Ambiente

Il mondo cerca un’intesa contro il cambiamento climatico, ma il governo Meloni ha altre priorità

di Vittorio Malagutti   31 ottobre 2022

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A Sharm el-Sheik, la conferenza Cop 27 dell’Onu discuterà nuove misure per evitare il disastro globale. Mentre le emissioni di CO2 sono al top di sempre e le temperature mai così alte. Ma a Roma il nuovo ministro esordisce parlando solo di gas e nucleare

Volete misurare la distanza tra la realtà del cambiamento climatico e la sua percezione da parte della classe dirigente del mondo? Basta leggere l’ultimo comunicato dell’Agenzia Internazionale dell’Energia (Aie) che aggiorna i dati delle emissioni di gas serra su scala globale. «Quest’anno la quantità di anidride carbonica diffusa nell’atmosfera per effetto dell’uso di combustibili fossili aumenterà solo dell’1 per cento rispetto al 2021», recita la nota stampa diffusa il 19 ottobre scorso dall’organizzazione nata per coordinare le politiche energetiche dei maggiori Paesi industrializzati, Italia compresa.

Il tono è soddisfatto: un risultato «molto migliore rispetto alle previsioni», si legge. E, in effetti, i numeri sembrano incoraggianti, ma purtroppo non c’è nulla da festeggiare. Il mondo si trova drammaticamente in ritardo nella corsa a mantenere gli impegni di riduzione del riscaldamento globale fissati dagli Accordi di Parigi del 2015.

Le emissioni di CO2 dovrebbero essere tagliate del 45 per cento entro il 2030 per poter sperare di limitare l’aumento delle temperature in questo secolo entro 1,5 gradi rispetto ai livelli preindustriali, come previsto dall’intesa sottoscritta da 195 Paesi al termine della conferenza sul clima di sette anni fa. E invece, secondo l’ultimo rapporto ambientale dell’Onu, continuando di questo passo l’anidride carbonica prodotta dall’attività umana nel 2030 sarà aumentata del 16 per cento in confronto al 2010.

Per tentare di invertire la rotta, migliaia di delegati dei governi di tutto il mondo, delle agenzie internazionali e dei movimenti ambientalisti si incontreranno a Sharm el-Sheikh, in Egitto, per due settimane a partire da domenica 6 novembre. La ventisettesima Conferenza delle Parti, meglio nota come Cop 27, non potrebbe cadere in un periodo peggiore. Prima la pandemia e poi l’aggressione russa all’Ucraina hanno innescato una serie di crisi che hanno finito col minare seriamente ogni prospettiva di cooperazione internazionale. Da mesi ormai la minaccia del clima impazzito sembra passata in secondo piano a livello globale. «Stiamo andando nella direzione sbagliata», avverte l’Organizzazione meteorologica mondiale, in uno studio pubblicato a metà settembre in cui si legge che senza correzioni delle politiche energetiche a livello mondiale a fine secolo l’aumento della temperatura media rispetto all’epoca preindustriale toccherà i 2,8 gradi. Questo significa che gli eventi climatici estremi, alluvioni, siccità, ondate di calore sono destinati ad aumentare ancora, con perdite sempre più pesanti in termini di vite umane e di danni materiali.

Intanto, però, la metà più povera del mondo combatte con i debiti in aumento, effetto del superdollaro e dell’impennata dei tassi d’interesse, e con crescenti difficoltà nei rifornimenti alimentari. I Paesi ricchi, invece, in primo luogo l’Europa, devono affrontare i rischi di un’imminente recessione associata a un’inflazione mai così elevata da oltre 40 anni, a causa soprattutto dell’aumento esponenziale dei prezzi dell’energia. Per far fronte al taglio delle forniture di gas decise da Mosca, i governi del Vecchio Continente hanno accelerato la transizione verso fonti rinnovabili come il solare e l’eolico, ma allo stesso tempo sono tornati a investire sul carbone, il più inquinante dei combustibili fossili.

Ben diverse erano le premesse con cui un anno fa si è aperta la Conferenza mondiale sul clima di Glasgow, la Cop 26, che nelle attese di tutta la comunità internazionale avrebbe dovuto rilanciare la lotta al cambiamento climatico su scala globale dopo la sosta forzata dovuta alla pandemia. Il ritorno degli Stati Uniti al tavolo negoziale, da cui si erano ritirati negli anni della presidenza di Donald Trump, aveva rafforzato le speranze di una svolta, di un salto di qualità nella ricorsa degli ambiziosi obiettivi sottoscritti a Parigi nel 2015. Il documento finale della conferenza aveva per la prima volta messo nero su bianco l’impegno comune a tagliare del 45 per cento le emissioni di gas serra entro il 2030, anche eliminando gradualmente l’uso del carbone.

