Sono decine le sex worker uccise ogni anno. Ma è una strage che rimane lontana dai riflettori dell’opinione pubblica. E così, schiavizzate in vita, le vittime sono condannate a rimanere “non persone” anche nella morte

Ci sono stati periodi in cui la percentuale delle prostitute vittime di omicidio ha rappresentato quasi un quarto del totale delle donne uccise. Eppure, di quella porzione di delitti, laddove ne sia stato dato conto, si è parlato in termini e con enfasi diversi dai toni usati per il resto dei femminicidi. Quasi si trattasse di un segmento dell’universo femminile confinato ai margini di una società che, nel rifiutarle, ha scelto anche di ignorarne i diritti e le sorti. Compresa la morte per mano violenta.

 

È uno spaccato che trova conferma ogni volta in cui la cronaca nera faccia irruzione nelle vite anonime delle sex workers quello che il Numero verde nazionale antitratta descrive nelle mappature che semestralmente aggiorna con i dati raccolti dalle unità di contatto e di strada attive in tutta Italia. Una fotografia tornata di estrema attualità anche dopo i fatti di Roma e che rispecchia l’analisi condotta dal suo coordinatore, Gianfranco Della Valle, e da Paola Degani, dell’università di Padova, nel primo e finora unico studio espressamente dedicato ai femminicidi di prostitute.

 

Un numero su tutti: dal 1970 a oggi, i casi sono stati 897. Un’autentica strage, che ha cancellato dall’anagrafe - sempre che vi fossero registrate - 765 donne e 132 transessuali (tutte mtf, ossia male to female). L’anno nero si ebbe nel 1998, quando le prostitute trucidate furono 37. Ma poco cambia se, come nel 1992 e nel 1996, le vittime furono 34, o se negli anni Settanta si era rimasti in un range compreso tra 10 e 19, o se, ancora, nel terzo millennio si è toccato il picco nel 2000, con quota 29.

 

Restano comunque dati sconcertanti e, probabilmente, impensati anche in Lombardia, che svetta con 202 casi. Fanno storia a sé regioni più piccole come il Friuli Venezia Giulia, pure nella parte alta della classifica, visto che almeno 13 dei 27 femminicidi sono attribuiti all’ignota mano del “mostro di Udine”, e il Trentino Alto Adige, dove fu invece il “mostro di Bolzano”, pure rimasto senza nome, a colpire 5 delle 10 prostitute complessivamente ammazzate sul territorio. Il periodo approfondito nel report è più ristretto: si va dal 1988 al 2018, perché è a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta che la prostituzione di strada cambia volto, passando da prevalentemente autoctona a prevalentemente migrante.

 

Oggi - si legge - meno del 3% delle donne che lavora in strada è italiana. Al sorpasso, tuttavia, non ha corrisposto un maggiore riparo ai rischi del mestiere: con 421 vittime, la nazionalità più penalizzata è proprio quella italiana. Seguita dalle altre due nel frattempo imposte sul mercato del sesso a pagamento dalle rispettive tribù criminali: quella nigeriana (90) e quella albanese (66). «Donne - ricordano gli studiosi - accomunate da debolezza individuale e sociale e da scarsa autodeterminazione del loro progetto migratorio». E che «pagano con la propria vita le faide legate a logiche di accaparramento del profitto».

 

Il triplice femminicidio di Roma, con la montagna di stereotipi sfoderati per relegarlo nella categoria dei delitti a sfondo sessuale, peraltro per mano di un presunto folle, ha dimostrato ancora una volta quanto poco interesse ci sia a sollevare la tendina su un mondo criminale che di quelle e altre violenze rappresenta la cornice. Elemento, questo dello sfruttamento e delle vessazioni quotidiane subite dalle sex workers, che non a caso lo studio evidenzia, osservando tuttavia come siano le condizioni stesse dell’attività svolta a disincentivare qualsiasi forma di denuncia. Vittime due volte, quindi: in quanto «schiacciate tra organizzazioni criminali tra loro rivali e la patologica affermazione di potere dei clienti» e in quanto “prive di regolari titoli di soggiorno e spaventate tanto all’idea di non essere credute, quanto dalla certezza delle ritorsioni” che chi le controlla farà loro patire.

