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Sui porti Matteo Salvini, come al solito, smentisce sé stesso. In nome del consenso elettorale
Il ministro vara un decreto per ampliare i poteri dell’Autorità nazionale dei Trasporti e la trasparenza nella gestione di questi snodi demaniali. Mossa necessaria per avere i fondi del Pnrr. Ma indigesta alle authority locali e a un mondo allergico alla concorrenza. E lui rinnega il suo atto
Algoritmi o «format»? Questo il dilemma che ha innescato la battaglia dei porti italiani. Da una parte ecco il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini. Il quale venerdì 21 aprile firma un decreto che vincola le concessioni rilasciate ai privati dalle autorità portuali ai piani economico finanziari delle stesse autorità; specificando però che questi devono seguire i «format» stabiliti dall’authority di regolazione dei trasporti nazionale. Dalla parte opposta, ecco di nuovo il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini che, tirato in ballo a un convegno triestino organizzato dai capi degli enti che gestiscono i porti, dice: «Non può essere un algoritmo o un’authority a decidere le concessioni per le autorità portuali».
Un ministro che smentisce sé stesso non è una gran novità. Per Matteo Salvini, poi, si potrebbe affermare che è quasi un’abitudine. Non molti anni fa, per ricordare solo un caso, aveva sonoramente bocciato il ponte sullo Stretto di Messina, di cui ora è invece diventato il più strenuo sostenitore. Ma un conto sono le dichiarazioni e un conto assai diverso sono gli atti firmati. Tanto più se dietro quegli atti, nella fattispecie il decreto ministeriale 110 del 21 aprile che amplia i poteri dell’Autorità nazionale di Regolazione dei Trasporti, non c’è la manina di qualche funzionario fuori controllo, bensì il mitico Pnrr dei 200 miliardi europei.
Dove sta scritto, nero su bianco, che per avere i soldi il governo italiano si impegna ad approvare «norme finalizzate a introdurre criteri trasparenti e certi per il rilascio di concessioni per la gestione dei porti e dirette a favorire un esercizio più efficiente degli stessi». Il sito del ministero di Salvini spiega infatti che l’emanazione di quel decreto è anche funzionale all’incasso della terza rata dei fondi europei. Qualche miliardino di euro.
Il sospetto è che mentre Salvini firmava quel decreto, lui e il suo braccio destro Edoardo Rixi, leghista genovese sottosegretario ai Trasporti che già aveva ricoperto il medesimo incarico con il ministro grillino Danilo Toninelli nel primo governo di Giuseppe Conte, non si siano resi conto fino in fondo della sua reale portata. Oppure abbiano più semplicemente dovuto fare buon viso a cattivo gioco. E che gioco. Perché l’authority nazionale dei trasporti non avrebbe solo il potere di definire i «format» dei piani economico finanziari delle autorità portuali ma anche di valutarli esprimendo pareri sulle concessioni e la loro durata, arrivando perfino a proporne la sospensione o la revoca.
Ci sono tutti gli elementi, insomma, perché la mossa sia risultata indigesta a un mondo dove da decenni sulle strutture demaniali si sono incrostate rendite di posizione difficilissime da scalzare. Dunque ostili a ogni apertura del mercato. Ovviamente su una scala diversa, ma è esattamente quello che è successo nel caso delle concessioni balneari, dove la concorrenza non riesce a fare breccia grazie anche all’opera di interdizione della politica. Pronta a dare man forte a ogni categoria di elettori. E come sempre, quando un settore manifesta una profonda allergia per la concorrenza, il nemico viene incarnato nell’autorità indipendente che ha invece il compito di farla rispettare.
In realtà l’Autorità nazionale presieduta da Nicola Zaccheo poteri simili sui porti già li aveva. Gli sono stati assegnati dalla legge istitutiva del 2011. L’articolo 37 prescrive che l’authority «provvede a garantire, secondo metodologie che incentivino la concorrenza, condizioni di accesso eque e non discriminatorie alle infrastrutture portuali…». Più chiaro di così? Ma appena ha timidamente tentato di esercitarli è iniziato un micidiale fuoco di sbarramento. I contatti avviati con i vertici degli enti portuali nella prospettiva di aprire un confronto si sono subito chiusi per assoluta mancanza di dialogo. E di informazioni, come fossero porti delle nebbie.