«Si poteva fare di più», commentarono all’epoca i movimenti ambientalisti e molti governi, soprattutto in Europa. A dodici mesi di distanza, però, anche quegli obiettivi minimi stabiliti nel cosiddetto Patto di Glasgow, sembrano sempre più difficili da raggiungere. La tabella di marcia per ridurre la dipendenza dei combustibili fossili, frutto di laboriosi negoziati e inevitabili compromessi al ribasso, ora appare fin troppo ambiziosa, proiettata com’è in un contesto di crisi globale in cui più che mai prevalgono gli egoismi nazionali sulla collaborazione per far fronte a una minaccia comune come quella dei cambiamenti climatici. «Ma non ci sono alternative», sottolinea Mariagrazia Midulla, responsabile energia e clima di Wwf. «Tutti i governi - spiega Midulla - hanno compreso che l’unico orizzonte possibile è quello della transizione energetica e quindi anche nella prossima conferenza i negoziati andranno nella direzione di rafforzare l’impegno per contrastare l’aumento delle temperature».

Il tempo stringe. Il riscaldamento globale, con il suo carico di disastri naturali, corre molto più veloce dell’azione politica dei governi. È poi molto probabile che a Sharm el-Sheik il fronte dei Paesi in via di sviluppo porrà di nuovo con forza la questione dei finanziamenti per il clima. E cioè risorse per centinaia di miliardi di dollari indispensabili non solo a sostenere il passaggio verso fonti rinnovabili, ma soprattutto a rifondere i danni provocati dal riscaldamento globale, che ha effetti particolarmente gravi in zone del mondo già afflitte da una povertà estrema. I Paesi ricchi, di gran lunga i maggiori responsabili dell’accumulo dei gas serra, non hanno fin qui neppure mantenuto l’impegno a sovvenzionare le nazioni più povere con 100 miliardi di dollari l’anno destinati a progetti per la mitigazione del cambiamento climatico. Anche in questo caso hanno finora prevalso gli stessi egoismi nazionali con cui deve fare i conti l’Unione Europea, terzo produttore mondiale di CO2 dopo Cina e Usa. In maggio Bruxelles ha approvato il RePowerEu, un programma d’azione che ha l’obiettivo dichiarato di eliminare la dipendenza dalle forniture russe e punta a rilanciare la transizione energetica fissando obiettivi ancora più ambiziosi negli investimenti in fonti rinnovabili. Allo stesso tempo, però, i 27 Paesi Ue faticano a trovare una politica comune sul gas e ciascuno, a cominciare dall’Italia, nei mesi scorsi è andato per la sua strada alla ricerca di nuove fonti di approvvigionamento.

«Se davvero vogliamo liberarci il più rapidamente possibile della dipendenza dai combustibili fossili - ammonisce Luca Bergamaschi, direttore esecutivo del think tank ambientalista - Ecco, non possiamo limitarci a sostituire il gas di Mosca con altro gas comprato altrove». L’Italia, in particolare, si presenta all’appuntamento di Sharm el-Sheik con un nuovo governo che, come primo atto formale, ha cambiato nome al Ministero della Transizione Ecologica. Il Mite torna a chiamarsi Ministero dell’Ambiente con l’aggiunta della Sicurezza Energetica. Un’indicazione chiara di quali siano le priorità della coalizione di centrodestra per il dicastero affidato al berlusconiano Gilberto Pichetto Fratin.

A sole due settimane dalla nomina, il nuovo ministro sarà chiamato a presentarsi sulla scena mondiale e, perdipiù, come ospite di un Paese, l’Egitto, con cui i rapporti diplomatici sono da tempo a dir poco accidentati per via dei casi di Giulio Regeni e poi di Patrick Zaki. Lo stesso Egitto, peraltro, che grazie all’Eni si prepara ad aumentare di molto le sue forniture di gas all’Italia. Nei negoziati sull’energia in sede Ue, Pichetto sarà affiancato dal suo predecessore al Mite, Roberto Cingolani, come è successo all’ultimo vertice di Lussemburgo di martedì 25 ottobre. A Sharm invece il ministro esordiente sarà probabilmente accompagnato da Alessandro Modiano, un diplomatico di carriera, senza esperienza in tema ambientale, a cui il governo Draghi ha assegnato l’enfatico titolo di “Inviato Speciale per il Cambiamento climatico”. Una nomina, decisa nel gennaio scorso, che Cingolani condivise con l’allora titolare degli Esteri, Luigi Di Maio. Modiano deve aver lavorato molto dietro le quinte, perché dal giorno della sua promozione non si è più avuta notizia di lui. La coppia Modiano-Pichetto adesso è in partenza per la Cop 27.

Intanto, lunedì 24 ottobre, il ministro ha approfittato della sua prima uscita ufficiale per dichiararsi favorevole alla sperimentazione sul nucleare di ultima generazione e al rilancio delle trivellazioni in Italia alla ricerca di gas. Neppure una parola, per ora, su clima e rinnovabili. Questione di priorità.