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La guerra della famiglia Torlonia: tra sequestri e il (quasi) crac della Banca del Fucino

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L'istituto di famiglia a un passo dal fallimento acquisito in extremis da una strana cordata. Sullo sfondo di una faida che divide una delle famiglie più ricche e potenti della Roma vaticana. Ecco cosa svelano i documenti di questa dynasty italiana

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C'è una storia di malafinanza dietro i fuochi d’artificio della battaglia legale che divide gli eredi della nobile casata romana dei Torlonia. Anni di prestiti avventati, acrobazie di bilancio, investimenti sballati si sono mangiati reputazione e patrimonio della Banca del Fucino. Una zavorra di operazioni ad alto rischio ha mandato a picco l’istituto fondato a Roma nel 1923 dal senatore del regno Giovanni Torlonia, erede della colossale fortuna di una dinastia con oltre due secoli di storia alle spalle. Servono 200 milioni per evitare il crac e all’orizzonte è già comparso un cavaliere bianco con le insegne della neonata Igea Banca, partita da Catania per sbarcare in forze nella capitale con Mauro Masi, già direttore generale della Rai, sulla poltrona di presidente.

I soldi freschi andranno a coprire i buchi in bilancio e a rilanciare l’attività di un istituto di credito da sempre legato a doppio filo al Vaticano, tanto da essere considerato a lungo una sorta di succursale dello Ior, la banca del Papa. Le grandi manovre per l’ingresso dei nuovi azionisti sono partite da mesi, ma non sarà facile chiudere i conti con un passato su cui gravano ombre e sospetti. Il forziere dei Torlonia, per quasi un secolo stanza di compensazione degli affari della borghesia capitolina, è affondato nell’arco di soli tre anni, bruciando mezzi propri per oltre 100 milioni.

Ad alzare il velo sulla fallimentare gestione del presidente Alexander Poma Murialdo, giovane rampollo della dinastia, è stata la Vigilanza di Bankitalia. Dopo anni di richiami formali e informali, gli ispettori inviati dal governatore Ignazio Visco hanno bussato alla Banca del Fucino nel febbraio del 2017 e l’esito dei controlli, terminati a fine aprile, è stato disastroso. “Sfavorevole”, questo il voto finale, il più basso possibile, attribuito all’istituto di credito dei Torlonia nella relazione riservata che L’Espresso ha potuto esaminare. Il verdetto della Vigilanza, accompagnato da una multa di 350 mila euro, ha di fatto costretto la famiglia romana, che controllava per intero il capitale della banca, a cercare al più presto un finanziatore disposto a tappare le falle in bilancio.

Il salvataggio, già complicato di per sé, ha finito per sovrapporsi alla disputa per la divisione dell’eredità di don Alessandro Torlonia, morto a 92 anni nel dicembre del 2017. Il primogenito Carlo ha impugnato il testamento che, a suo dire, avrebbe favorito gli altri figli del patriarca scomparso. E cioè: Giulio, Francesca e Paola, madre di Alexander Poma Murialdo, dal 2014 a capo della banca e nominato dal nonno Alessandro esecutore testamentario. Nel ricorso si elencavano una serie di manovre architettate, secondo l’accusa, per aggirare la reale volontà del defunto e depauperare la quota di legittima destinata all’erede più anziano. A novembre del 2018 fece scalpore la notizia che il giudice Fulvio Vallillo di Roma aveva disposto il sequestro giudiziario di tutti i beni di famiglia. Un patrimonio dal valore stimato oltre due miliardi di euro che comprende, tra l’altro, dimore storiche come Villa Albani, sulla Salaria, Palazzo Torlonia, in via della Conciliazione, a due passi dal Vaticano e una collezione unica al mondo di 630 statue antiche greche e romane. Ad aprile dell’anno scorso, però, una nuova sentenza (dopo che le opere sono state inventariate, evitando così il rischio di dispersione delle stesse) ha revocato il precedente provvedimento del tribunale.
Mauro Masi

Si è chiuso così con un nulla di fatto il round d’apertura di una contesa destinata a continuare su un altro fronte, quello finanziario. Sotto accusa, questa volta, è finita la gestione della Banca del Fucino presieduta da Poma Murialdo, 32 sportelli, in gran parte nella capitale, e un miliardo circa di attività in bilancio. Le carte di Bankitalia portano acqua al mulino di Carlo Torlonia che accusa il nipote di aver condotto l’istituto sull’orlo del crac. Nella relazione della Vigilanza si legge tra l’altro della «mancata inclusione tra i clienti ad alto rischio di diversi soggetti interessati da richieste degli organi inquirenti e di alcune controparti collegate a politici nazionali». Nessun nome, ma i rilievi degli ispettori suonano come la conferma di quella che viene definita come «un’accentuata rischiosità creditizia».

