Pechino pronta a ospitare i Giochi invernali, mentre la repressione colpisce anche donne e bambini. Ma il presidente del Coni boccia il boicottaggio: «Il mio ruolo è solo sportivo»

Il regime nazionalcomunista cinese è pronto per il ritorno sul palcoscenico globale. Venerdì 4 febbraio lo stadio nazionale di Pechino ospiterà in mondovisione la cerimonia inaugurale delle Olimpiadi invernali. È il primo appuntamento internazionale con la Cina, a due anni esatti dallo scoppio della pandemia. L’Italia sportiva parteciperà ai massimi livelli, a cominciare dal presidente del Coni, Giovanni Malagò. E la discesista azzurra Sofia Goggia, campionessa olimpica nel 2018, sarà la portabandiera e la trascinatrice delle ambizioni nazionali.

C’è però un’altra olimpiade al femminile che le dirette televisive e la retorica dei Giochi non mostreranno: è la gara quotidiana con la vita che decine e decine di coetanee di Sofia disputano ogni giorno nelle celle della dittatura rinforzata dal presidente Xi Jinping, nelle camere delle torture, nell’immenso arcipelago gulag contemporaneo che gran parte dei governi democratici, in cambio di contratti e fatturati, fingono di non vedere. La questione ci riguarda da vicino, perché alla cerimonia di chiusura il 20 febbraio, nel passaggio di consegne con le prossime Olimpiadi invernali italiane, i sindaci di Milano e Cortina d’Ampezzo stringeranno quelle stesse mani insanguinate che guidano la repressione contro gli studenti di Hong Kong, i musulmani dello Xinjiang, i citizen-journalist che avevano banalmente documentato lo scoppio dell’epidemia a Wuhan, gli avvocati, gli attivisti per i diritti umani, i sindacalisti indipendenti, i loro genitori, i mariti, le mogli, i fratelli, le sorelle, perfino i bambini. Sotto la lente digitale del controllo totale, non è difficile passare per oppositori.

A differenza delle Olimpiadi del 1936 a Berlino, nella capitale della più armata e oscena dittatura dell’epoca, oggi nessun atleta, nessun funzionario del Comitato olimpico internazionale, nessun politico può avere l’alibi dell’ignoranza. Amnesty International, Human Rights Watch, Chinese Human Rights Defenders, Uyghur Tribunal e numerose altre organizzazioni non governative hanno riempito la Rete con migliaia di pagine di rapporti. È stato perfino denunciato il commercio di organi dei detenuti politici condannati a morte o uccisi apposta per l’espianto.

«Quello cinese è un totale inverno dei diritti umani», dice Riccardo Noury, portavoce della sezione italiana di Amnesty International: «Grazie alla legge sulla sicurezza nazionale, a Hong Kong è stata messa a tacere ogni forma di dissenso e anche Amnesty International ha dovuto chiudere il suo ufficio; nella regione autonoma dello Xinjiang, è proseguita la campagna di indottrinamento politico, detenzioni arbitrarie di massa, tortura e assimilazione culturale ai danni dei musulmani. Tutta la situazione dei diritti umani in Cina ha continuato a deteriorarsi: avvocati e attivisti sono stati condannati per il mero esercizio del diritto alla libertà d’espressione e per essersi occupati di casi sensibili». Per Giulio Regeni, torturato e ucciso dai servizi segreti del Cairo, e Patrick Zaki, ancora sotto processo in Egitto, si è giustamente mobilitata l’Europa. I casi di Julian Assange e Edward Snowden sono diventati famosi in tutto il mondo. Ma quando una ragazza, una madre, una donna cinese vengono picchiate o violentate sulla sedia della tigre, un seggiolone in acciaio in cui il corpo è legato caviglie-schiena-polsi, le loro storie restano rinchiuse nei dossier e si continua a far finta di niente. Esattamente come accadrà a Pechino, tra uno slalom e una partita a curling.

Due anni fa, il 3 febbraio 2020, Zhang Zhan, 38 anni, ex avvocata, arriva a Wuhan per documentare su Twitter e YouTube cosa sta accadendo nella prima città colpita dall’epidemia di polmoniti. Scompare il 14 maggio. Viene dichiarata in arresto il 19 giugno e condannata a quattro anni di reclusione il 28 dicembre a Shanghai, la sua città, con l’accusa di aver diffuso notizie false. Ora è in gravi condizioni per lo sciopero della fame che ha cominciato per protesta e l’alimentazione forzata, imposta attraverso un sondino nasale manovrato dalle sue compagne di cella.

