Il ruolo di Peppe Molisso, narcos del clan dei Senese, che ha impiegato lo stesso killer per un altro agguato. Gli equilibri delle piazze di spaccio a Roma. I cartelli e le rivalità. La morte di “Diablo” permette di ricostruire una parte dei meccanismi della malavita della Capitale

La criminalità a Roma è una rete interconnessa di soggetti che si muovono in un rapporto di mutua assistenza criminale, salvo imprevisti. I sodalizi malavitosi convivono l’uno accanto all’altro, spartendosi il territorio in modo più fluido che altrove, in un equilibrio che favorisce gli affari e allontana i problemi, almeno fino a quando i guai qualcuno non se li va a cercare, perché fa il furbo, perché non paga la stecca, per un debito o per un credito o perché alza troppo la testa. E a quel punto, allora, si spara.

 

Il mondo del crimine romano è una matassa ingarbugliata, dove i nemici si alleano e gli amici si tradiscono. Dove se sgarri con i tuoi sodali più che con i tuoi rivali, sei morto. E infatti Fabrizio Piscitelli è morto, gli hanno sparato mentre era seduto su una panchina, in un parco della Tuscolana, dove è cresciuto e dove si sentiva protetto. L’esecutore materiale è stato arrestato, ma mancano ancora i mandanti. Seguendo i fatti di sangue che da quel 7 agosto del 2019 si sono susseguiti a Roma, è forse possibile oggi ipotizzare la cerchia entro la quale si è deciso quell’omicidio; il killer, l’argentino Raoul Esteban Calderon è stato arrestato lo scorso dicembre, per la morte di Piscitelli e per quella di Shehaj Selavdi, a Torvajanica, individuato grazie alle indagini della squadra mobile di Roma e dei carabinieri del Nucleo investigativo di Frascati, coordinati dalla procura di Roma. La pista del killer albanese, battuta per mesi e seguita anche da chi scrive era sbagliata.

Cronaca
Cosa ci dice del crimine a Roma l’arresto del presunto killer di Fabrizio Piscitelli detto Diabolik
20/12/2021

A tradire il Diablo non sono stati gli albanesi. «Roma non vuole padroni», si è sempre detto, anche se le indagini e la strada raccontano tutt’altro, perché a decidere i carichi di droga e il prezzo per le piazze, a dirigere decine di batterie, a stabilire alleanze, a dirimere controversie, a concedere protezioni o farle venire meno sono in pochi e sempre gli stessi, da anni: a cominciare dai Senese, il clan di camorra più forte a Roma dagli anni ’80, da cui dipendono alcuni pezzi da novanta della mala romana. Il capo indiscusso è zio Michele, detto ’O Pazz’ (per la sua abilità ad evitare il carcere attraverso false perizie psichiatriche) che negli anni ha costruito un impero del narcotraffico, guidando il cartello anche dal carcere: nascondeva i pizzini anche nelle scarpe. Senza dire - come abbiamo appreso - di una visita autorizzata di Michele stesso ai genitori, con i quali ha pranzato comodamente a casa sua, nel fortino del Quadraro, sia pure, ovviamente, alla presenza delle forze dell’ordine.

Michele Senese

Sotto l’ala protettrice del clan di Afragola sono cresciuti pesi massimi del crimine romano, come Giuseppe Molisso, Roberto De Santis, detto Nasca, Roberto Giordani, detto Cappottone, Ugo di Giovanni e Fabrizio Piscitelli, per tutti Diabolik. Riferibili al cartello dei Senese ci sono altri soggetti di grande spessore come Alessandro Capriotti, alias Er Miliardero e i fratelli Enrico e Leandro Bennato, nipoti di Walter Domizi, “il gattino”, boss della zona Casalotti-Primavalle. Un filo rosso sangue unisce alcuni di questi nomi e ci porta, ancora una volta all’omicidio del Diablo.

 

La strategia del clan dei Senese è sempre stata quella di consentire ampi spazi di autonomia ai propri sodali, dissimulando così il controllo esercitato sulle loro azioni, ma non è concepibile assumere iniziative di rilievo senza il loro assenso.