Per anni - accusa Bankitalia - i vertici della Banca del Fucino sono rimasti colpevolmente inerti mentre l’istituto accumulava crediti a rischio e quando finalmente, messi alle strette dalla Vigilanza, amministratori e dirigenti si sono decisi a correre ai ripari, i conti erano ormai fuori controllo. In sostanza, secondo quanto si legge nel rapporto ispettivo, per anni è stata prassi comune elargire prestiti senza verificare adeguatamente le garanzie presentate dal cliente. Peggio ancora: i finanziamenti di difficile rimborso sono stati iscritti a bilancio senza adeguate svalutazioni.

Gli ispettori hanno anche scoperto che «il rinnovo dei fidi» avveniva «sulla base di meri promemoria per la direzione». Casi isolati? Mica tanto, se è vero che questa procedura semplificata e del tutto irregolare è stata adottata, si legge nei documenti di Bankitalia, per un totale di 277 pratiche del valore complessivo di 112 milioni. Al termine dell’ispezione del 2017 la Vigilanza impone finalmente un giro di vite. Risultato: gli amministratori della Banca del Fucino, con Giuseppe Di Paola alla direzione generale, sono infine stati costretti ad accantonare 70 milioni di euro a copertura di nuove possibili perdite. La manovra ha lasciato il segno sul conto economico. Il bilancio che nel 2014 e nel 2015 aveva viaggiato in sostanziale pareggio si è chiuso con una perdita di 47 milioni nel 2016.

C’è poco da fare, a questo punto. Il patrimonio dell’istituto è ormai ben al di sotto del livello di guardia. Servono risorse fresche e in gran fretta: 50 milioni di nuovo capitale entro la fine del 2017, ordina Banca d’Italia. I Torlonia cercano investitori disposti a sottoscrivere obbligazioni per 40 milioni. C’è anche l’ipotesi di chiedere un prestito di 25 milioni a Ubi banca. Entrambe le ipotesi sfumano però nel giro di qualche settimana, così come viene archiviata anche un’intesa preliminare raggiunta all’inizio del 2018 con il fondo Barents.

Il salvataggio va ai tempi supplementari e per puntellare i conti pericolanti dell’istituto, Poma Murialdo ricorre all’ingegneria finanziaria. A fine 2016 la Banca del Fucino compra per 30,2 milioni il palazzo di via Tomacelli, nel centro di Roma, che già occupava in affitto. Chi vende? È un affare in famiglia, perché l’immobile viene ceduto dalla Società romana di partecipazioni sociali (Srps) che è controllata dalla holding Torlonia partecipazioni. L’operazione non è piaciuta a Bankitalia, in quanto la valutazione del valore del palazzo era un atto di parte, deciso solo dal venditore: secondo alcune stime, il palazzo valeva di meno. Particolare importante: tutte le società citate erano gestite da Poma Murialdo, costretto a destreggiarsi tra più ruoli in commedia, spesso sul filo del conflitto d’interessi.

La compravendita va in porto, ma la Banca del Fucino non paga il conto e la Srps rinuncia al proprio credito, di fatto finanziando l’istituto di credito che può mettere così a bilancio 30 milioni circa di attività supplementari (il palazzo di via Tomacelli). Non è ancora finita, perché a maggio del 2017 Torlonia partecipazioni acquista una quota dell’8 per cento di Banca del Fucino messa in vendita dalla propria controllata Srps. Il pacchetto azionario passa di mano per 31,2 milioni. Un’operazione «assolutamente irragionevole ed imprudente», accusa Carlo Torlonia, perché quei titoli erano di fatto privi di valore, visto che la banca era ormai prossima al dissesto. Questa tesi è stata accolta dal tribunale di Roma che con sentenza del 22 dicembre scorso ha disposto un sequestro conservativo per 39 milioni a carico di Poma Murialdo e dei tre componenti del collegio sindacale di Torlonia partecipazioni, Mauro Longo, Alberto Sabatini e Paolo Saraceno.