Li Qiaochu, 31 anni, si occupa di diritti delle donne. A inizio 2020 informa gli abitanti di Pechino sui rischi dell’epidemia a Wuhan e distribuisce mascherine al personale sanitario. La arrestano il 16 febbraio. Viene rilasciata su cauzione il 18 giugno. Ma torna di nuovo in carcere il 15 marzo 2021 dopo aver rivelato che il suo compagno arrestato il 15 febbraio 2020, l’attivista per i diritti umani e insegnante dell’Università di Pechino, Xu Zhiyong, aveva subito torture. Il professor Xu per oltre una settimana è stato immobilizzato dieci ore al giorno alla sedia della tigre, con gli arti legati così stretti da respirare a fatica. Adesso anche Li Qiaochu è accusata, come il suo compagno, di incitamento alla sovversione dei poteri dello Stato.

La blogger Liu Yanli, 45 anni, aveva invece aperto centosessanta gruppi sulla piattaforma cinese WeChat per sensibilizzare i suoi lettori ai temi di giustizia sociale. Il 22 aprile 2020, con l’accusa di aver provocato liti e disturbo, viene condannata a quattro anni di reclusione. L’elenco di donne e uomini imprigionati potrebbe proseguire per molte pagine. Non sempre si riesce a conoscere in diretta quello che accade, nelle prigioni tenute spesso segrete ai familiari, nei campi di detenzione dove l’apparato di Xi Jinping sta annientando la fede della minoranza musulmana e perfino nelle stazioni di polizia. I resoconti a volte arrivano con anni di ritardo, quando le vittime una volta liberate riescono a ottenere l’asilo in nazioni sicure.

Un paziente lavoro di documentazione, raccolta di testimonianze e costruzione della memoria lo sta svolgendo a Londra l’organizzazione indipendente Uyghur Tribunal. Sulla base di queste indagini, il 9 dicembre scorso il “tribunale” ha concluso che nella regione autonoma dello Xinjiang, il Partito comunista cinese è responsabile di crimini e di genocidio contro i musulmani uiguri e kazaki. Si stima che un milione di cittadini cinesi, uomini e donne, siano detenuti senza processo in centri di rieducazione e i loro bambini siano stati deportati e affidati a scuole di Stato. Una campagna di repressione fisica e culturale che si aggiunge ai disegni del regime contro il Tibet, Hong Kong, i numerosi aderenti del movimento spirituale Falun Gong e i netizen, i cittadini che cercano di comunicare liberamente sui social. Sono le testimonianze dei sopravvissuti fuggiti all’estero a rivelarci oggi cosa accade dietro la cortina cinese.

«Mi hanno portata all’aperto», racconta Ying D., 48 anni, che in Cina era proprietaria di un supermercato: «Quattro o cinque guardie mi hanno tenuta giù e hanno messo un tubo rigido dentro il mio naso fin quando ha sanguinato. Poiché il tubo non raggiungeva lo stomaco, mi hanno infilato un cacciavite tra i denti perché tenessi aperta la bocca. Poi hanno messo un pezzo di bambù appuntito nel palato e mi hanno alimentata forzatamente, con cibo e un condensato di acqua e sale. Venivo alimentata con la forza ogni due o tre giorni. Il dottor Zhou del centro di detenzione usava un grande cacciavite per obbligarmi a tenere aperta la bocca. Ho perso due denti».

«Ho visto alimentare la signora Xue Aimei con olio al peperoncino e peperoncino macinato», continua Ying D.: «Quando è tornata nella cella, il naso e la faccia erano insanguinati ed era ricoperta di peperoncino, olio e cibo. Rifiutavamo di indossare la divisa del campo di detenzione. Allora una dozzina di guardie ha spogliato nude venti donne. Le hanno spinte fuori dalla cella per mostrarle agli uomini detenuti e umiliarle. Dovevamo fare anche lavori manuali. Facevamo scarpe di pelle. Le nostre dita erano ricoperte di vesciche, erano deformi. Questi prodotti venivano esportati negli Stati Uniti, in Europa e in altri Paesi. Eravamo obbligate a lavorare dalle 7.30 a mezzanotte e a volte fino all’una, senza nessun giorno di riposo. Eravamo trenta donne in una cella di trenta metri quadri».

