Già nel 2006 l'ambasciatore Spogli aveva segnalato le gravi lacune. I legali dei familiari delle vittime di Bergamo: «Quattordici anni di copia-incolla. Ora il ministro Roberto Speranza riveli quello che sa»

L'ambasciata degli Stati Uniti a Roma sapeva dal 2006 che in caso di pandemia, dall'influenza aviaria a nuove forme di Sars, l'Italia non sarebbe stata affatto protetta. Lo hanno scoperto l'avvocata Consuelo Locati, tra i legali che assistono i familiari delle vittime in provincia di Bergamo, e il loro consulente Robert Lingard. Un retroscena che cambia la narrazione fatta fino a oggi da numerosi programmi tv.

 

Non è quindi vero che il piano pandemico italiano non è stato attivato nel gennaio 2020 perché nessuno lo aveva aggiornato. Lo scandaloso copia-incolla trascinato per quattordici anni dal ministero della Salute, dal 2006 fino all'ingresso dell'epidemia di Sars-CoV-2 in Italia, anche a volerlo, non era attivabile nonostante la sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale: perché era un semplice fascicolo di carta, fatto di indicazioni teoriche sprovviste di procedure operative immediatamente applicabili e, in quelle condizioni, più che aggiornato il piano andava riscritto. Si trattava infatti di un provvedimento perfino più lacunoso della sua bozza preparatoria. Ed è proprio quello che trasmette a Washington il 10 marzo 2006 l'allora ambasciatore americano Ronald Spogli, a capo della sede diplomatica di via Veneto dal 2005 al 2009, con i presidenti George Bush e Barack Obama.

 

«La versione finale del piano nazionale», scrive Spogli, «è molto meno dettagliata della bozza del 30 novembre 2005, che era stata fornita in via confidenziale all'ambasciata. La versione finale non precisa le specifiche, ma piuttosto definisce le linee guida di massima e gli ambiti di responsabilità nazionale/locale».

 

«Anche se definitivo, il piano sembra essere un “work in progress”», aggiunge l'ambasciatore americano, «che ci aspettiamo evolverà a mano a mano che la regione europea e il resto del mondo risponderanno all'evoluzione dell'influenza aviaria».

 

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Gli Stati Uniti in quei mesi sono preoccupati delle gravi lacune del piano italiano, perché un'eventuale falla nella prevenzione e nel contenimento del contagio avrebbe inevitabilmente coinvolto i numerosi cittadini americani in visita per lavoro o per turismo nel nostro Paese. E avrebbe potuto trasferire l'infezione, in quel caso di influenza aviaria, sul suolo americano. È esattamente quello che poi accadrà nel 2020 quando, per il mancato contrasto alla diffusione del nuovo coronavirus Sars-CoV-2, l'Italia diventerà il trampolino di lancio perché l'epidemia partita dalla Cina raggiunga il Brasile, il Messico, la Spagna e probabilmente numerose altre nazioni.

 

«La versione finale, che è molto meno dettagliata della precedente bozza, aggiorna e sostituisce la versione del 2002», scrive inoltre l'ambasciatore Spogli: «La versione finale elenca le linee guida per i piani operativi che devono essere preparati da ciascuna regione italiana, con il contributo di tutte le istituzioni durante una pandemia. Il governo italiano intende aggiornare il piano su base regolare, a mano a mano che i piani regionali sono completati». Ed è esattamente quello che non accadrà.

 

Il mese dopo il rapporto a Washington di Ronald Spogli, il ministero della Salute potrebbe ancora rimediare. La prestigiosa rivista scientifica “Lancet” pubblica uno studio intitolato “L'Europa è pronta per una pandemia influenzale? Analisi dei piani nazionali”, promosso da due ricercatori della London School of Hygiene and Tropical Medicine, secondo il quale in caso di una pandemia di influenza aviaria l'Italia sarebbe uno dei Paesi europei meno preparati a fronteggiarla.

 

Il governo italiano risponde che i ricercatori si sono sbagliati, perché hanno preso in esame il vecchio piano del 2002: «Il ministero della Salute ha offerto direttamente agli autori dello studio la nuova versione del Piano pandemico italiano alla fine di febbraio 2006, vale a dire due settimane dopo la sua approvazione, ma la risposta dei ricercatori», sostiene un comunicato del ministero, «è stata negativa perché avevano già chiuso l'analisi dei piani e inviato l'articolo per la pubblicazione. In conclusione, il ministero della Salute non ritiene attendibile lo studio inglese [...]».

