Gli affari dell’Eni ai tempi di Scaroni hanno consolidato la nostra dipendenza energetica dalla Russia. Mentre grandi banche come Intesa e Unicredit incassavano profitti enormi grazie ai rapporti con le aziende controllate dal Cremlino. Che ha arruolato anche ex ambasciatori a Mosca e finanziato associazioni e lobby

Non l’ha fatto da solo. Non l’ha fatto da poco. Ha ricevuto il supporto di politici, imprenditori, dirigenti, banchieri, diplomatici. È merito, colpa, loro se qualcuno in Italia ha reputato Vladimir Putin uno statista. Le bombe russe che uccidono in Ucraina annientano le polemiche, ma non possono tramortire pure la memoria. Ecco come il fenomeno putiniano ha soggiogato Roma per vent’anni.

 

Da mezzo secolo, fin dal Sessanta e dall’Eni di Enrico Mattei, la Russia ha garantito all’Italia un flusso costante di petrolio e poi anche di gas. Con Putin la ricerca di Mosca di nuovi mercati s’è fatta insistente. L’energia si è trasformata in uno strumento per influenzare la politica europea. Creare dipendenze. E il capo di governo Berlusconi ha aiutato “l’amico Vlad” in questa missione.

 

L’immagine simbolo di un’alleanza che muove potere e denaro è del novembre 2005 e vede schierati Berlusconi e Putin insieme col presidente turco Recep Tayyp Erdogan all’inaugurazione del gasdotto Blue Stream, un’infrastruttura della massima importanza strategica costruita da Gazprom con Eni per portare il gas russo attraverso il mar Nero fino alle coste dell’Anatolia. Lo stesso gasdotto da cui adesso l’Eni, mentre i missili russi devastano l’Ucraina, si dice pronta a disimpegnarsi liberandosi della propria quota del 50 per cento e rompendo così il sodalizio con Gazprom che dura da un quarto di secolo. La firma del primo contratto, per la progettazione e lo sviluppo di un’opera costata oltre 5 miliardi di euro, risale infatti al lontano 1997, a Palazzo Chigi c’era Romano Prodi, ma fu Berlusconi a raccogliere i frutti del patto con il colosso dell’energia controllato dal regime di Putin.

SCARONI_ESPRESSOTURRINI_20220301205007445_22D2300E67A3ABA13BBF55

Il nuovo corso con Mosca provocò anche un ribaltone al vertice dell’Eni. Nel maggio del 2005, fase crepuscolare del governo di Berlusconi, Paolo Scaroni prese la poltrona di Vittorio Mincato, che si era opposto al progetto di autorizzare Gazprom a distribuire gas in Italia con Bruno Mentasti, imprenditore e grande amico di Berlusconi. Alla fine l’operazione fallì, ma l’anno dopo Scaroni firmò comunque un’intesa con i russi per prolungare sino al 2035 i contratti di fornitura di gas all’Italia, mentre il giovane Ernesto Ferlenghi fu promosso alla guida degli uffici di Mosca al posto di Mario Reali, che aveva presidiato la sede russa prima di Montedison e poi dell’Eni dalla fine degli anni Sessanta, ai tempi dell’Unione Sovietica.

 

Nel 2010 i documenti segreti svelati da Wikileaks hanno fatto emergere i sospetti degli Stati Uniti sulle connessioni sempre più strette fra Eni e Gazprom e le pressioni di Washington sulla multinazionale italiana per cambiarne traiettoria. Durante la gestione Scaroni, sostituto con Claudio Descalzi dal premier Matteo Renzi nel 2014 e salutato da Putin con un’onorificenza di Stato, il flusso di gas proveniente dalla Russia è sempre cresciuto. Nel 2000 le forniture di Mosca coprivano poco più del 20 per cento del fabbisogno nazionale, una quota che nel 2010 aveva già raggiunto il 28 per cento. Quando si è insediato Descalzi si era già arrivati al 40 per cento con la Russia come principale esportatore di gas in Italia in luogo dell’Algeria. Niente è cambiato finché il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, temendo il blocco delle esportazioni russe, la settimana scorsa si è precipitato ad Algeri nel tentativo di ricevere forniture supplementari il più in fretta possibile.

 

Oltre a consolidare la storica collaborazione con Gazprom, nella stagione di Scaroni, l’Eni si è anche messa in società con Rosneft, l’altro gigante energetico del Cremlino, per cercare il petrolio nell’Artico, nel mare di Barents. L’accordo, siglato in pompa magna a Mosca nel 2013 alla presenza di Putin, è stato vanificato poco dopo dalle sanzioni internazionali a Mosca in seguito all’annessione della Crimea scippata all’Ucraina. È invece in piena attività l’enorme giacimento di gas di Zohr, proprio di fronte alle coste egiziane. Nel 2016 l’Eni di Descalzi ne ha girato una quota del 30 per cento a Rosneft, agevolando l’ingresso nel Mediterraneo alla società affidata da Putin al suo antico sodale Igor Sechin.

