Le aree contaminate dalla Solvay in Italia, il disastro dei pesticidi in India, lo scandalo dell’ammoniaca in Russia e dei prodotti chimici tossici in Indonesia. Mentre migliaia di famiglie invocano bonifiche e risarcimenti, i Pandora Papers svelano le manovre dei big delle industrie più inquinanti per mettere al sicuro montagne di soldi nei paradisi fiscali

Un mattino del febbraio 2021 carabinieri e magistrati arrivano alla fabbrica della Solvay a Spinetta Marengo, in provincia di Alessandria. Entrano decisi negli uffici e, sventolando fogli di autorizzazioni, sequestrano documenti. Che non fosse un raid normale, lo capiscono subito gli impiegati, temendo il peggio. Con più di un motivo. Infatti, sulla base di esami di laboratorio svolti in precedenza, erano state trovate tracce di un nuovo tipo di PFAS, ovvero sostanze perfluoroalchiliche provenienti dalla Solvay, in falde acquifere, a distanza di chilometri.

 

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Sono noti i rischi associati a quelle sostanze. Si tratta di composti che appartengono a una classe di più di 4000 prodotti chimici, definiti “perenni” perché persistono nell'ambiente e non si decompongono. Sono usati per rivestire le padelle aderenti e produrre sofisticate plastiche termoresistenti. Alcuni di questi composti possono causare il cancro negli animali e danni alla tiroide negli esseri umani, ma non tutti sono stati studiati ― e solo in alcuni stati sono regolamentati.

I dipendenti dell’impianto di Spinetta Marengo conoscono bene queste vicende. Fino al 2001 la loro fabbrica rientrava nel perimetro di Ausimont, quindi del colosso Montedison. Poi, nel 2002, entra in scena Bernard de Laguiche, allora alto dirigente della Solvay che la compra con un obiettivo strategico: fare concorrenza al gigante americano DuPont, produttore del famoso Teflon, usato proprio nelle padelle antiaderenti. De Laguiche non è soltanto un top manager. È, soprattutto, un discendente di Alfred Solvay, l’imprenditore-scienziato che fondò la multinazionale belga più di un secolo e mezzo fa. E, come molti altri membri della famiglia fondatrice, è un importante azionista.

Nel 2008 degli ispettori ambientali rilevano anche l'esistenza di cromo esavalente, altamente cancerogeno, e altre sostanze altamente tossiche in alcuni pozzi vicino allo stabilimento piemontese. Scatta l'allarme, ma soprattutto un'indagine penale contro una ventina di funzionari e top manager, compreso Bernard de Laguiche. Nel 2009, mentre la procura di Alessandria indaga sulle cause e le responsabilità dell’inquinamento, de Laguiche ― poi assolto ― e i suoi stretti familiari cominciano a trasferire beni del valore di oltre 45 milioni di euro in alcuni trust a Singapore e in Nuova Zelanda, noti paradisi fiscali.

A rivelare i contorni della transazione sono i Pandora Papers, un'inchiesta mondiale coordinata dall’International Consortium of Investigative Journalists (Icij), rappresentato in Italia dall'Espresso. In tutto, sono 11,9 milioni i file che svelano come i ricchi e i potenti spostano ingenti patrimoni: ricorrendo a offshore incorporate in paradisi fiscali esentasse e gestendoli “da remoto”, senza mai mettervi piede. In particolare, la famiglia de Laguiche si è affidata a uno dei 14 studi internazionali, citati nei Pandora Papers, specializzati nella formazione di questo tipo di società, Asiaciti, con sede a Singapore.

I documenti segreti esaminati da Icij e L’Espresso rivelano anche come manager di aziende accusate di danni ambientali abbiano usato società di comodo e trust in giurisdizioni opache per eludere le tasse, o proteggere il proprio patrimonio da creditori, autorità giudiziarie o cittadini preoccupati per la propria salute. Come quelli di Spinetta Marengo.

Nel 2004, uno screening, condotto sul sangue dei lavoratori, aveva accertato la presenza di PFOA, acido perfluoroottanoico― un composto chimico poi dismesso per la sua pericolosità. Ne sanno qualcosa alcuni di loro, che all’epoca riscontrarono livelli di PFOA centinaia di volte superiori a un valore, all’epoca considerato come la soglia di sicurezza. Sono gli stessi che avevano segnalato la presenza di sostanze tossiche e assistito alla fuoruscita di una strana polvere giallastra contenente cromo esavalente in alcune zone dell’impianto. E che ne hanno pagato le conseguenze. Uno è stato licenziato per “comportamento ostruzionistico”, l'altro è stato costretto a dare le dimissioni in cambio di una liquidazione. La direzione della Solvay ha sostenuto che il loro rapporto di lavoro era stato troncato “per giusta causa”. Poco tempo dopo, a uno dei due è stato diagnosticato un raro cancro della pelle, tricoepitelioma, forse provocato dal contatto con prodotti chimici.

