Recovery Plan
Poca trasparenza, scarso coinvolgimento della popolazione, incapacità di assumere personale competente nella Pa. Così è a rischio il progetto di un’Europa sociale. L’allarme di Fabrizio Barca
di Gloria Riva
Gli occhi dell’Europa sono puntati sull’Italia. A preoccupare è la capacità del Paese di spendere i 191,48 miliardi del Piano di Ripresa e Resilienza. Con quei soldi l’Italia punta a modernizzare il Paese, ridurre le disuguaglianze e offrire uno sviluppo sostenibile e inclusivo attraverso l’uso di tecnologie innovative, creando asili nido e ridando voce ai troppi territori dimenticati, siano essi periferie, comuni di montagna o del Sud. Ma siamo già in ritardo. Perché l’Europa stacchi il terzo assegno da 19 miliardi, l’Italia doveva centrare 55 obiettivi entro la mezzanotte di Capodanno, ma all’appello mancano 15 milestone da raggiungere, fra cui la legge sulla concorrenza e la riforma del processo civile e penale. Parallelamente il Paese si era impegnato a spendere 42 miliardi entro fine anno, invece ha erogato appena una decina di miliardi. Il ministro per gli Affari europei con delega al Recovery Plan, Raffaele Fitto, conferma le criticità, ma assicura che a brevissimo gli obiettivi saranno tutti centrati ed è pronto a confrontarsi con la Commissione europea per ammorbidire i vincoli di spesa: «Non sfuggirà che il nostro orizzonte temporale è il 2026, non possiamo concentrarci ogni volta sulla singola scadenza», ha detto il ministro.
La partita è piuttosto delicata perché, come spiega l’economista Fabrizio Barca, «se ci sarà un’Europa politica e sociale, che renda sistematica la creazione di una spesa e di un debito pubblico comunitario, pagato con le tasse degli europei, dipende per lo più dalla capacità italiana di tenere fede agli impegni presi con il Pnrr». Questo perché l’Italia è il primo beneficiario del piano europeo: assorbe un quinto di tutti gli investimenti a fondo perduto e un terzo di tutti i prestiti disponibili. «Tutte le proposte di riforma della fiscalità europea sono bloccate in attesa di vedere se il sistema promosso col NextGenEu (ovvero debito comune con investimenti europei a fronte di concrete riforme) funziona», racconta David Rinaldi, direttore di studi e politiche della Feps, Foundation for European Progressive Studies, che dal suo osservatorio belga continua: «Un fallimento nella messa a terra del Pnrr darebbe credito ai Paesi frugali, che preferiscono evitare un coinvolgimento dell’Ue per il finanziamento di beni comuni come clima, energia pulita, sicurezza, innovazione, infrastrutture».
Perché l’Italia fa così tanta fatica a spendere i soldi europei? Una prima risposta l’ha fornita Alessandra Faggian, docente di Economia applicata al Gran Sasso Science Institute, intervenuta a dicembre al convegno “Pnrr: valutare per migliorare” proposto da Feps e dal Forum Disuguaglianze e Diversità per una prima analisi di confronto dei piani nazionali: «La maggior parte dei fondi è allocata attraverso bandi pubblici, che implicano la capacità di sapervi partecipare e presentare progetti ben fatti e strutturati. In questo c’è un problema di divario istituzionale che non si è preso in considerazione: infatti i piccoli comuni spesso non hanno neppure l’ufficio progettazione a cui rivolgersi e quindi sono stati esclusi dalla possibilità di partecipare alle gare del Pnrr. Questo sconfessa l’intenzione dei decisori italiani di destinare il 49,55 per cento delle risorse del Pnrr a favore della coesione territoriale». Quindi, in teoria la metà del denaro europeo dovrebbe servire a contrastare lo scollamento tra cittadini e istituzioni e le disuguaglianze fra aree centrali e marginali, attraverso un approccio politico basato sui luoghi e con un insieme strutturale e granulare di politiche sensibili alle persone e alle zone in cui vivono per promuovere l'innovazione economica, sociale e istituzionale. In pratica si è fatto il contrario. «È vero che nel piano c’è l’impegno a destinare il 40 per cento delle risorse al Sud, ma è una soluzione parziale e manca la consapevolezza delle disuguaglianze territoriali», afferma Faggian, che aggiunge: «C’è una grave frammentazione nella definizione delle aree marginali, strumentale al ruolo di gruppi di potere, interessati a essere citati e riconosciuti nel Pnrr». Eppure sarebbe bastato fare leva sulla Snai, la Strategia Nazionale per le Aree Interne, per riconoscere facilmente le aree marginali e offrire loro una scatola degli attrezzi, per esempio un aiuto nella realizzazione dei bandi o nella messa a terra dei progetti, per evitare che i finanziamenti del Pnrr rimanessero al palo. Qualche esempio? Su