Misteri italiani

Cascina Spiotta, il brigatista mancante nella strage dei segreti che anticipano il Caso Moro

di Simona Zecchi   24 aprile 2023

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Il giallo del terzo uomo sparito dalla scena della sparatoria del 1975 nel luogo in cui era tenuto l’industriale Gancia e in cui morì Mara Cagol, la moglie dell’ideologo delle Br Renato Curcio. Il controspionaggio aveva una fonte all’interno del vertice brigatista. Il rebus sul “Piccolo”, il sequestratore dall’accento meridionale segnalato dall’ostaggio

I segreti degli anni ’70 hanno quasi tutti un punto in comune: non sono frutto di un capitolo di storia già chiuso, ma ancora possono (e devono) essere trattati alla stregua dei cold case. Ecco perché tornare su un fatto di 48 anni fa su cui la Procura di Torino (insieme alla Dna) ha riaperto un fascicolo nel 2022.

Il fatto è la sparatoria alla Cascina Spiotta del 5 giugno 1975, una strage dopo uno scontro tra militari e brigatisti rossi nel covo del sequestro dell’industriale Vallarino Gancia avvenuto il giorno prima. Il 5 giugno del 1975 ad Arzello, nell'Alessandrino, rimangono uccisi l’appuntato Giovanni D’Alfonso e Margherita Cagol detta Mara, che aveva già preso parte al sequestro del giudice Mario Sossi e all'assalto al carcere di Casale Monferrato, da cui venne fatto evadere Renato Curcio, suo marito. Il tenente Umberto Rocca, preso in pieno da una bomba a mano, perse un braccio e un occhio, mentre il maresciallo Rosario Cattafi, investito dalle schegge, rimase ferito. D'Alfonso morì in ospedale dopo alcuni giorni di agonia. La medaglia d’oro promessa ai famigliari dall’Arma fu poi declassata ad argento. E fu la madre di un ex partigiano ucciso dai nazifascisti nel ‘44 a portarla simbolicamente sulla bara. 

Il giallo su quel che accadde veramente alla Cascina Spiotta riguarda l’identità dei brigatisti coinvolti. Uno soltanto finora è stato il condannato: l’allora 22enne Massimo Maraschi che in realtà alla Cascina Spiotta, vicino alle colline di Acqui Terme, terra degli scrittori Pavese e Fenoglio, non è mai arrivato perché arrestato il giorno stesso del sequestro. E che pure ha subito la condanna anche per il conflitto a fuoco. Ci sarebbe poi almeno una terza persona, impegnata nella sparatoria insieme alla Cagol nel tentativo di fuggire, e riuscita a far perdere le proprie tracce per quasi 50 anni. Ed è sul brigatista mancante che si arresta il cuore di un mistero o forse di un segreto ben custodito. Che non è l’unico. 

La procura di Torino ritiene di averlo individuato nel milanese Lauro Azzolini che per questo è la seconda persona, insieme con Renato Curcio, considerato ideatore del sequestro Gancia, finita nel nuovo fascicolo. Tuttavia, presto, potrebbero esserci altre sorprese.

Ma torniamo a quel giorno: a rimanere illeso tra i carabinieri fu l’appuntato in borghese Pietro Barberis che insieme al resto dei militari fisserà così la descrizione del fuggitivo: «Esile, vestito elegante, alto un metro e 75 aveva i capelli castani lisci e corti. Quello non era Curcio». Descrizione ripetuta in udienza anche da un altro militare, Rosario Cattafi. Ma va detto che Barberis è colui che affrontò lo sconosciuto nel conflitto a fuoco e a sua volta era alto 1.80. Difficilmente avrebbe potuto sbagliarsi sull’altezza dell’uomo che aveva di fronte.

