Esclusivo
Il traffico di reperti rubati per i grandi musei: nei sequestri in Usa sono coinvolti anche trafficanti italiani
Dal Met di New York al Getty di Los Angeles, statue e reperti d’epoca greco-romana sono finiti nelle sale espositive più famose del mondo. L’indagine americana svela il ruolo di un ricco mercante siciliano collegato a Matteo Messina Denaro
Castelvetrano, 1985. Jiri Frel, già curatore del museo Getty di Los Angeles, entra nella casa di un mercante d’arte siciliano. Lo studioso di origine cecoslovacca non sa nulla di mafia, ignora di trovarsi in un centro storico dominato da una delle più potenti famiglie di Cosa nostra. A riceverlo è Giovanni Franco Becchina, detto Gianfranco, classe 1939. Frel lo conosce solo come valido fornitore di pezzi d’arte antica, con clienti dalla Svizzera agli Stati Uniti, che ha già venduto al Getty più di cinquanta preziosi reperti classici.
New York, 2022. L’agente speciale Robert Mancene fa irruzione nella residenza di una ricca vedova americana, Shelby White. Il poliziotto sventola un decreto di perquisizione, firmato il 27 aprile dal giudice Ruth Pickolz, e sequestra 18 antichità greche e romane, che valgono almeno 24 milioni di dollari. Il blitz giudiziario in quell’appartamento di One Sutton Place South fa scandalo nell’alta società: la signora è una nota mecenate e con il marito Leon Levy, un magnate di Wall Street morto nel 2003, aveva donato venti milioni al Metropolitan Museum per ampliare un’ala da dedicare proprio all’arte greca e romana. Entrando così nel consiglio direttivo del Met, il museo più importante degli Stati Uniti.
A collegare Castelvetrano a New York, a unire gli affari siciliani di quarant’anni fa con le indagini odierne negli Usa è una serie di personaggi al confine tra due mondi in apparenza lontani: criminalità e arte. Il più chiacchierato, oggi, è proprio Becchina. In questi anni l’imprenditore di Castelvetrano ha rivendicato più volte di non essere stato mai condannato per alcun reato. Nel 2018, però, la Commissione Antimafia presieduta da Rosy Bindi lo ha bollato come «vicino sia alla famiglia mafiosa di Campobello di Mazara sia a quella di Castelvetrano», che è risultata «attiva anche nel commercio illecito di reperti archeologici provenienti da scavi clandestini nell’area di Selinunte», con «interessi facenti capo a Matteo Messina Denaro e, prima ancora, a suo padre Francesco».
Nel decreto della primavera scorsa, il giudice americano spiega che ci sono «ragionevoli motivi» per ritenere che la vedova White fosse entrata in possesso di «opere rubate». Dei 18 reperti sequestrati, almeno otto sono passati dalle mani di Gianfranco Becchina, come ha confermato un portavoce del Met all’International Consortium of Investigative Journalists (Icij), con cui L’Espresso collabora da anni. La nostra inchiesta giornalistica ha cercato di ricostruire come quelle opere siano potute finire nel patrimonio della mecenate di New York. E in che modo molti altri tesori d’arte antica siano stati rivenduti, dopo vari passaggi e mediazioni internazionali, a grandi musei europei e americani.
Tra i maggiori intermediari, oltre a Becchina, spicca un altro italiano, Giacomo Medici, condannato a Roma, nel 2011, a otto anni con sentenza definitiva. Nelle carte di New York compaiono anche un mercante inglese, Robin Symes, e un collezionista americano, Robert “Bob” Hecht, coinvolto a Roma in un processo (parallelo a quello contro Giacomo Medici) assieme a Marion True, ex curatrice del Getty, subentrata a Jiri Frel. Entrambi sono stati salvati dalla prescrizione, come del resto lo stesso Gianfranco Becchina.
Per ricostruire la provenienza e il turbinio di trasferimenti delle opere poi finite a Shelby White, L’Espresso ha chiesto l’aiuto di tre esperti: il docente greco Christos Tsirogiannis, professore alla Ionian University e consulente della procura di New York; e gli archeologi italiani Maurizio Pellegrini e Daniela Rizzo, che hanno collaborato con i magistrati di Roma nel processo a Giacomo Medici. I tre studiosi hanno fatto un lavoro certosino: ricerche sui cataloghi dei musei, confronti con le foto sequestrate, analisi del patrimonio dei coniugi Levy-White, che nel 1990 esposero al Met duecento opere di loro proprietà in una mostra dal titolo “Glories of the Past”.
