Pandora Papers
Banksy ostaggio delle offshore: le opere di denuncia sociale finiscono nei paradisi fiscali
Un trust anonimo in Nuova Zelanda. Con una collezione di tele e graffiti del più famoso artista di strada. A controllarle segretamente è un manager italiano in affari con l’ex dirigenza del Monte dei Paschi. La nuova inchiesta de L’Espresso e del consorzio internazionale Icij sui patrimoni culturali trasferiti in tesorerie private a tassazione zero
Una piccola storia di soldi all'estero può raccontare più di tanti grandi discorsi il potere del capitalismo finanziario. Il protagonista, suo malgrado e a sua insaputa, è Banksy, il più famoso artista di strada, autore di celebri e beffarde opere di denuncia sociale, protesta contro la guerra e l'imperialismo, contestazione delle banche e dei padroni dell'economia.
Una ventina di anni fa, quando era ancora sconosciuto al grande pubblico, due gallerie di Londra hanno cominciato a comprare i suoi lavori, a prezzi bassissimi rispetto ai valori attuali. La prima, che ha lanciato Banksy ed altri artisti anti-sistema, ha un nome sarcastico: Bankrobber, rapinatore di banche. Le due gallerie hanno poi rivenduto almeno dodici tra le sue opere più note a un misterioso trust neozelandese. Una struttura fiduciaria che garantisce legalmente l'anonimato. Ora i Pandora Papers rivelano che a controllare quella tesoreria estera è un manager italiano della finanza, che ha fatto profitti milionari, nelle Borse di Milano e Londra, grazie a rapporti privilegiati con l'ex dirigenza del Monte dei Paschi di Siena (Mps): la storica banca italiana, travolta negli stessi anni da una gestione disastrosa e poi salvata dallo Stato, che ha dovuto coprire perdite miliardarie acquisendone il controllo.
Tra le opere comprate dal trust che finora era rimasto anonimo, spicca un'edizione del 2002 del quadro più conosciuto di Banksy, Flower Thrower, il lanciatore di fiori (nome alternativo: Love is in the Air), in spray su tela, con firma autografa (tag) dell'autore. La collezione comprende anche un prezioso «pezzo unico» del 2004, Never Liked the Beatles, dipinto su compensato e in origine esposto per strada, con il caratteristico topo dei bassifondi (in inglese rat, anagramma di art) armato di pennello. L'altrettanto celebre Bird + Grenade, l'uccellino con la bomba a mano nel becco, in una versione «unica» del 2001. Due diverse edizioni datate 2002 di Rude Copper, il poliziotto britannico «maleducato» che saluta con il dito medio. Una versione del 2005, con firma a margine, degli Happy Choppers, gli elicotteri da guerra con il fiocco rosa. E altre edizioni autografe delle più rinomate opere prodotte da Banksy dal 2001 al 2006, come Bombing Middle England, Girl and Ballon, Grannies, Abandon Hope, Kids on Gun.
In quegli anni l'autore, che non ha mai rivelato o confermato la sua identità, faceva parte di un collettivo di artisti di strada, con base a Bristol, che agiva di notte, in fretta, con la tecnica dello stencil. Le due gallerie di Londra, Bankrobber e Lazarides, hanno rivenduto quelle dodici opere, a partire dal 2009, a un fondo fiduciario chiamato Heritage International Trust, costituito nel 2008 in Nuova Zelanda, dove all'epoca era garantito l'anonimato totale. I Pandora Papers, le carte riservate dei paradisi fiscali ottenute dall'International consortium of investigative journalists (Icij), rappresentato in Italia da L'Espresso, ora ne svelano il «beneficiario e titolare effettivo»: Maurizio Fabris, fondatore e manager del gruppo Enigma, per anni partner della direzione finanziaria del Monte dei Paschi fino al 2011, quando la banca è naufragata in un mare di debiti e sono cominciate le indagini delle autorità amministrative, parlamentari e giudiziarie.