E ora, lo scandalo delle offshore con i nuovi dettagli. Grazie ai servizi di Asiaciti, proprio a Singapore de Laguiche ha costituito uno dei trust, dove sono state convogliati decine di milioni di euro di valore di azioni Solvay e altri asset. Si chiama “Cagibi”, come l'azienda agricola brasiliana dello stesso de Laguiche, uno dei beneficiari del trust insieme alla moglie e a due figli. E’ tramite una società registrata nelle Isole Vergini Britanniche che de Laguiche ha investito nelle azioni Solvay. E a lui i giornalisti di ICIJ si sono rivolti, chiedendo spiegazioni in merito. Il 23 settembre scorso de Laguiche, pur non volendo commentare l'affare delle offshore, ha fornito una giustificazione: quel suo investimento non era in risposta alle iniziative della magistratura italiana, né per evitare di pagare le tasse. Il giorno dopo, 24 settembre, ha però dato le dimissioni dal board della Solvay, e della società madre, la Solvac.

Da parte sua, la Solvay ha rilasciato ad Icij una nota nella quale l’azienda dichiara di impegnarsi “ a mantenere i più alti standard di sicurezza e di operazioni sostenibili”. Una frase non buttata lì a caso. Il management della multinazionale belga ricorda bene che nel 2019 la Corte di Cassazione ha confermato un precedente giudizio contro alcuni suoi dirigenti, ritenuti responsabili di danni ambientali. La Solvay è stata così costretta a risarcire, con 430 mila euro, i residenti di Spinetta Marengo e altre parti civili. Pesa ancora come un macigno il monito dei giudici della Corte suprema: la società avrebbe dovuto “direttamente adottare i rimedi per scongiurare pericoli alle persone e all'ambiente”. Un primo passo è stato in effetti compiuto con uno stanziamento di 30 milioni di dollari. Ma non è sufficiente per alcuni dei cittadini di Spinetta Marengo e le associazioni ambientaliste della zona: tra le altre cose, chiedono la bonifica totale del sito, come promesso, e l’interruzione della produzione del composto chiamato C604, recentemente rinvenuto nel Po. La Solvay sostiene che non rappresenta un elemento di preoccupazione per la salute delle persone. Un recente studio effettuato su alcuni organismi marini da un gruppo di ricercatori del CNR e dell’Università di Padova suggerisce, però, che il nuovo composto potrebbe essere rischioso per l’ambiente e per la salute umana.

Per il momento non si sa ancora quale sia il risultato delle analisi chimiche ordinate dalla magistratura dopo il blitz di febbraio. La direzione si è limitata a rilasciare un comunicato sostenendo che quel deflusso era dovuto a “eventi meteorologici imprevedibili”.
 

Altri casi di industrie che inquinano: UPL in India

Da Spinetta Marengo alla città di Jhagadia, nello stato indiano di Gujarat, ci sono meno di 7 mila chilometri. Anche qui, un fenomeno di inquinamento accomuna le due città. Un giorno di febbraio del 2021 una violenta esplosione, nel cuore della notte, distrugge buona parte di un impianto di proprietà della UPL Ltd, uno dei maggiori produttori di pesticidi del mondo. Il bilancio è pesante: 7 lavoratori morti, 53 feriti, case vicine danneggiate, prodotti tossici sparsi nell'area. Causa della catastrofe? Forse un malfunzionamento presso una delle reti della fabbrica dove, stando alle denunce delle autorità, i protocolli di sicurezza avevano “gravi buchi”. Una catastrofe che si aggiunge ad altri incidenti registrati negli stabilimenti dell’azienda indiana, insieme ad accuse di danni all'ambiente.

UPL, che ancora oggi è sottoposta ad un’indagine fiscale, ha risposto alle domande poste dai giornalisti di Icij sul disastro di Jhagadia. Secondo un portavoce “la società ha studiato misure per impedire simili incidenti nel futuro”. Ma i Pandora Papers dimostrano che Jaidev e Vikram Shroff, due senior manager, nonché figli del fondatore di UPL, un miliardario, possiedono almeno 10 società-schermo in giurisdizioni offshore. Vikram, che ha la cittadinanza britannica, dispone di uno yacht del valore di più di 3 milioni di euro intestato a una società delle British Virgin Islands (BVI). Lo ha fatto per “ragioni fiscali”, come risulta da un documento interno.

Ma non è tutto. UPL ha anche creato due dozzine di filiali in paradisi fiscali, tra questi le Seychelles e Dubai. Per motivare il proprio operato, i due fratelli Schroff hanno affidato, tramite gli avvocati, una dichiarazione al quotidiano “Indian Express”, partner di Icij: loro pagano “tutte le tasse dovute”. Inoltre, lo yacht é usato dalla famiglia, non per scopi commerciali. Infine, quelle “offshore sono nate in funzione di ogni loro investimento prima di concludere qualunque business”.
 