Becchina aveva agganciato Levy e White nel 1987, vendendo loro varie ceramiche, anche etrusche. All’epoca il mercante siciliano era al culmine della carriera. Aveva già piazzato altre antichità in Europa, in particolare al Louvre e al museo statale di Monaco di Baviera. Il legame con il Getty risale almeno al 1976. Nel 1983 c’è un grosso guaio: Becchina offre al museo californiano, al prezzo di 10 milioni di dollari, un kouros greco, ovvero una statua in marmo di un giovane nudo. L’affare sfuma perché un famoso critico italiano, Federico Zeri, consulente del Getty, etichetta l’opera come «un falso». Becchina però resta in auge. E due anni dopo, a Castelvetrano, incontra Frel, appena rimosso dalla carica di curatore del Getty con l’accusa di aver fatto troppi acquisti a prezzi gonfiati. Con pezzi di dubbia origine, probabilmente trafugati. Tra il 2005 e il 2010 il museo californiano restituisce all’Italia i primi 43 reperti etruschi e greco-romani, mentre lo scandalo si allarga: il Boston Museum ne rimpatria 13, il Met di New York altri 20.
Questa svolta ha la sua genesi in una serie di inchieste avviate in Italia su Medici e sullo stesso Becchina, che nel 2001 viene indagato a Roma per ricettazione ed esportazione illegale di opere d’arte. Nel maggio 2002 gli inquirenti svizzeri, su richiesta italiana, perquisiscono la sua galleria d’arte antica, chiamata Palladion e da lui fondata con la moglie Ursula a Basilea, dove aveva messo radici dagli anni ’70. Da lì e da altri depositi emerge un catalogo enorme, ribattezzato «archivio Becchina»: a quello ufficiale, con 13 mila documenti e quattromila fotografie, se ne aggiunge uno «riservato», con immagini di altri 3.164 reperti. Molti provengono dalla Puglia. E oltre il 90 per cento dei «vasi apuli» risulta avere un’unica fonte: Raffaele Monticelli, poi condannato come «tombarolo», annotano gli inquirenti di New York.
A Roma, intanto, il processo è lentissimo: Becchina approfitta delle leggi italiane e ottiene la prescrizione per tutti i reati, già nel 2011. Il giudice Rosalba Liso gli nega però l’assoluzione, scrivendo nella sentenza che «la copiosa documentazione acquisita attesta che quegli oggetti provengono da scavi clandestini: qualsiasi provenienza legittima è da escludere».
Il professor Tsirogiannis conosce bene gli archivi di personaggi come Medici, Hecht, Symes e il suo socio greco Christo Michaelides. Ma ha studiato in particolar modo l'archivio di Becchina. È stato lui a identificare le opere sequestrate a New York, orientando le indagini guidate dal viceprocuratore Matthew Bogdanos, un ex colonnello dei Marines. Lo studioso greco chiarisce che sono arrivate alla vedova White «tramite una catena di rivenditori». E precisa a L’Espresso di aver riconosciuto almeno otto reperti provenienti dall’archivio Becchina: fibule in bronzo, argento e oro di oltre duemila anni fa, piatti decorati da antichi pittori greci e «un’anfora a figure nere» del sesto secolo avanti Cristo, attribuita al celebre ceramista Nicostene, che vale da sola almeno 250 mila dollari.
Gli archeologi Pellegrini e Rizzo aggiungono altri dettagli cruciali. Nell’archivio sequestrato a Becchina, ad esempio, c’è una vecchia Polaroid con la scritta: «Foto già inviata al signor Levy», proprio il marito di Shelby White. Il quale salda con un assegno di 28 mila dollari la fattura emessa dal mercante di Castelvetrano il 28 agosto 1987. Stessi passaggi per un «guttus», un «vaso apulo a figure rosse» del 330 avanti Cristo che il signor Levy ha acquistato il 15 marzo 1988, a New York.