Discutibili sul piano formale, i giochi di sponda tra le società dei Torlonia sono serviti più che altro a guadagnare qualche mese in vista dell’inevitabile resa dei conti. Nel 2017 il bilancio della Banca del Fucino si chiude ancora in rosso per 27 milioni, che si aggiungono ai 47 milioni di perdite dell’anno precedente. Bankitalia incalza, chiede che venga colmato quanto prima un deficit di capitale che rischia di affondare l’istituto. L’allarme è tale che viene interpellato anche il Fondo interbancario di tutela dei depositi (Fitd), per un intervento d’emergenza da 40 milioni di euro. Non ce ne sarà bisogno, perché arriva il salvagente di Igea Banca.

L’affare matura nei primi mesi del 2019, mentre gli ispettori della Vigilanza sono nuovamente al lavoro negli uffici dell’istituto dei Torlonia. La situazione ormai è compromessa. Nel 2018 il patrimonio netto è andato sotto zero: negativo per 1,9 miliardi di euro. La perdita dell’attività creditizia, che ammonta a 36 milioni, è stata parzialmente compensata da alcune partite fiscali straordinarie. Il rosso di bilancio approvato solo a ottobre del 2019, a dieci mesi dalla chiusura dell’esercizio, si ferma così a 5 milioni, ma nel frattempo i depositi si sono ridotti di un quarto e i prestiti alla clientela hanno fatto segnare un calo del 18 per cento. Con questi numeri l’unica alternativa al fallimento è la vendita. E così, a maggio del 2018, gli azionisti di Banca del Fucino, cioè le società della famiglia Torlonia, danno via libera a un aumento di capitale da 200 milioni che Igea Banca si dichiara pronta a sottoscrivere.

Il salvataggio sarà finanziato da una compagine quanto mai eterogenea. In prima fila c’è l’imprenditore Giorgio Girondi, patron del gruppo Ufi Filter (filtri per auto) che si è impegnato a investire 25 milioni tramite una sua società inglese. Insieme a Girondi troviamo tra gli altri la fondazione Banca del Monte di Lombardia, gli enti pensionistici dei periti agrari (Enpaia) e degli infermieri (Enpapi), la cassa mutua dei tabaccai (Ecomap) e decine di piccoli azionisti che a suo tempo avevano investito nella Popolare dell’Etna, finita in amministrazione straordinaria e rilevata tre anni fa da Igea Banca.

A dirigere le operazioni, insieme al presidente Masi, sarà un manager bancario di lungo corso come il siciliano Francesco Maiolini. Entrambi si portano in dote un patrimonio di relazioni nel mondo politico che certo non saranno d’intralcio sulla strada del rilancio della malconcia Banca del Fucino. Masi, che ha iniziato proprio in Bankitalia la sua carriera di grand commis, è stato sottosegretario alla presidenza del Consiglio con Silvio Berlusconi e capo di gabinetto di Massimo D’Alema, per poi atterrare alla Rai e quindi alla Consap, la concessionaria pubblica di servizi assicurativi, di cui è tuttora presidente. Maiolini invece, gran navigatore del potere siciliano sin dai tempi di Salvatore Cuffaro, aveva creato da zero Banca Nuova, l’istituto palermitano controllato dalla Popolare di Vicenza di Gianni Zonin, da cui si è provvidenzialmente congedato prima del crac del 2015.

La seconda vita della Banca del Fucino è cominciata nelle scorse settimane con il cambio della guardia nel consiglio di amministrazione, ora presieduto da Masi con Maiolini vice. Nel frattempo, però, Poma Murialdo ha negoziato i termini della resa. Nel testo dell’intesa con Igea Banca si legge infatti che i nuovi soci dell’istituto romano in crisi si impegnano «a rinunciare a proporre eventuali azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori e sindaci dimissionari».

Capitolo chiuso, quindi? Non è detto, perché Banca d’Italia ha inviato a Consob e procura della Repubblica le carte dell’ispezione in Banca del Fucino. Come dire che l’ultimo atto della storia secolare dei banchieri Torlonia potrebbe andare in scena in tribunale.

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