Lo scorso 20 aprile la procura di Torino, rilevando 11 impronte digitali sul memoriale che Curcio richiese al Br fuggito dalla battaglia, ha indagato Azzolini che è però molto più alto (circa 1,90). D’altro canto, nell’ottobre del 2022, ad avere indicato Azzolini a Il Giornale era stato l’ex alto ufficiale del Sismi Luciano Seno che però in precedenza aveva fatto altri nomi. E va aggiunto che il presunto ruolo di Azzolini spuntava già fuori da un procedimento andato disperso per anni e apertosi contro di lui. Per Azzolini si arrivò ad emettere nel 1987 una sentenza «di non luogo a procedere per non aver commesso il fatto».

Allo stato attuale, se sia davvero lui il fuggitivo rimane un interrogativo aperto. 

A voler far luce su chi fosse veramente presente quella mattina, insieme all’avvocato Sergio Favretto c’è anche Nicola Brigida, legale che da molto tempo segue alcuni familiari delle vittime del caso Moro. Qui Brigida è il legale della figlia dell’appuntato D’Alfonso, Cinzia. Bruno D’Alfonso, l’altro figlio dell’appuntato ucciso, a L’Espresso pronuncia parole chiare adombrando il sospetto che le presenze nel teatro della sparatoria fossero più di quanto si è creduto finora: «In questa storia tutti mentono: carabinieri e Brigate rosse. È come se fosse stato raggiunto un patto. Ho avuto una difficoltà oggettiva all'interno dell'Arma per la mia ricerca della verità».

D’Alfonso ora è giornalista per la cronaca abruzzese de Il Messaggero, ma prima era un maresciallo dei carabinieri e per anni ha cercato di indagare in solitaria. L’Espresso ha tentato di parlare anche con uno dei militari coinvolti nel conflitto a fuoco ancora in vita, l’ufficiale Umberto Rocca, ma sembra non sia stato possibile per motivi di salute.

L’uomo fuggito dalla battaglia alla cascina, dove il 4 giugno era stato condotto dalle Br l’imprenditore Vallarino Gancia, sequestrato a Caselli in provincia di Asti, resta dunque il fantasma che aleggia su questa storia. E non è l’unico perché lo stesso sequestrato Vallarino Gancia, in un verbale di interrogatorio del 6 giugno 1975, mai pubblicato prima, parla di un carceriere con accento calabrese-lucano, soprannominato da lui “il piccolo”.

Diverso dal terzo uomo, il brigatista, alto anche per lui circa 1.75, fuggito dal teatro della sparatoria. Che l’area fosse terreno favorevole per i brigatisti, del resto, è testimoniato dal fatto che a soli cinque chilometri in linea d’aria dalla Spiotta (che a quanto pare i carabinieri tenevano d’occhio da tempo) c’è un altro casolare. Era servito come poligono di tiro, gestito dal superclan di Corrado Simioni confluito poi nella criptica “scuola di lingue” francese, Hyperion, indicata dall’ex pentito delle Br, Michele Galati - esponente di spicco dell’allora colonna veneta - come una sorta di centrale del terrorismo internazionale.

La ricostruzione della fuga del terrorista mancante ha impegnato a lungo la procura di Torino. Che ha anche acquisito un attento lavoro svolto da due giornalisti, Simona Folegnani e Berardo Lupacchini. Nel loro libro “Brigate rosse. L’invisibile: dalla Spiotta a Via Fani” (Falsopiano editore, pagg. 521) hanno pubblicato diversi documenti inediti e nuove ricostruzioni su quel giorno di sangue.

Renato Curcio è entrato nell’inchiesta da indagato nel marzo scorso per il ruolo apicale nella organizzazione e nel sequestro. Ruolo avuto anche da un altro capo delle Br, Mario Moretti, come emerge da un suo libro-intervista. Tuttavia, al momento Moretti non risulta indagato.

Nell’unica sentenza di condanna finora scritta sulla battaglia della Spiotta (1978), c’è un particolare significativo: il terzo uomo, il brigatista mancante, si sarebbe fatto scudo di Mara Cagol lanciando una granata prima di allontanarsi.

Il terzo uomo insomma si sarebbe coperto la fuga sacrificando una compagna più esposta al fuoco dei carabinieri. 

