Dopo cinque mesi la Lega non riesce a vendere il campionato. Ancora una volta i club in difficoltà finanziaria aspettano di salvarsi con i soldi di Dazn e Sky. Che però sono stufe di perdere miliardi. E l’arrivo di Mediaset complica la trattativa. Così prende corpo l'arrivo del gruppo Virgin

«La serie A non si farà prendere per il collo», ha dichiarato l’ad della Lega di calcio di serie A Luigi De Siervo. Se solo bastassero i proclami, la vita dei club italiani non sarebbe un tirare a campare fra patrimoni impiombati dai debiti e deficit di conto economico.

 

Gli aguzzini ai quali si riferisce la frase di De Siervo sono i network impegnati in una battaglia sui diritti tv a partire dal torneo 2024-2025. Il negoziato condotto su basi di trattative private dopo il bando pubblicato a maggio ha il suo prossimo appuntamento il 15 ottobre con tre possibili esiti. Primo, l’accettazione delle offerte al ribasso rispetto al triennio in corso. Secondo, il varo del canale della Lega, una sorta di “al lupo al lupo” vociato da tempo immemore che dovrebbe terrorizzare i pretendenti tirchi Dazn, Sky Italia e Mediaset. Infine, un grande classico: pallonata in tribuna e guadagniamo tempo. Già adesso, a cinque mesi di distanza dal bando con i suoi otto pacchetti modello kamasutra, è stato superato il tempo del giro precedente quando passarono tre mesi fra il dicembre 2020 della pandemia al marzo 2021.

 

Allora arrivarono alle squadre 927,5 milioni di euro totalizzati fra i 840 dei vincitori di Dazn e gli 87,5 di Sky. Oggi la richiesta della Lega per il rinnovo triennale è di 1,15 miliardi annui che diventano 1,265 in caso di quadriennale e 1,38 in caso di quinquennale che arriva al campionato 2029-2030.

 

La proposta delle piattaforme è orientata verso il 6-3-1, che non è un modulo tattico ultracatenacciaro ma la formula mista tra sei match in esclusiva (Dazn), tre in coesclusiva (Sky-Dazn) e un anticipo in chiaro su Mediaset che è una novità assoluta.

 

Secondo le cifre ufficiose trapelate, il conto è il seguente. Dazn, società di Leonard Blavatnik, oligarca post sovietico con passaporto britannico e statunitense, mette sul piatto fra i 700 e i 750 milioni, con una riduzione consistente del contratto in essere. È un taglio necessario perché gli abbonamenti all’app in streaming, che hanno avuto un picco di 1,93 milioni a metà del primo anno (2021-2022), portano in cassa forse 600 milioni di euro, ma forse 500, in un contesto di gruppo che ha perso 6 miliardi di dollari in cinque anni.

 

Sky è salita fra i 100 e i 120 milioni. Da Mediaset si calcolano 60 milioni. Il conto totale massimo porterebbe ai 930 milioni del contratto in corso, euro più euro meno. Ma il conto totale massimo è, allo stato, un’ipotesi impraticabile. Sky alza il prezzo su una promessa di avere più partite di cartello fra le sue tre, a fronte di un trattamento attuale giudicato insoddisfacente. Dazn abbassa l’offerta per venire incontro a Sky. Ma l’entrata in scena di Mediaset significa fare quadrare il puzzle con un pezzo preso da un’altra scatola, quella della tv free-to-air. Piersilvio Berlusconi paga e pretende un anticipo di livello con un grande club. Questo, allo stato, impoverisce il bouquet di Sky. Non sembrano le condizioni migliori per chiudere il gap comunque ampio rispetto alla richiesta di 1,15 miliardi.

 

Per fortuna c’è tempo fino a giugno. Ma il passo di lumaca è il risvolto duramente reale degli annunci della Lega e di qualche presidente sugli imminenti rialzi d’asta di Apple, di Amazon, di Discovery e di altri colossi dell’imprenditoria globale che, all’atto pratico, non sono scesi in campo.

 

Un habitué delle riunioni della Lega sintetizza: «Va male male male. I diritti sono una bolla speculativa perché il calcio italiano è brutto. Poi possiamo inventarci qualunque cosa: la media company voluta dalle tre grandi Juve-Inter-Milan, il canale della Lega evocato da Aurelio De Laurentiis, un ritocchino ai vecchi prezzi. Ma è come avere lo stadio di proprietà. Se lo spettacolo non è attraente, il pubblico non ci va».