L’archivio svizzero di Becchina, con la sua miniera di vecchie Polaroid, è citato anche in un secondo decreto di sequestro, firmato l’11 luglio 2022 da un altro giudice di New York. È sempre l’agente speciale Mancene a presentarsi, questa volta, nella sede del Metropolitan Museum, al 1000 di Fifth Avenue, per prelevare altre 21 opere che valgono più di 11 milioni di dollari. Anche in questo caso ci sono «ragionevoli motivi» di credere che siano state «saccheggiate». E proprio in questi giorni le autorità americane stanno cominciando a restituirle all’Italia, come ha confermato pubblicamente il viceprocuratore di New York.
Gli studiosi italiani Pellegrini e Rizzo hanno identificato molte altre opere dell’archivio Becchina, come un vaso d’argento del sesto secolo avanti Cristo, valutato 300 mila dollari; uno in vetro con manici d’argento da 400 mila; tre elmi corinzi da mezzo milione; una «testa in marmo di uomo con barba» da 350 mila dollari; una «statuetta in bronzo di Giove» che ne vale altrettanti.
Il professor Tsirogiannis ha prestato la sua consulenza anche sulle opere sequestrate al Met, contribuendo a svelare il mistero che circonda le celebri «statuette in marmo di Castore e Polluce», i Dioscuri, i due gemelli della mitologia greca. «Si tratta di due statue simili, ma non uguali», spiega il docente a L'Espresso: «Nella foto dell'archivio Becchina, il giovane di sinistra è senza testa. Testa che invece c’è nella seconda immagine, quella dell’archivio Symes-Michaelides. Ho studiato il caso per il mio dottorato di ricerca a Cambridge, dove mi sono laureato nel 2013. Per questo, il viceprocuratore Matthew Bogdanos ha chiesto nuovamente la mia collaborazione. Gli ho inviato tutte le immagini e il testo del mio lavoro per il dottorato, dove ho concluso che questo gruppo marmoreo, forse venuto alla luce in Siria o in Libano, è stato offerto in coppia, con e senza testa, prima da Becchina a George Ortiz, un ricco collezionista internazionale, che a sua volta lo ha offerto a Symes. Quest'ultimo, a quanto sembra, l'ha venduto a Jerome Eisenberg, un famoso antiquario americano, titolare della Royal Athena Gallery di New York, che pare aver prestato i Dioscuri al Metropolitan. Dove infine sono stati così confiscati». Il blitz è scattato cinque giorni dopo la morte del proprietario, all'età di 92 anni. La valutazione dell'opera, che risale al 400-500 dopo Cristo, è di almeno 800 mila dollari.
La procura di New York collega a Becchina, definendolo «noto trafficante», anche un «gruppo di sculture in terracotta» quasi a grandezza naturale, chiamato «Poets and Sirens» (in italiano, Orfeo e le sirene), del valore di otto milioni di dollari. Secondo gli inquirenti americani, il mercante di Castelvetrano lo comprò da ladri italiani, che l’avevano estratto da una tomba vicino a Taranto. Poi l’ha «contrabbandato» in Svizzera, dove l’ha fatto ripulire e restaurare, per offrirlo a un banchiere elvetico che nel 1976 ha gestito come broker la cessione finale al museo Getty.
Con l’arte e l’archeologia Gianfranco Becchina è diventato ricchissimo. In Sicilia ha comprato tenute agricole, aziende, immobili, perfino una parte del castello di Castelvetrano. Unico errore, un’impresa edilizia con un socio mafioso. Sei anni fa, i suoi legami siciliani gli sono costati una confisca. Nella motivazione, riportata da Lirio Abbate nel libro-inchiesta “U Siccu” su Matteo Messina Denaro, il tribunale di Trapani spiega che «pur non avendo riportato condanne per associazione mafiosa, le sue frequentazioni, i suoi traffici e i rapporti diretti con gli ambienti della criminalità organizzata di tipo mafioso castelvetranese rendono attuale e rilevante il suo grado di pericolosità qualificata». Quando la Dia, il 15 novembre 2017, gli ha notificato la confisca, non ha trovato nessun archivio: la biblioteca del palazzo di Becchina, con tutte le sue carte, è bruciata proprio quel giorno per un misterioso incendio.