Di sicuro Mara Cagol, che le perizie indicano essere stata colpita da Barberis, oltre alla borsa repertata aveva anche una valigetta 24 ore misteriosamente sparita. La brigatista aveva gestito il sequestro Gancia ma era pure intervenuta in difesa dell’ostaggio quando il terzo uomo fantasma aveva avanzato la possibilità di ucciderlo. A raccontarlo in una intervista rilasciata a L’Espresso nel 1995 è stato lo stesso Gancia che aveva sentito la Cagol dire allo sconosciuto «non c’entra niente», in riferimento al sequestrato. Sapere quindi cosa è accaduto anche a "Mara" dovrebbe essere l'altro nodo da sciogliere.

Nella ricostruzione di quel che accadde, potrebbero essere di aiuto inoltre alcuni documenti dei Servizi, Sid e Sisde.

I giornalisti Folegnani e Lupacchini ne condividono uno, mai entrato nel caso della Spiotta, datato proprio 5 giugno 1975. Si tratta di un appunto sequestrato cinque anni dopo all’allora capo del controspionaggio Gianadelio Maletti. Tra le tante cose, l’ufficiale fa riferimento a una fonte dell’estremismo di destra (Casalini, ovvero la fonte Turco) a proposito della strage di Piazza Fontana (Milano, 12 dicembre 1969). Ma in quell’appunto, c’è un’aggiunta: una riga, stretta tra due note, come notizia da lui avuta in quel momento oppure ricordata all'improvviso, e sottolineata a lato da una riflessione politica. Lì Maletti appunta che il blitz alla Cascina Spiotta era stato anticipato dall’autorità giudiziaria. L’ex caporeparto del Sid, dunque, aveva sentito la necessità di evidenziare che il Nucleo dei carabinieri guidato da Carlo Alberto Dalla Chiesa, era intervenuto anticipando i Servizi i quali evidentemente erano pronti a intervenire. Un'operazione d'intelligence davvero sfumata oppure un corto circuito tra i due corpi? E chi aveva informato gli uomini di Dalla Chiesa?

Come risulta dalle ricerche di Folegnani e Lupacchini, il Sid disponeva di una fonte dell’universo brigatista, denominata “Frillo”, un militante proveniente dall’Autonomia Operaia veneta, fonte poi confluita nelle Br. “Frillo”, come scoperto da Folegnani e Lupacchini, sarebbe Leonio Bozzato, fonte del Sid di Padova. A confermarlo un appunto del Sisde del 1994 conservato presso l’Archivio di Stato di Roma e visionato in esclusiva da L’Espresso: «Positivi risultati furono ottenuti anche a seguito del reclutamento quali fonti di Marco Pisetta e Leonio Bozzato», scrive il Servizio. E Frillo-Bozzato, come emerge da un altro appunto degli 007 di Padova avrebbe reso possibile l’arresto di Renato Curcio e Nadia Mantovani il 18 gennaio 1976. Frillo era la fonte della Spiotta?  Fino a quando continuò a lavorare per il Servizio? Era attivo ancora nel 1978, quando l’offensiva brigatista raggiunse l’apice con l’assassinio del presidente della Democrazia cristiana? Ed era possibile attraverso di lui fermare la strage di via Fani? Un dato certo è che informasse i Servizi sin dal 1971.

Altri interrogativi sono quelli che pone poi Sergio Favretto, l’avvocato che rappresenta Bruno D’Alfonso, il figlio del carabiniere ucciso alla Cascina. Per fugare almeno qualche ombra si chiede a sua volta: «Perché i Servizi non segnalarono ai carabinieri di Dalla Chiesa l’acquisto della cascina Spiotta che Cagol aveva comprato sotto falso nome? Perché non vennero prese le impronte digitali sulle armi utilizzate e lasciate all’interno del covo e sul prato?». Domande che sottendono a un interrogativo di fondo: chi si doveva far scomparire dalla scena della sparatoria, chi andava protetto? Di sicuro aggiunge Favretto, «si potrebbero confrontare le impronte con le banche dati di oggi».