 

Rosneft ricorre più volte negli affari italiani in Russia. Nel maggio 2014, fu il gruppo petrolifero di Sechin a soccorrere Marco Tronchetti Provera dopo la rottura con l’altro socio forte di Pirelli, la famiglia Malacalza. Giusto due mesi dopo l’invasione della Crimea ordinata da Putin, la società petrolifera di Stato russa comprò per 552 milioni di euro il 13 per cento della multinazionale con base a Milano. Nel 2015 i cinesi di ChemChina sono diventati i principali azionisti di Pirelli, ma i russi hanno conservato una quota del 6 per cento circa tramite una catena societaria quanto mai opaca che via Lussemburgo conduce a Mosca e a Sergey Sudarikov, amministratore di Region Group, la società che ha in dote il fondo pensioni di Rosneft. Sudarikov da dicembre del 2019 non figura più tra gli amministratori della holding del Granducato a cui sono intestate le azioni Pirelli, ma è ben conosciuto in Italia nella rete di manager e finanzieri amici di Mosca. Per esempio da Antonio Fallico, un manager siciliano che si è trasferito a Mosca come capo di Banca Intesa Russia. Quest’ultima, al pari del concorrente Unicredit, da tempo opera al servizio delle aziende italiane che esportano e lavorano in Russia. Però Intesa ha trovato anche il modo di inserirsi da protagonista in un’operazione come la parziale privatizzazione di Rosneft, che nel 2017 ha rinvigorito le casse del Cremlino con almeno 10 miliardi di euro. Intesa finanziò con un maxi prestito di 5,2 miliardi di euro i due compratori, il gruppo svizzero Glencore e il fondo sovrano del Qatar che rilevarono una quota azionaria complessiva del 19,5 per cento.

TRONCHETTI_AGF_EDITORIAL_GFD2540399

Il cinquantenne romano Ernesto Ferlenghi ha il passaporto russo. Un aspetto che definisce. Nonostante il recente sacrificio: le dimissioni dal consiglio di Federal Grid (società elettrica) su indicazione/imposizione dell’Italia e di Lapo Pistelli (vicepresidente di Eni) per la guerra scatenata in Ucraina. A Mosca è una sorta di anfitrione di politici e imprenditori. Confindustria in Russia e in ciascuna repubblica ex sovietica è territorio di sua competenza. Ha ceduto la presidenza di Confindustria Russia a Gianni Bardazzi di Maire Tecnimont e ha accettato l’incarico di vice con deleghe esecutive. Accolse le guarnigioni berlusconiane e poi quelle assai più strampalate di Matteo Salvini. E omaggiò lo stesso «capitano» leghista durante la visita di ottobre 2018. Quella che per l’inviato speciale Gianluca Savoini si concluse all’albergo Metropol con una avventurosa trattativa per innaffiare di rubli i bilanci della Lega così da prepararsi alle elezioni europee. Allora Ferlenghi era concentrato sul Forum di dialogo italo-russo, una struttura per scambi di ogni tipo - economico e culturale - creata nel 2004 da Berlusconi con l’amico Vladimir. La presidenza del Forum era l’ultima bollinatura da conquistare per raggiungere il rango di Fallico. Ferlenghi si affidò a Salvini e al suo consulente al governo Claudio D’Amico, fondatore assieme a Savoini dell’associazione “Lombardia Russia”, e ottenne il posto a discapito di Luisa Todini (luglio 2019). I russofili d’Italia brindarono a Ferlenghi nella cena a Villa Medici incrociando i calici con Putin. C’era pure Savoini. I media statali di Mosca celebrarono il nuovo corso del Forum.

 

Ferlenghi non ha smentito le attese. Lo scorso anno ha organizzato un incontro per spingere l’Italia a utilizzare il vaccino Sputnik e ovviamente ha approvato (agevolato) l’accordo fra gli scienziati dell’Istituto “Spallanzani” e i colleghi del “Gamaleya”. Il 21 febbraio, a due giorni dall’invasione russa in Ucraina, si è tenuta la riunione plenaria del forum con dieci tavoli tematici. In teoria la gestione è bilaterale, ma la comunicazione col gruppo Ima e il denaro con diverse aziende pubbliche - Novatek (gas naturale), Transneft (oleodotti), Sukhoi (aeronautica), Rzd (ferrovie), Tmk (siderurgia) - sono di marca russa. Spiccioli in confronto ai capitali che ha a disposizione “Conoscere Eurasia” di Fallico, un’associazione che si propone di rafforzare le relazioni con la Russia e i vicini Bielorussia, Kazakistan, Armenia, Kirghizistan eccetera. Una visione gradita al Cremlino. Dal 2007 il siciliano di Bronte, per un vertice economico, raduna a Verona ministri italiani e stranieri, dirigenti statali e privati e soprattutto coinvolge le più ricche aziende di Mosca.