Ying D. ora è quasi cieca: «Una guardia ha ordinato a tre criminali detenuti di tenermi a terra e con un manganello elettrico mi ha dato delle scosse su tutte le parti sensibili per trenta o quaranta minuti. Piangevo miseramente. Sentivo come se il cuore si dovesse strappare. Da un occhio ho perso completamente la vista. Dall’altro quasi del tutto».

Arrestato per aver promosso la lingua uigura quando aveva quarant’anni, Ayup A., musulmano di Kashgar, la città più occidentale dello Xinjiang, viene sottoposto allo stesso trattamento riservato a molte donne: «Sono stato portato in una buca, spogliato e le guardie hanno dato l’ordine a venti criminali e loro l’hanno fatto. Non ho menzionato prima il mio stupro perché l’interprete era una donna e io a lei non potevo dirlo», si legge tra le tante testimonianze raccolte dall’organizzazione Uyghur Tribunal.

Li J., 44 anni, ex dipendente della Shanghai Airlines, racconta che il padre è morto dopo un pestaggio in un campo di lavoro del governo a Chongqing. «Almeno dieci ore dopo la morte, io e altri familiari siamo andati all’obitorio. Quando hanno tirato fuori mio padre dalla cella frigorifera, il suo corpo aveva molte cicatrici ma era ancora caldo sotto la narice e al torace. I suoi denti superiori mordevano forte il labbro inferiore. L’espressione sulla sua faccia era piena di dolore. Questo è ciò che la nostra famiglia ha visto all’obitorio. Abbiamo protestato ad alta voce. I poliziotti ci hanno allontanati con la forza e mio padre, che ancora dava evidenti segni di vita, è stato nuovamente rinchiuso nel congelatore», dichiara la figlia.

Chen H., 54 anni, fa le pulizie al Parlamento australiano. In Cina era la manager di un’industria tessile. «Una donna di cognome Zou è stata portata nel campo di lavoro. I suoi occhi fissavano nel vuoto, come se fosse in trance», rivela Chen H.: «Ho visto che le sue mani erano tutte nere e viola. Le ho chiesto cosa fosse successo. All’improvviso è scoppiata a piangere. Mi ha detto che era stata imprigionata in un luogo sconosciuto. Era stata costretta a sedere su una sedia elettrica e le mani erano nere per le torture con gli aghi elettrici... Nel 2016 ho poi saputo che Yixi Gao e sua moglie, che abitavano nella provincia di Heilongjiang, erano stati presi dalla polizia la mezzanotte del 19 aprile. Lui è morto il 29 aprile. È rimasto nell’ospedale della polizia per quarantatré ore e lo hanno sottoposto a controlli ed esami prima che morisse. Il suo corpo era stato dissezionato».

Quasi tutti i prigionieri politici rilasciati e fuggiti all’estero raccontano di essere stati sottoposti a ecografie, prelievi di sangue, test genetici durante la detenzione. Il sospetto è che gli esami servano ad alimentare il traffico di organi nel caso di morte eventuale o a richiesta. È famosa la vicenda di un paziente di 35 anni in un ospedale dell’esercito cinese a Nanchino. Soltanto per lui sono stati espiantati e buttati via sette reni, perché al momento dell’intervento risultavano incompatibili con il ricevente. All’ottavo tentativo, grazie a un nuovo rene prelevato a un detenuto condannato a morte, il trapianto ha avuto successo.

Australia, Canada, Gran Bretagna, Giappone e Stati Uniti guidano lo schieramento che ha già annunciato il boicottaggio diplomatico: a Pechino ci saranno gli atleti, non i rappresentanti dei governi. Il presidente del Coni assicura invece che assisterà sia alle Olimpiadi sia alle Paralimpiadi: «Il mio ruolo è sportivo, non politico», ricorda Giovanni Malagò. Ma che fine hanno fatto gli obblighi di fair play che vincolano i contratti tra comitati sportivi, delegazioni e sponsor? Il sindaco di Cortina, Gianpietro Ghedina, non risponde. Il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, fa gentilmente sapere che non rilascia commenti sulle Olimpiadi. Durante i Giochi dell’antichità si fermavano le guerre. Oggi si sospendono i diritti: le coraggiose ragazze della primavera cinese possono attendere. Ovviamente in carcere.