Oltre ai lavori di Banksy e ad altre quattro opere di artisti contemporanei, il trust possiede una rete di società estere, con nomi simili, che custodiscono altri beni. La tesoreria neozelandese controlla, in particolare, una compagnia di Malta, Heritage Holding, che è proprietaria di una villa in Spagna, a Ibiza. Un fondo d'investimento a Gibilterra. Un'immobiliare britannica, Heritage International Real Estate, che ha acquistato e ristrutturato un appartamento a Milano, poi rivenduto. Una società finanziaria con sede nel paradiso fiscale offshore delle British Virgin Islands, chiamata Carlton International Group, che almeno fino a qualche anno fa possedeva le azioni della filiale a Malta di Enigma: il gruppo ufficiale di Fabris e di altri due manager italiani, suoi soci storici. I documenti disponibili si fermano al 2018, quando il trust risulta ancora attivo. Nelle giurisdizioni offshore non esistono imposte sui redditi delle persone, né sugli utili delle società: la tassazione è zero.
Banksy e gli altri artisti non hanno niente a che fare con i paradisi fiscali e con le società anonime. Sono le gallerie di Londra che hanno acquistato e rivenduto le loro opere al trust. All’epoca i mercanti d’arte non avevano l’obbligo di verificare l'identità dell'acquirente e registrare l'origine dei fondi. L'unico aggancio personale con Banksy è una dichiarazione, inserita tra le attestazioni di autenticità, scritta a penna da due testimoni che assicurano di averlo incontrato nel 2002 a Los Angeles. In altri certificati di autenticità, forniti da una società del settore, compare un ironico facsimile della sterlina britannica, con Lady Diana al posto della regina Elisabetta.
Per creare la sua rete di trust e società estere, Fabris si è rivolto a una compagnia di Singapore, Asiaciti, una delle fabbriche internazionali di offshore che sono al centro dei Pandora Papers. Nel contratto, i fiduciari di Asiaciti riconoscono al manager italiano il diritto di esporre le opere di Banksy nelle sue case, a Milano, Ibiza o Londra. Fabris è un personaggio poliedrico, che ha fatto anche il pilota professionista di auto da corsa, nella categoria Gran Turismo, con una sua scuderia. E ha usato il trust anche per comprare macchine italiane, Alfa Romeo e Ferrari.
La campagna acquisti delle opere d'arte viene realizzata tra il 2009 e il 2010, negli anni d'oro dei rapporti tra Enigma e il Monte dei Paschi. Gran parte dei soldi arriva dalla Svizzera, da una società finanziaria che nello stesso periodo gestisce anche i conti della filiale maltese del gruppo di Fabris. Il declino di Enigma inizia nel 2011, quando il vertice rinnovato di Mps decreta lo stato di crisi esponendo a bilancio perdite per 4,7 miliardi di euro. La prima ancora parziale emersione di una voragine finanziaria, provocata dall'acquisizione nel 2009 della banca Antonveneta a un prezzo folle: 9 miliardi, con accollo di debiti per altri 7,9, per un esborso totale di 16,9 miliardi.
Le prime soffiate su Enigma arrivano da lettere anonime, inutilizzabili nei processi. Nei mesi successivi le ispezioni della Banca d'Italia e della Consob acquisiscono i dati informatici di Mps e accusano la direzione finanziaria della banca di Siena di aver privilegiato il gruppo di Fabris e soci, affidandogli migliaia di operazioni di brokeraggio, senza registrarlo come controparte. La sede di Enigma viene perquisita e i tre soci finiscono sotto processo come presunti complici della cosiddetta «banda del 5 per cento»: ai manager della finanza di Mps, in sostanza, viene imputato di aver fatto la cresta sulle compravendite in Borsa a spese della banca. In tribunale però queste accuse franano: tutti assolti. «La banda del 5 per cento non è mai esistita», commentano i difensori.
Fabris e gli altri due manager di Enigma vengono indagati anche a Milano per un’accusa meno grave, collegata sempre ai rapporti con Mps e altri gruppi bancari come Iccrea: una presunta evasione fiscale da 6,6 milioni di euro, realizzata attraverso la filiale maltese di Enigma. In primo grado Fabris e soci vengono condannati, nel marzo 2017, a tre anni di reclusione. In appello però, dopo le assoluzioni di Siena, cade l'aggravante di aver favorito la banda «transnazionale» del 5 per cento. A quel punto, nel giugno 2018, la corte di Milano dichiara la prescrizione e restituisce a Fabris e soci tutti i soldi sequestrati. Lo Stato italiano ha perso anche i processi fiscali contro i tre manager di Enigma: una commissione tributaria di Milano (composta non da magistrati, ma da privati che fanno i giudici part-time) ha infatti respinto tutte le pretese dell'Agenzia delle Entrate.