 

Giuseppe Molisso, napoletano, classe ’82 è il personaggio di maggior caratura criminale del cartello, considerato il vero erede di Michele ’O Pazzo. Pericoloso e temuto per la sua facilità nel ricorrere alle armi: «Peppe è uno che ti spara», dice il collaboratore di giustizia Diego Refrigeri. Nel 2010 Molisso era già saldamente a capo di numerose batterie operanti nel traffico di droga, tra Cinecittà e il Tuscolano, ma negli ultimi anni il suo prestigio era notevolmente cresciuto a Tor Bella Monaca, il più fiorente mercato della droga a Roma, grazie alla sua capacità di stabilire rapporti diretti per l’approvvigionamento di cocaina; tra i suoi canali spagnoli potrebbe esserci addirittura Antonio Gala, boss campano attualmente latitante, considerato uno dei re del narcotraffico internazionale. Molisso è stato arrestato lo scorso gennaio, nell’ambito di un’indagine dei carabinieri del Nucleo investigativo di via in Selci, coordinati dalla Dda di Roma, dalla quale è emerso a suo carico un duplice tentato omicidio che forse potrebbe fornire una chiave di lettura importante per decifrarne un altro: quello di Piscitelli.

 

Giuseppe Molisso, da quanto emerge nelle sue chat decriptate, risulta essere il mandante del tentato omicidio dei fratelli Alessio ed Emanuele Costantino, figli di Andrea detto “Er Verdura”, pregiudicato attivo soprattutto nell’usura. I fratelli si erano resi colpevoli del pestaggio di un nipote di Molisso, per di più filmando l’accaduto in un video che poi aveva fatto il giro del carcere dove è recluso loro padre. Un’onta da lavare con il sangue; Peppe decide allora di affidare il compito a un killer che conosce molto bene, tanto che nelle chat si chiamano reciprocamente “amico”: Raul Esteban Calderon, lo stesso che sparò a Diabolik e a Shehaj, alias “Simone Passerotto”, a Torvajanica. Dopo aver concordato ogni dettaglio dell’agguato con Molisso, Calderon il 13 luglio scorso si presenta con uno scooter guidato da un complice, davanti al Roxy bar in viale Alessandrino, tra la gente e a volto scoperto. Il messaggio vale per tutti: il capo si rispetta. Anche stavolta il killer spara alla nuca, ma l’urlo dell’altro fratello fa spostare Emiliano che viene colpito alla spalla e alla mandibola. Calderon esplode un altro colpo, ma la sua calibro 9x21 si inceppa. Ha fallito e scappa.

 

Le vittime non hanno dubbi sul responsabile dell’agguato, ma si guardano bene dal denunciarlo alle forze dell’ordine: «Alessio l’hanno puntato in faccia. Volevano ammazza’ a tutt’e due, André solo lui po’ fa’ ste cose!», dice Fabiola Nori, la madre dei ragazzi, durante un colloquio intercettato in carcere, al marito Andrea Costantino, che quando capisce chi c’è dietro all’agguato ai figli, terrorizzato scoppia a piangere: «Comanda tutto lui!», dice.

Nel giorno del fermo dell’argentino, Emanuele Costantino, intercettato, dice: «L’omicidio de Diabolik uguale me lo stava a fa’ a me, identico!». La forza di Peppe Molisso è tale che può ordinare un omicidio senza subire ritorsioni. Sopra di lui, del resto, ci sono solo i Senese. Molisso che ha vissuto per molti anni a Cinecittà, si era poi trasferito a Grottaferrata, dove vivevano proprio Fabrizio Piscitelli e Alessandro Capriotti, detto Er Miliardero, per la montagna di soldi che è riuscito ad accumulare tra narcotraffico e truffe. Anche Capriotti è un uomo dei Senese ed è proprio lui che Piscitelli attendeva seduto tranquillamente sulla panchina nel Parco degli Acquedotti, quel 7 agosto, come abbiamo scritto mesi fa senza ricevere finora smentite. Er Miliardero all’appuntamento non si presenterà mai, a differenza invece del killer argentino. Difficile non ipotizzare che abbia fatto da esca e che non condividesse la sentenza di morte decisa per il capo ultrà. A quanto ci risulta, quel giorno Diabolik avrebbe dovuto riscuotere da Capriotti la tranche di un pagamento, era una stecca sulla droga o su altro? È possibile che Piscitelli facesse da mediatore tra Capriotti e gli albanesi, con cui ultimamente Er Miliardero aveva problemi tali da ricevere pesanti intimidazioni? Come lui nessuno parla, del resto, in un clima di omertà spaventoso.