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Da qui, la preziosità del lavoro svolto dagli operatori e dai mediatori linguistici e culturali. Tanto più in questi ultimi anni di profondo mutamento delle modalità di prostituzione, con il progressivo calo delle presenze in strada, in atto dal 2017 - già prima, quindi, dei divieti e delle restrizioni imposti dalla pandemia da Covid 19 -, anche quale conseguenza delle ordinanze emesse da questo o quel Comune per questioni di “decoro pubblico”, e il parallelo incremento dell’offerta indoor. Una transizione tutt’altro che vantaggiosa, a sentire gli esperti, e non soltanto per la maggiore difficoltà di mapparne il variegato universo. «Il rischio, ora più che mai, è rappresentato dall’invisibilità - spiega Della Valle -. A differenza della prostituzione autonoma e negoziata, che negli appartamenti può trovare situazioni di maggiore comfort, chi vive sotto lo scacco dello sfruttamento e dell’assoggettamento vede aggravata la propria posizione di vulnerabilità». E torniamo all’esempio di Roma: quanto tempo c’è voluto per risalire all’identità delle due vittime cinesi? Essere ostaggi di quattro mura equivale a non esistere agli occhi del mondo che le circonda. «Finché sono in strada, le prostitute possono essere avvicinate dai nostri operatori e, pur con tutte le paure e resistenze che comprensibilmente manifestano, cominciare ad aprirsi - continua -. Tutto sta a conquistarne la fiducia: oggi sorseggiando una tazza di tè caldo insieme, domani chiacchierando in una pausa dal lavoro».

 

La tutela sanitaria, che è l’obiettivo primario del Numero verde contro la tratta, si costruisce così. «Il meccanismo di prevenzione, con la distribuzione di preservativi e l’accompagnamento alle visite mediche - ricorda il suo coordinatore -, è rivolto a chi si prostituisce, ma vale poi anche per i clienti e per i loro partner, presenti o futuri».

 

Non meno centrale la necessità di favorire, attraverso il filo diretto con le unità di contatto, l’emersione dei risvolti criminali del fenomeno. A differenziare gli omicidi di prostitute dagli altri, cosiddetti, di genere, oltre all’età media più bassa delle vittime (35,8 anni le italiane, 26 le nigeriane e 24,3 le albanesi), è proprio la frequenza con cui non si perviene all’identificazione del colpevole. «Si tratta di donne “disumanizzate”, di cui si minimizza anche la morte - scrivono gli autori -. Le prostitute risultano spesso “disperse mancanti”: persone scomparse mai segnalate alle forze dell’ordine. Indagare non è facile quando mancano interesse pubblico e testimoni credibili, colleghe e clienti si dimostrano riluttanti a collaborare e le stesse prove del Dna appaiono confuse e riferibili a più soggetti. Lo stile di vita e l’assenza di relazioni interpersonali, inoltre, rendono improbabile che familiari e amici conoscano gli spostamenti quotidiani della vittima».

 

Condotte con il contributo di 65 tra enti (soprattutto Comuni) e associazioni, le rilevazioni rappresentano una bussola di come, dove e quanto la criminalità organizzata punti sul business della prostituzione. L’ultima, aggiornata al 20 ottobre scorso, attesta un’ulteriore inversione di marcia, con il gruppo africano (quasi soltanto nigeriane) al 19,7% delle presenze, molte di meno rispetto al passato e al 70,8 del gruppo europeo, rappresentato per oltre il 45% da rumene, quasi il 30 da albanesi e il 5 da bulgare. In termini assoluti, le prostitute osservate sono state 1.440: con la prima mappatura nazionale, nel 2017, se ne erano contate 3.709. Allora come oggi, si tratta comunque di numeri per difetto: istantanea delle presenze complessive in una determinata sera e, poche o tante che siano, anche dello schiavismo dell’epoca contemporanea.