 

Anche perché il pubblico, soprattutto chi siede in poltrona, rumoreggia. Gli abbonamenti costano sempre di più, la varietà delle proposte tecnologiche mette in confusione i non nativi digitali e il calcio ignora i ribassi di prezzo. I club bruciano in fretta le risorse dei network. Il rapporto tra costo del lavoro nella Premiership inglese, che incassa quattro volte i diritti tv della serie A e il doppio solo dai diritti esteri, è del 70 per cento. Nel calcio italiano la proporzione è del 160 per cento: ogni dieci euro incassati, sedici vanno a calciatori e procuratori.

 

Su questo sistema economico fragilissimo si è appena abbattuto il paradosso saudita. La promozione a colpi di petrodollari del nuovo torneo dei campionissimi fra Riad e Gedda ha sì tolto pressione finanziaria alle società europee con l’acquisto di giocatori costosi attirati dagli ingaggi assurdi dei club arabi. Allo stesso tempo, però, ha creato un impoverimento ulteriore del prodotto serie A, o della Liga spagnola o della Bundesliga tedesca e persino della stessa Premiership inglese.

 

In altre parole, la Lega dei presidenti italiani sta chiedendo più soldi per uno spettacolo meno attraente. 

 

L’altro fattore concorrenziale è la Champions league, dove l’anno scorso le italiane hanno catalizzato l’attenzione generale con Inter, Milan e Napoli protagoniste della fase a eliminazione diretta.

 

A maggio Sky, guidata da Andrea Duilio, si è assicurata un totale di 527 partite dei tre tornei Uefa (oltre alla Champions, anche l’Europa e la Conference league) in esclusiva per tre anni dal 2024-2025. La cifra non è stata divulgata ma è nei dintorni dei 200 milioni annui.

 

Dalla prossima stagione sarà una Champions rinnovata. Anziché 32 squadre ammesse alla fase finale del torneo, ce ne saranno 36 e giocheranno in un girone unico secondo una formula abbastanza macchinosa. Di fatto, è la versione riveduta e corretta del campionato di Superlega voluto da Andrea Agnelli, Florentino Pérez e soci prima che l’Uefa radesse al suolo il progetto nella primavera del 2021.

 

Se il torneo rinnovato avrà successo, non soltanto i match come Empoli-Frosinone avranno ancora meno attrattiva di quella attuale, equivalente a poche migliaia di spettatori collegati con la pay. Anche un derby di Milano versione campionato verrà a deprezzarsi rispetto alla sua versione Champions. Si è visto l’anno scorso nelle semifinali trasmesse in chiaro da Mediaset con un’audience di 7,5 milioni di spettatori sia all’andata sia al ritorno.

 

Così torna la pazza idea del canale della Lega, che porterebbe ai club la cifra fantasmagorica di 12 miliardi di euro in dieci anni, con un contratto di durata superiore a quelli dello sport Usa. L’habitué delle riunioni in Lega sintetizza: «Alla fine, il canale interno si farà. Il punto è come si farà e con chi».

 

L’idea che possa bastare l’International broadcast center inaugurato due anni fa dalla Lega nella cittadina brianzola di Lissone è, al meglio, ottimistica. Così il presidente del Napoli De Laurentiis ha candidato Virgin Fibra, società italiana del magnate britannico Richard Branson costituita nell’agosto 2020. Il manager di Virgin Fibra, che dai conti sembra ancora in fase di startup con 94 mila euro di ricavi e 3,5 milioni di perdite nel bilancio 2022, è Tom Mockridge, neozelandese italianizzato piazzato alla guida di Sky da Rupert Murdoch venti anni fa.

 

Insieme alla Corvina holdings di Branson, Mockridge ha investito risorse proprie nel capitale attraverso la sua Fim holding ed è l’azionista di riferimento. Con lui c’è un gruppo di amici e sostenitori piuttosto eterogeneo. Fra i nomi più noti, figurano l’imprenditore del design Luca Bombassei, la Branca international della famiglia del Fernet, Raffaele Di Nardo di Juice always on (vendite porta a porta), e Giorgio Stock, ex Warner e Disney che si diceva Mario Draghi volesse come ad della Rai.

 

Branson non si mette in gioco per pochi spiccioli, è il ragionamento dei padroni del pallone che per una volta si sono miracolosamente compattati nella battaglia contro il nemico comune a loro e ai network. La legge sulla pirateria è andata in porto ai primi di agosto con il numero di serie 93 del 2023 e con la spinta comune delle parti interessate. Peccato che la piattaforma antifurto Piracy shield ceduta dalla Lega ad Agcom, l’autorità delle comunicazioni, non funzionerà almeno fino a ottobre per inconvenienti tecnici. Non proprio la premessa giusta per allettare gli investitori.