 

A febbraio 2006 ministro della Salute è Francesco Storace, oggi vicino alla Lega. Seguiranno altri sette ministri di destra, centro e sinistra: Livia Turco, Maurizio Sacconi, Ferruccio Fazio, Renato Balduzzi, Beatrice Lorenzin, Giulia Grillo e Roberto Speranza. Ciascuno assegnerà incarichi a funzionari, dirigenti e capidipartimento di proprio gradimento. Tra loro Ranieri Guerra, ora tra gli indagati nell'inchiesta della Procura di Bergamo, successivamente nominato il 9 marzo 2020 inviato personale in Italia del direttore generale dell'Organizzazione mondiale della sanità, Tedros Ghebreyesus. Ma nessuno di loro, secondo i legali bergamaschi, trasforma il “work in progress” del piano pandemico in un vero sistema di difesa. E dopo quattordici anni di copia-incolla, per usare un paragone oggi drammaticamente attuale, la salute degli italiani va a schiantarsi nelle fauci della pandemia di Sars-CoV-2 come una funivia lasciata senza freni.

 

Un piano pandemico, per essere efficace, non può limitarsi alle linee guida generali. La sua elaborazione deve stimare il fabbisogno di dispositivi di protezione individuale e di kit diagnostici e mettere a punto scorte e piani di approvvigionamento e distribuzione. Deve definire le modalità di diffusione delle campagne informative per i cittadini e anche stabilire i criteri di attuazione di isolamento, quarantena e sorveglianza attiva dei contatti.

 

Il 25 febbraio 2020 all'inizio dell'emergenza italiana, durante la conferenza stampa della Protezione civile, Walter Ricciardi, appena nominato consigliere scientifico personale del ministro Speranza, dichiara: «Le mascherine alle persone sane non servono a niente». Se fosse davvero così, Ricciardi e Speranza dovrebbero spiegarci perché le mascherine sono, giustamente, ancora oggi obbligatorie. Ma soprattutto l'autorità giudiziaria dovrebbe finalmente verificare le eventuali conseguenze in termini di contagi e di vittime di un'affermazione ufficiale in contrasto con quanto dimostra un importante studio scientifico pubblicato dopo la prima epidemia cinese di Sars, la sindrome respiratoria acuta grave provocata da un altro coronovirus: «Le mascherine», dimostra infatti lo studio della London School of Hygiene and Tropical Medicine, smentendo l'opinione di Ricciardi, «fermano l'80 per cento dei contagi».

 

Esistevano in Regione Lombardia gli scenari di fabbisogno di dispositivi di protezione commisurati agli scenari epidemici? Esistevano linee guida sui protocolli operativi per il contenimento delle infezioni nelle case di riposo? La risposta la dà l'ambasciatore americano in Italia già nel 2006.

 

«Sapere che il piano pandemico del 2006 fosse un “work in progress” è un'ulteriore aggravante rispetto alle responsabilità sulla gestione pandemica fallimentare e un'ulteriore aggravante rispetto alle conseguenze letali che abbiamo avuto in Italia», commenta l'avvocata dei familiari delle vittime dell'ecatombe bergamasca, Consuelo Locati.

 

«Chi oggi tra la stampa porta avanti la crociata della mancata attivazione del piano pandemico del 2006 e rincorre nelle aule delle procure i vari dirigenti del ministero della Salute per chiederne conto, dimostra non solo di non avere studiato e compreso la regolamentazione sanitaria internazionale, ma di prestare il fianco ai depistaggi narrativi di chi vorrebbe scaricare su una scelta politica del ministro della Salute, Roberto Speranza, quindici anni di negligenze e disinteresse che sono costati la vita a quasi 130 mila italiani», osserva il consulente dei familiari, Robert Lingard.

 

«Sono omissioni che hanno costretto la task force prima ed il Comitato tecnico scientifico poi a mettersi a rabberciare un piano all'ultimo minuto provocando almeno due mesi di ritardo sulla scoperta del virus in Italia», aggiunge Lingard, «con tutte le implicazioni sulla diffusività dell'epidemia che ne sono conseguite.

 

Pare dunque che l'omessa comunicazione del rischio e il tentato insabbiamento della mole di documenti prodotti tra gennaio e marzo 2020, non fosse tanto dovuta alle conseguenze che sarebbero scaturite dalla presa di coscienza della popolazione in merito alla presenza del virus sul territorio nazionale, quanto piuttosto al panico che sarebbe derivato dalla consapevolezza che era scoppiato un incendio e non solo l'allarme non era suonato in tempo, ma addirittura non c'erano gli estintori e le uscite d'emergenza erano bloccate. Se c'è una cosa che il ministro Speranza dovrà chiarire è il motivo per il quale si sia prestato a questo gioco di silenzi e misteri».