 

All’edizione di ottobre ha ospitato Prodi, Scaroni, Tronchetti Provera, Emma Marcegaglia, Carlo Bonomi, Francesco Profumo, mezza nomenclatura moscovita e anche il qatariota Mohammed bin Jassim al Thani, il ministro degli Esteri. Un evento di prestigio con i contributi di Banca Intesa, Coeclerici, Generali, Accenture e i rubli di Gazprombank, Rosneft, banca Mkb, banca Vtb. Il manager Sudarikov, quello del fondo Region e dell’operazione Pirelli, è un vice di Fallico in “Conoscere Eurasia”. L’altro vice è l’oligarca Alexander Abramov del gruppo Avraz, grande produttore di acciaio.

 

Comunque Fallico non ha bisogno di intermediari. Il putiniano Sechin, ex agente segreto e capo di Rosneft, volentieri è più volte andato negli anni scorsi in trasferta dal caro Antonio in quel di Verona. La sorte ha voluto che i seminari di “Conoscere Eurasia” fossero frequenti alla vigilia dell’offensiva russa in Ucraina. Tre si sono svolti a febbraio, il 10 con base a Mosca, il 17 a Milano, il 18 a Genova. Davanti ai colleghi dirigenti di Banca Intesa e alle istituzioni italiane, a Mosca c’era l’ambasciatore Giorgio Starace, a Milano il presidente regionale Attilio Fontana, a Genova il presidente regionale Giovanni Toti, Fallico ha recitato vibranti discorsi in difesa della Russia di Putin. Ha criticato il sistema delle sanzioni occidentali, «lo fanno da 500 anni contro Mosca: iniziative per fermare i concorrenti», ha denunciato una «campagna di disinformazione, se non proprio di diffamazione» e con le stesse parole, a Milano e Genova, ha accusato la Nato, ha elencato gli aiuti in armi all’Ucraina e ha sentenziato: «La Russia non ha attaccato mai nessuno».

 

In questi anni Ferlenghi e ancora più Fallico hanno riportato e cantato in Italia le gesta del ventennio di Putin, una maniera classica per sensibilizzare la pubblica opinione e incunearsi tra le fragili convinzioni dei politici. Mosca e Roma hanno ridotto le distanze. Ciò non sarebbe accaduto se Berlusconi non avesse plasmato l’alleanza con la Russia di Putin e se la diplomazia, a lungo diretta dal ministro Franco Frattini, oggi presidente del consiglio di Stato nonché presidente dell’Istituto studi euroasiatici, non l’avesse accompagnato. Fu l’ambasciatore Gianfranco Facco Bonetti (2001/06) il primo a trattenersi, in qualche modo, dalle parti del Cremlino una volta concluso il suo mandato al servizio del governo italiano. Poiché fu indicato rappresentante del Sovrano ordine di Malta, carica assunta fino al 2019 e adesso consegnata al manager Aimone di Savoia Aosta, figlio di Amedeo, capo di Pirelli in Russia. Invece Vittorio Claudio Surdo (2006/10) ha riscosso più fortune. Anche economiche. Dopo la pensione dalla Farnesina, Surdo è diventato consulente di Enel per il mercato russo e di Bosco dei ciliegi della catena moscovita dei magazzini d’alta moda Gum e infine, ormai da oltre un decennio, è il lobbista in Italia e nell’Europa del sud per Lukoil, la seconda compagnia petrolifera del Paese. L’11 marzo 2021, a neanche un mese dal giuramento del governo, Surdo era già da Roberto Cingolani, ministro per la Transizione ecologica, a perorare le cause di Lukoil.

 

L’ambasciatore Cesare Ragaglini (2013/2018) si è congedato la scorsa estate dal lavoro in Russia dopo la ben remunerata esperienza di vicepresidente della banca statale di sviluppo Veb. Ragaglini accettò l’incarico diplomatico a Mosca con qualche reticenza, poi si ambientò, a tal punto da rifiutare il trasloco a Bruxelles dopo un negoziato non troppo soddisfacente con il premier Matteo Renzi. Nel discorso di saluto ai colleghi, nella solenne conferenza degli ambasciatori del 2017, Ragaglini giustificò l’occupazione russa della Crimea: Putin va compreso. Il successore Pasquale Terracciano (2018/21) ha vissuto sentimenti molto più sfumati di Ragaglini. Da ottobre a Mosca c’è Giorgio Starace, ambasciatore pragmatico, fratello di Francesco, amministratore delegato di Enel, multinazionale con milioni di interessi e migliaia di dipendenti in Russia. Starace dovrà chiudere per Roma un’epoca di rapporti affettuosi con Putin e ne dovrà aprire un’altra ancora ignota e certamente molto complessa. Di sicuro nei prossimi vent’anni ci saranno più italiani in Russia e meno italiani di Russia.