Più volte l’Autorità ha chiesto di avere accesso ai dati sulle concessioni demaniali, ma senza risultati. Zaccheo se n’è lamentato pubblicamente, nella presentazione dell’ultima relazione annuale. Lì ha denunciato che il Sistema Informativo del Demanio marittimo, il cosiddetto Sid, è incompleto. E che la carenza di dati e informazioni pregiudica l’attività di regolazione che la legge attribuisce all’authority. Tutti però hanno fatto spallucce. Ma la colpa non può essere addossata soltanto agli enti che li gestiscono. Anche perché quegli enti sono emanazioni dirette del ministero delle Infrastrutture. E ripercorrendo la vicenda che riguarda il Pnrr la sfera delle responsabilità istituzionali appare più limpida. La verità è che il ministero di Salvini ha ostacolato fin dall’inizio il ruolo dell’authority.
Prova ne sia la circostanza che nella prima versione del decreto di cui sopra sulle linee guida necessarie per ottenere la terza rata dei fondi europei l’Autorità Nazionale dei Trasporti non era neppure menzionata. Tutti i poteri sulle concessioni erano nelle mani degli enti portuali, in evidente e clamoroso contrasto con gli orientamenti comunitari. Ma perfino con quanto era già scritto nel nostro Pnrr, che quegli orientamenti aveva dovuto per forza recepire. A pagina 83 del documento si sottolinea proprio l’esigenza di rafforzare le prerogative delle autorità indipendenti, con un esplicito riferimento all’Authority dei Trasporti. Il decreto così è stato bocciato dall’Unione Europea e gli uffici hanno dovuto riscriverlo. Provocando una rivolta che ha innescato l’apparentemente incredibile inversione di rotta di Salvini.
Il fatto è che le autorità portuali sono centri di enorme potere locale, perciò non indifferenti agli interessi della politica. Abbiamo detto che formalmente quegli enti dipendono dal ministero dei Trasporti, che provvede a nominarne i vertici. Ma è inutile precisare che difficilmente ciò avviene senza il placet, per non dire la designazione, del potere politico di prossimità. Se non è sufficiente, il gradimento dei presidenti di Regione dei sindaci dei grandi Comuni è comunque una condizione necessaria.
Così, quando è scoppiata la sollevazione, il ministro si è schierato subito dalla parte dei rivoltosi contro il decreto che lui stesso aveva appena firmato. Mentre il suo braccio destro Rixi puntava il dito verso Bruxelles. E intanto i leghisti manovravano in Parlamento per disinnescare i poteri dell’authority sul sistema portuale. Nel decreto Lavoro approvato dal governo il primo maggio ha fatto capolino un emendamento per esentare i porti dal pagamento del contributo dovuto all’autorità di Zaccheo da tutti i soggetti regolati. L’emendamento è poi naufragato, ma se fosse passato avrebbe di fatto sottratto gli enti alla sua sfera di competenza.
A guidare la rivolta sul fronte dei porti è un signore che si chiama Zeno D’Agostino. È il presidente dell’autorità di sistema portuale dell’Adriatico orientale, ovvero i porti di Trieste e Monfalcone. Non è un politico, anche se con la politica ha sempre dovuto convivere. A Napoli, quando era segretario della locale autorità portuale. E a Trieste. Con la sinistra e con la destra. In Friuli-Venezia Giulia è arrivato quando presidente della Regione era l’ex vicepresidente del Partito Democratico Debora Serracchiani ed è rimasto anche con il suo successore leghista Massimiliano Fedriga.
E a dimostrazione di quanto un ruolo come il suo possa essere influente su un territorio, e di conseguenza sulla politica, il fatto che nell’intemerata triestina del 22 maggio contro il suo stesso decreto Salvini abbia ripetuto come un registratore il medesimo termine («algoritmo») impiegato da D’Agostino per aprire le ostilità. Una guerra dichiarata alla luce del sole, senza alcun infingimento. «Non ha senso che a fare una valutazione fondamentale delle concessioni portuali sia un algoritmo. Continuiamo a dirci ai convegni che alcune concessioni dei porti hanno un valore strategico, geopolitico, politico importante, poi però le scelte strategiche sono date a un soggetto indipendente che nulla ha a che vedere con la visione geopolitica del governo», si preoccupa il presidente del porto di Trieste.
Preoccupazione condivisa sorprendentemente perfino dalla ex presidente di Regione del Pd, Debora Serracchiani: «Sono scelte che vanno legate a una prossimità e conoscenza dei propri territori, che può non essere la condizione di un’autorità centrale». Applausi scroscianti, e si capisce perché. La posta in gioco è enorme. Intorno alle 16 autorità portuali italiane girano miliardi di euro. E migliaia di concessioni piccole e grandi, ai privati, dal valore «strategico, geopolitico e politico importante», come ammette D’Agostino. Vogliamo rovinare tutto questo per un po’ di concorrenza? Ingenui.