Inchiesta

Chi appicca un incendio in Italia resta impunito

di Paolo Biondani   7 settembre 2023

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Un incendio appiccato nelle aree boschive

I roghi degli ultimi 15 anni hanno distrutto 850 mila ettari di verde: una superficie grande come L’Umbria. Ma i condannati sono pochissimi. E quasi tutti i responsabili sfuggono alla legge

Boschi di Cantalice, provincia di Rieti, 23 agosto. I carabinieri forestali sono in emergenza. Nel pomeriggio è scoppiato un incendio di «chiara matrice dolosa», che sta diventando sempre più ampio e pericoloso. Queste verdi terre dell’Alto Lazio sono già state colpite in passato da più roghi, ripetuti nel tempo. La zona è sorvegliata dai militari, che hanno anche nascosto foto-trappole nei punti di passaggio. Prima di sera un uomo di 55 anni viene sorpreso mentre sta appiccando altre fiamme sul ciglio della strada, vicino a cumuli di foglie e legna secca. Ha l’accendino ancora in mano, quando viene arrestato in flagranza di reato. I Vigili del Fuoco riescono a spegnere l’incendio solo a tarda notte, dopo ore di lavoro tra rovi e tronchi carbonizzati. A quel punto si scopre che l’arrestato era già stato denunciato dai carabinieri più volte, in questi anni, come presunto responsabile di precedenti «incendi boschivi». Eppure non si è fatto problemi a riaccendere il fuoco tra le querce secolari dei Monti Reatini.

 

«Casi del genere purtroppo sono l’assoluta normalità: la lotta contro gli incendi in Italia non funziona, le sanzioni penali vengono minacciate, ma non eseguite, se non in pochissimi casi, per cui non spaventano nessuno», commenta l’avvocato Stefano Deliperi, l’esperto di diritto ambientale che da anni difende il territorio italiano con il Gruppo d’Intervento Giuridico (Grig). «Prima di tutto, i responsabili degli incendi devono essere scoperti, identificati e denunciati. Ma le indagini sono molto difficili, anche perché il fuoco si accende in un istante e brucia tutto, compresi i possibili indizi. Nei rari casi in cui gli inquirenti sono talmente bravi da trovare prove certe, poi bisogna fare i processi, con tre gradi di giudizio, e arrivare a una condanna definitiva prima della scadenza dei termini di prescrizione: in Italia, per i reati ambientali, è un’impresa quasi impossibile. Quindi i condannati sono pochissimi. E molti dei colpevoli riconosciuti, sotto i quattro anni di pena teorica, restano fuori dal carcere, in affidamento ai servizi sociali. Finisce davvero in prigione solo chi subisce condanne più severe, ma con i vari benefici di legge spesso ci resta per pochi mesi. Non ricordo nessuna condanna definitiva a più di sei anni per un incendio boschivo».

 

La crisi generale della giustizia italiana, dunque, garantisce una quasi totale impunità anche per chi brucia i polmoni verdi della nazione. I dati raccolti da L’Espresso confermano che i detenuti per il reato di incendio boschivo sono pochissimi, in rapporto all’enormità delle aree distrutte dal fuoco. Quest’anno, dal primo gennaio al 23 agosto, in Italia sono bruciati 64 mila ettari di verde. In tutte le carceri, alla data del 21 agosto scorso, c'erano 23 accusati di incendio boschivo: 20 condannati (almeno in primo grado), 3 arrestati in attesa di giudizio, secondo i dati ufficiali del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria.

 

Quasi tutte le indagini per questo reato vengono condotte dai carabinieri, che dal 2016 hanno assorbito anche l’ex Corpo Forestale: nel corso del 2022 i militari dell'Arma hanno effettuano 31 arresti per incendi boschivi. A fine anno (31 dicembre 2022), però, restavano in cella solo 18 detenuti, tutti già condannati (almeno in tribunale). Questo significa che quasi metà degli arrestati sono tornati liberi poco dopo il fermo, in attesa di un processo futuro, o addirittura hanno già espiato per intero una pena ridotta, grazie al patteggiamento o altri benefici processuali.

 

Da notare che queste cifre riguardano il nuovo, grave reato di «incendio boschivo» (articolo 423 bis), introdotto nel gennaio 2022 dal governo Draghi (mentre l’attuale esecutivo ha annunciato solo qualche ritocco, ben pubblicizzato) in risposta alla catastrofe dell’anno precedente. Nel 2021 in Italia sono stati inceneriti oltre 169 mila ettari di verde: lo 0,5 per cento del territorio nazionale. Gli incendi più gravi hanno devastato la Sicilia (con roghi in oltre il 60 per cento dei comuni) e la Calabria (con 235 centri colpiti). Nello stesso anno, secondo una ricerca di Legambiente, si sono contati solo 16 arresti con l’accusa di aver bruciato boschi (che rientrava ancora nel reato generico di incendio).

