia di entrambe le definizioni. Per sempre.