Nelle sentenze su Enigma per le accuse fiscali non viene menzionata nessuna delle società estere che ora emergono con i Pandora Papers e nemmeno il trust con le opere d'arte. I giudici milanesi nominano solo altre offshore, di un periodo precedente, che erano state utilizzate da Fabris e soci per nascondere al fisco altri 14,8 milioni di euro. Sono diverse società con relativi conti esteri, con basi tra San Marino e le esotiche isole Vanuatu. Ma anche quella vecchia evasione, come si legge nelle sentenze, non è punibile, perché i tre manager di Enigma hanno condonato tutto a tempo debito, approfittando dello scudo fiscale varato nel 2009-2010 dal governo di Berlusconi e Tremonti.
Contattato da L’Espresso e dal consorzio Icij, Fabris ha potuto spiegare e chiarire la sua posizione con una lettera firmata dal suo avvocato di fiducia, Luca Lauri. «Il dottor Fabris è cittadino e contribuente inglese e ha sempre corrisposto le imposte in quel Paese», scrive il legale. «Sino al 2017 ha beneficiato del regime forfettario, che consente di detenere strutture offshore, purché dichiarate alle autorità britanniche. Obbligo che il dottor Fabris ha sempre assolto, come attesta la regolarità della sua posizione fiscale in Inghilterra. Il ricorso a strumenti giuridici di matrice anglosassone, qual è il trust, non ha mai avuto finalità fiscali. Dal 2017 Fabris è tornato a corrispondere le imposte in regime ordinario, essendo il forfettario utilizzabile per un periodo massimo di 15 anni». L'avvocato inoltre sottolinea che, come riconosciuto da L'Espresso, «in Italia il dottor Fabris è stato prosciolto da ogni accusa».
Per le dodici opere di Banksy, il trust ha versato alle gallerie, in totale, 495 mila sterline. Stimarne l'attuale valore non è facile, perché spesso l'artista firma diverse versioni dello stesso lavoro, regala opere per beneficenza e contesta le vendite al rialzo nelle grandi case d'asta. I giornalisti belgi della testata De Tijd, analizzando i prezzi pagati per altrettante opere di Banksy (analoghe per data e caratteristiche), hanno concluso che, oggi, valgono almeno otto milioni e mezzo di sterline: 17 volte di più del prezzo versato da Fabris. Il manager italiano è uno dei tanti ricchi investitori che da anni acquistano opere d'arte come bene rifugio e spesso utilizzano trust e offshore per restare anonimi e azzerare le tasse con strumenti legittimi, almeno per il diritto britannico. Gli esperti d'arte interrogati dal consorzio giudicano «ironico» e «paradossale» che le opere di un artista «anti-capitalista» come Banksy siano finite a un manager della finanza di Londra. E denunciano il rischio che, attraverso i trust e le offshore, opere di grande interesse pubblico, nate per essere visibili da tutti nelle strade, vengano rinchiuse in casseforti private, anonime e inaccessibili.
I fiduciari di Asiaciti hanno continuato a gestire le società di Fabris, senza farsi problemi, anche negli anni in cui il titolare veniva indagato e processato in Italia. Nelle carte non si trova alcuna segnalazione o denuncia alle autorità di controllo. Tra il 2012 e il 2017, durante i procedimenti per evasione, la società di Singapore ha curato anche la vendita di immobili e altri beni del trust, versando il ricavato a Fabris. Tre opere di Banksy, in particolare, sono state rivendute alla galleria Lazarides, a un prezzo maggiorato. Altre sono state trasferite dal trust a Fabris, che nel 2016 sembra esserne diventato proprietario diretto, ma le notizie dei Pandora Papers si interrompono nel 2018. Asiaciti non ha risposto a nessuna domanda del consorzio. Mentre l’avvocato di Fabris ha spiegato a L’Espresso che le accuse italiane, poi cadute «dopo anni», gli hanno causato, «oltre a evidenti danni reputazionali anche nel Paese dove vive, gravissime conseguenze sul piano economico e lavorativo, che lo hanno costretto a cedere molte delle opere d'arte» citate nei Pandora Papers. Fabris non chiarisce quali opere di Banksy siano ancora sue, ma precisa che le aveva «scelte per la capacità dell'artista di trattare temi politico sociali con straordinaria efficacia».