 

Di qui, la stretta normativa: un nuovo reato punito con pene più severe, da 4 a 10 anni di reclusione, con via libera alle intercettazioni e indagini più approfondite. Già nel 2022, come si è visto, gli arresti sono raddoppiati. Ma le fiamme hanno continuato a devastare altri 68 mila ettari di boschi e campagne. Nei primi otto mesi di quest’anno ne sono già bruciati quasi altrettanti. E le regioni più colpite, ancora una volta, sono la Sicilia, dove si concentra il 72 per cento delle aree incendiate nel 2023, e la Calabria, con il 17 per cento del totale.

 

Negli ultimi 15 anni, in Italia, il fuoco ha distrutto più di 850 mila ettari di verde, una superficie equivalente all’intera Umbria. Per misurare il livello d’impunità, si può ipotizzare che ogni incendiario riesca a bruciare dieci ettari di boschi (una media aritmetica ricavabili dai dati); a conti fatti, il rischio di arresto si concretizza per una quota minima di colpevoli: meno di uno su mille.

 

Secondo uno studio dell’Ispra, meno del 2 per cento dei roghi è dovuto a cause naturali, come fulmini o eruzioni. Ancora più rari sono i casi di veri piromani, coartati da patologie psichiche. Quindi c’è un problema gigantesco di criminalità ambientale. I carabinieri forestali continuano ogni giorno a fare indagini e controlli, con oltre 800 stazioni sparse sull’intero territorio nazionale, e con le nuove norme riescono a identificare molti più indagati: nel 2022 il numero delle persone denunciate alla magistratura per il reato di incendio boschivo è salito a 570. Poi però iniziano i procedimenti giudiziari, lentissimi e cavillosi. Molti roghi vanno classificati come colposi, almeno secondo le difese, cioè non volontari, ma provocati da imprudenza, negligenza, disattenzione: la sigaretta accesa, la grigliata spenta male, il falò nei campi dopo la potatura, che in periodi di siccità hanno comunque effetti disastrosi. Gli incendi dolosi, cioè volontari, sono circa la metà del totale: tra il 40 e il 60 per cento, secondo le stime degli esperti. Ma molti casi, almeno stando alle versioni degli accusati, ricordano i delitti preterintenzionali: il contadino o il pastore volevano bruciare solo un’area limitata, per fare spazio alle coltivazioni o al bestiame, ma il fuoco è andato oltre le intenzioni, diventando incontrollabile. In casi come questi, è difficile che il giudice di turno imponga il carcere. A rischiare l’arresto, quindi, sono soprattuto gli incendiari di stampo criminale che agiscono per interesse, speculazione, vendetta, minaccia, intimidazione di stampo mafioso. I professionisti dei roghi, quelli che è più difficile identificare.

 

In questa situazione, l’avvocato Deliperi continua da anni a documentare casi plateali di «recidiva specifica», in particolare in Sardegna, una delle regioni più danneggiate. Il 2 agosto scorso, nella zona di Oristano, viene arrestato per un rogo R. A., 66 anni: ora è accusato di essere l’autore di almeno sei incendi. Nell’estate 2021 è finito in carcere G. F., 53 anni, algherese: secondo la procura di Sassari, ha tentato per otto volte di bruciare la pineta sulle dune di Maria Pia, anche mentre la spiaggia era affollata di bagnanti. Resta per ora insuperato il record di un muratore di 44 anni, L. L., che fu arrestato in flagranza nei boschi di leccio del Linas, con il cerino in mano, e condannato a quattro anni dal tribunale di Cagliari: era sospettato di essere l’autore di ben 63 incendi.

 

Ma allora, se nemmeno il rischio della galera basta a fermare i roghi, dobbiamo rassegnarci a un’Italia in fiamme? Secondo l’esperto del Grig, un rimedio rapido ed efficace ci sarebbe: «Un Daspo ambientale. È una misura amministrativa, prevista fin dal 1989 contro le violenze negli stadi e dal 2018 anche contro il degrado urbano, che permette al questore di tenere lontane alcune persone da certi luoghi. La Corte costituzionale, nel 2002, ha stabilito che è una misura di prevenzione, quindi non è necessario provare in un processo la commissione di un reato, purché esistano fondati sospetti. Gli incendiari sono legati a un contesto, dove distruggono natura, abitazioni, attività lavorative: bisogna allontanarli dal territorio minacciato per un congruo periodo di tempo. Basterebbe un provvedimento simile al vecchio “foglio di via”. Gli attentati all’ambiente, e al patrimonio culturale, dovrebbero essere un campo privilegiato per l’adozione di nuove misure di prevenzione».