“Smettetela di avvelenare i nostri bambini!”

TogliattiaAzot ha sede nella città russa di Togliatti, che deve il suo nome al leader comunista Palmiro Togliatti. È uno dei più grandi produttori mondiali di ammoniaca, un componente dei refrigeranti per i frigoriferi e dei fertilizzanti. È di proprietà di Vladimir Makhlai e di suo figlio Sergey. Nel 2019, pur negando ogni addebito, sono stati tutti e due condannati in contumacia per appropriazione indebita. Sempre quell'anno, secondo un dossier dell'agenzia russa che vigila sui protocolli di sicurezza, nello stabilimento di TogliatiAzot si sono verificati più di 300 casi di violazioni ambientali e di lavoro. Non era la prima volta. In passato, gli abitanti di quell'area avevano contestato i dirigenti dalla fabbrica, urlando che venissero presi provvedimenti. Nel 2012, stanchi di promesse, i residenti avevano organizzato una grande manifestazione di protesta innalzando cartelli con la scritta: “Smettetela di avvelenare i nostri bambini”.

Incuranti di tutto ciò, i due titolari vivono all'estero. Il padre, nel Regno Unito e, il figlio, negli Stati Uniti. Sergey, addirittura, ha cambiato il suo nome in George Mack e ha perfino ottenuto la cittadinanza americana, oltre a quella di un piccolo paradiso fiscale, St Kitts e Nevis. Dai Pandora Papers risulta che proprio mister Mack è proprietario di almeno 7 trust offshore, da lui utilizzate, tra il 2000 e il 2018, come cassaforte per denaro liquido e azioni di molte società. In uno di questi, nel 2013, erano conservati ben 11 milioni e mezzo di dollari. In un altro, il “Mirror trust”, erano custoditi titoli per il controllo indiretto di TogliattiaAzot. Un terzo trust, “Three Continents”, era addirittura capofila di una complessa struttura finanziaria, che comprendeva più di 50 società e trust con sede in 7 giurisdizioni (St Lucia, Nuova Zelanda, Anguilla, Belize, Cipro e altre). E che si è scatenata in una raffica di investimenti, in campo immobiliare, nel ramo dell'energia e anche in altri settori, compresa una stazione sciistica in Italia.

Asiaciti Trust è la società che ha aiutato Sergey Makhlai, alias George Mack, a mettere in piedi la sua organizzazione. Nel 2018 la fiduciaria ha scritto alle autorità finanziarie delle Cook Islands, informandole che il loro cliente, “George Mack”, detiene 7 trust incorporati proprio alle Cook Islands. L’appunto, trovato nei file dei Pandora Papers, è firmato dai dirigenti di Asiaciti. Che annotano: il fisco americano sta indagando su mister Mack. E commentano: “Non si sa che cosa stiano cercando o a che cosa si stiano interessando…di sicuro (la nostra attività, ndr) è del tutto in regola negli Stati Uniti”. Icij ha inviato una richiesta di commento a un avvocato che rappresenta Makhlai e al suo indirizzo mail. Tutto senza risposta.
 

Moda sporca

La società indonesiana PT Indo Bharat Rayon è uno dei maggiori produttori mondiali di viscosa, anche chiamata rayon, un prodotto della cellulosa usato al posto della seta nell'industria dell'abbigliamento. Si tratta della filiale di una società tessile indiana, Aditya Birla, che controlla lo stabilimento sull’isola di Java, fornitore di catene internazionali di moda come ASOS Plc, un famoso marchio inglese. Nel 2016 un tribunale indonesiano ha condannato la PT Indo Bharat Rayon, multandola con 114 mila dollari per violazione di norme ambientali. Erano stati alcuni attivisti locali a denunciare questa situazione. Accuse gravissime. La società indonesiana aveva scaricato rifiuti di carbone e altri prodotti chimici tossici nel fiume Citarum, contaminando acquedotti e terreni agricoli della zona. Un suo portavoce ha poi precisato che la multa era stata pagata alla fine del processo d'appello e che comunque un importante lavoro di bonifica era stato avviato.

Dagli archivi dei Pandora Papers vengono però fuori altre novità sulla PT Indo Bharat Rayon. Nel 2017 il fondo d’investimento Harrington Master Fund Ltd., tramite una società di Hong Kong, ha acquistato una grossa quota della PT Indo Bharat Rayon, incassando anche dividendi dalla azienda tessile. Dividendi che a Hong Kong non vengono tassati. Il fondo delle Bermuda c'entra per caso con la gestione della fabbrica indonesiana? Icij lo ha domandato ai suoi responsabili. “È escluso”, secondo un portavoce.

Questo articolo è il frutto del lavoro collettivo dei giornalisti dell’inchiesta Pandora Papers e in particolare di Scilla Alecci (ICIJ), Khushboo Narayan (Indian Express), Leo Sisti (L’Espresso) e Paolo Biondani (L’Espresso).