tutti la creazione di scuole per l’infanzia per offrire un nido a 264.480 bambini, con uno stanziamento complessivo di 4,6 miliardi: «Leggendo i decreti e i bandi di avviso pubblico, l’Italia si prefigge di raddoppiare i posti entro il 2025 per offrire un servizio ad almeno un terzo dei bambini», racconta Francesco Corti del Centre for European Policy Studies, che continua: «Al netto della graduatoria attuale, il 22 per cento dei progetti è ancora in fase di approvazione del ministero dell’Istruzione e, nonostante la semplificazione delle norme sugli appalti, i tempi per l’affidamento e l’assegnazione dei lavori variano dai sei agli 11 mesi, con tempi più lunghi del 38 per cento al Sud. In più alcuni comuni risultati vincitori al bando stanno rinunciando, perché non hanno i mezzi e le competenze per realizzare le opere. Quindi certamente non si riuscirà a raggiungere il primo obiettivo concreto concordato con la Commissione europea, cioè l’aggiudicazione di tutti i contratti di costruzione degli asili entro metà 2023». E le aree più in ritardo sono quelle che scontano una maggior arretratezza rispetto ai servizi alla prima infanzia, come la Campania e la Sicilia: «Molti comuni non hanno presentato i progetti perché non hanno le competenze tecniche. E i mille dipendenti pubblici, assunti per aiutare i municipi più in difficoltà, non sono sufficienti per rispondere alle loro carenze».
Perplessità anche sul fronte della transizione ecologica, dove l’Italia stanza 71,7 miliardi, superando di poco il minimo richiesto dall’Unione europea, destinando però il 40 per cento alle ferrovie, un’altra grande fetta al Superbonus 110 per cento per l’efficientamento energetico, mentre solo il 14 per cento va alle rinnovabili. Il confronto con gli altri piani europei è impietoso: «L’Italia è l’unico dei grandi player europei dove manca un piano per l’automotive e siamo parecchio indietro sul fronte delle energie rinnovabili», commenta Maria Enrica Virgillito, professoressa di Economia Politica alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. Gli investimenti in batterie e veicoli elettrici sono concentrati nelle aree dove ci sono già le competenze in atto: ad esempio in Germania aprirà una gigafactory per le batterie, mentre in Italia si discute di avviare una produzione a Termoli o nell’ex stabilimento Olivetti a Scarmagno, «ma parliamo di realtà che saranno attive non prima del 2025», conclude la docente, secondo cui nel Recovery manca una chiara programmazione della produzione delle energie rinnovabili e delle sue applicazioni.
Se la Commissione europea accoglierà la proposta del ministro Fitto di dilatare le scadenze, è probabile che in cambio chieda di assicurare una maggior partecipazione pubblica almeno in fase di implementazione, anche a compensazione della mancanza di un monitoraggio civico nella fase di costruzione dei programmi. «Sarebbe auspicabile, perché solo se i cittadini si convinceranno che il Recovery Plan è servito a cambiare rotta, allora potremo andare nella direzione di una maggiore integrazione europea», commenta Barca, che continua: «La cattiva notizia è che al momento l’analisi delle regole e dell’attuazione del processo ci indicano forti criticità in Italia e in tutti i Paesi e quindi si mette a rischio quell’impatto positivo desiderato. La buona notizia è che il piano è ancora alle battute iniziali - stiamo valutando l’allocazione delle intenzioni, non certo i progetti fatti e finiti - e quindi c’è ancora margine per porre rimedio. E la prima cosa da fare è offrire un forte monitoraggio civico perché i cittadini hanno il diritto di arrabbiarsi quando scoprono che il denaro stanziato non viene speso nel modo giusto, mentre l’amministrazione pubblica ha bisogno di ricevere le critiche della popolazione, perché la pressione dell’opinione pubblica è il maggior acceleratore di pratiche burocratiche», continua l’economista che fa notare: «Se finora non è stato creato un osservatorio civico del Pnrr è perché i due governi precedenti non hanno voluto ci fosse trasparenza sul tema», e lancia la palla al governo Meloni affinché intervenga in tal senso.
Barca suggerisce di sfruttare la capacità di sintesi delle città metropolitane e della Strategia Aree Interne per offrire punti di riferimento ai comuni: «Così da potenziare la capacità progettuale dei piccoli municipi. Perché, ricordiamocelo, il Recovery non è un programma per scavare buche e riempirle, così da creare un po’ di salario, un certo profitto e soprattutto tante rendite. È soprattutto un piano europeo per rispondere in modo ordinato al succedersi di un drammatico ripetersi di grandi crisi».