 

Tra i punti ancora chiarire, ce n’è uno di particolare interesse. Se ormai è noto che a sparare è stato Calderon, chi era il complice che attendeva fuori dal parco in motorino per assicurargli la fuga? Seguendo gli intrecci dei fatti criminali, verrebbe da ipotizzare che quel giorno ad accompagnare Calderon fosse un altro uomo riferibile al cartello dei Senese: Enrico Bennato, braccio armato di suo fratello Leandro, boss di Primavalle, una zona storica della mala romana, dove la droga circola a fiumi.

 

Seguiamo i fatti. Pochi mesi dopo l’omicidio di Fabrizio Piscitelli, mentre Leandro Bennato è in macchina in via Boccea viene raggiunto da due uomini in scooter che gli sparano alle gambe. A sparare è Shehaj Selavdi, accompagnato da un complice. Leandro capisce che l’agguato è una vendetta di Fabrizio Fabietti, braccio destro di Piscitelli, per vendicarne la morte. Da quel giorno scatta la caccia all’uomo, Leandro cerca Fabietti ovunque. Il socio del Diablo si sente un uomo morto e non sbaglia.

 

Da quanto si è appreso, il giorno prima del suo arresto, Fabietti commette un’imprudenza: va a cena fuori con la moglie senza guardaspalle e per un soffio non viene raggiunto da Bennato, che quella sera si aggirava intorno a casa sua in macchina in compagnia del killer argentino, pronto con il colpo in canna. A salvargli la vita sono stati gli uomini del Gico di Roma della Guardia di finanza, che quando lo arrestano nell’ambito dell’indagine Grande Raccordo Criminale lo trovano nascosto nel vano del condizionatore, in pigiama e immerso nella sua urina, per la paura che fosse arrivato, come per Piscitelli, il suo momento. Ma la spirale di violenza non si ferma, perché il 20 settembre del 2020 tocca a Shehaj morire, freddato da Raoul Esteban Calderon, accompagnato ancora una volta da Enrico Bennato, che intercettato dai carabinieri, finisce per denunciare se stesso e suo fratello Leandro come mandante dell’omicidio di Fabrizio Piscitelli, dell’albanese Shehaj e del suo complice, di cui ad oggi non si sa nulla: «È morto pure quello, a sede’ sulla panchina, stava a fuma’ la sigaretta, ha preso la revolverata qui dietro e l’altri due de quelli là che hanno sparato a Leandro sono morti». Amen.

 

I fratelli Bennato non erano gli unici a voler eliminare Fabrizio Piscitelli, che era diventato un problema per molti dei suoi sodali. Non rispettava le regole, andava a prendersi i migliori uomini dalle batterie altrui, soprattutto spacciatori, si era dato un ruolo da mediatore per una pax mafiosa ad Ostia senza averne avuto l’investitura dall’alto, aveva mandato in tilt insieme a Fabietti il mercato della droga, abbassando troppo i prezzi, mettendo in difficoltà tutte le piazze di Roma e poi si sentiva talmente forte e autonomo da non pagare come gli altri o in misura minore la stecca ai Senese. Era un guaio quel Diabolik per il suo stesso cartello, per Giuseppe Molisso, per i fratelli Bennato e per Alessandro Capriotti sicuramente, ma nessuno lo avrebbe toccato se zio Michele avesse voluto cambiare il finale, salvandolo. Forse aveva sbagliato troppo per essere difeso, ma di fatto la sua corsa per prendersi Roma si è fermata su una panchina, nel quartiere dove è cresciuto.