Al processo sulla strage di Bologna emerge un punto di contatto tra l’eversione nera e la banda di poliziotti. Un pestaggio per intimidire un presunto esecutore dell’attentato

Ombre nere sulla Uno bianca. La vicenda di questa famosa banda criminale, che tra il 1987 e il 1994 ha terrorizzato Bologna e l’Emilia-Romagna, viene raccontata da sempre come una storia sanguinaria di criminalità: poliziotti che diventano rapinatori e assassini per soldi. Delinquenza comune, senza connotati eversivi. Così dicono le sentenze dell’epoca, in mancanza di prove contrarie, per la verità, più che per intima convinzione dei giudici, che invece segnalano, già in quelle pronunce, gravi dubbi su possibili coperture, depistaggi e connivenze. Ora, nel mare di atti raccolti per l’ultimo processo sulla strage di Bologna, emerge una nuova sequenza di fatti, con uno scenario inedito: la banda della Uno bianca usata per un’azione intimidatoria di chiara matrice terroristica. Un pestaggio organizzato per far tacere uno dei presunti esecutori neofascisti dell’eccidio alla stazione.

 

Il protagonista di questa trama nera si chiama Sergio Picciafuoco. Alle 10.25 del 2 agosto 1980, quando a Bologna scoppia la bomba che uccide 85 persone, Picciafuoco è in stazione: è uno degli oltre 200 feriti. All’epoca è latitante, ricercato per furti e truffe. Colpito dalle schegge, si fa curare in ospedale sotto falso nome, esibendo una carta d’identità contraffatta da un falsario dei servizi segreti (come si è scoperto con le ultime indagini). Processato per la strage, in primo grado viene condannato come possibile esecutore, ma poi ne esce scagionato in via definitiva per insufficienza di prove. Ora, nell’ultima sentenza di Bologna, i giudici scrivono che quell’assoluzione fu un errore. Le nuove prove a suo carico sono descritte nelle 1.704 pagine, depositate nell’aprile 2023, di motivazioni alla condanna in primo grado di Paolo Bellini, che si proclama innocente e ora attende il verdetto d’appello. Anche lui nel 1980 era un neofascista ricercato per reati comuni, come Picciafuoco. Secondo la nuova sentenza, Bellini e Picciafuoco erano «pedine» utilizzate da «un livello superiore»: «una rete eversiva e occulta», composta da «militari ed esponenti dei Servizi deviati, che obbedivano ai vertici della loggia P2».

 

La Corte d’assise ricostruisce, tra l’altro, un loro incontro molto sospetto. Per la strage di Bologna, Picciafuoco viene assolto in appello il 18 luglio 1990, ma resta sottoposto a una misura di sicurezza, per cui non potrebbe lasciare il Comune di residenza. La Digos però scopre che, il 12 ottobre 1990, si mette in viaggio per incontrare Bellini, che va a prenderlo con l’auto della sorella, perché la sua macchina, nuova, gli è stata rubata e incendiata la notte precedente. La polizia pedina entrambi e l’indomani convoca Bellini, che decide di parlare: Picciafuoco è venuto a chiedergli «una pistola e un pacco di soldi», ma lui si è rifiutato.

 

Paolo Bellini

 

Interrogato al processo nei mesi scorsi, Bellini riconferma l’incontro e ricorda che Picciafuoco, chiedendogli la pistola, lo fece infuriare dicendogli: «Tu puoi farmela avere, perché sei uno dei Servizi». Bellini giura di averci litigato, urlandogli: «Sei tu il provocatore». La Corte conclude che entrambi erano legati ai Servizi e che quell’incontro era «una resa dei conti» di stampo ricattatorio, legata al loro ruolo nella strage.

 

Dopo la lite con Bellini, Picciafuoco continua a cercare armi. E il giorno dopo, a Rovigo, incontra un neofascista di Ordine Nuovo, Giovanni Melioli, che gli mostra una pistola calibro 9 e gli indica il nascondiglio, dove poi l’arma viene sequestrata dalla polizia. Melioli era un fedelissimo del terrorista Carlo Maria Maggi, condannato come organizzatore della strage di Brescia.

 

La trasferta di Picciafuoco termina a Roma, con una visita a Stefano Delle Chiaie, il leader storico di Avanguardia Nazionale. Picciafuoco chiede armi e soldi anche a lui, ma torna a casa a mani vuote.

 

Il 2 novembre successivo, gli viene notificata una nuova misura di sicurezza: la libertà vigilata. La pattuglia della polizia lo invita a riferire i suoi spostamenti e annota la sua risposta: Picciafuoco ammette di aver incontrato Bellini, Melioli e Delle Chiaie, naturalmente senza parlare di armi.

 

Quattro giorni dopo, il 6 novembre, Picciafuoco denuncia una misteriosa aggressione. All’uscita dal lavoro, ad Ancona, viene «avvicinato da un’auto bianca, probabilmente una Lancia Delta, con tre uomini a bordo» che «si presentano come poliziotti in borghese» e lo caricano in macchina dicendo che «devono portarlo in Questura». In realtà, si fermano in un parcheggio isolato, in periferia, e lo minacciano: lo accusano di essere «un terrorista dei Nar» e gli chiedono «come si procura le armi». Lui nega tutto. A quel punto i tre lo «picchiano violentemente».

 

Dopo l’arresto dei poliziotti assassini della Uno bianca (l’auto che usavano con più frequenza, ma non l’unica), in diverse città vengono riesaminati tutti i fascicoli collegabili alla banda. Il 30 gennaio 1996, Sergio Picciafuoco viene convocato in Questura ad Ancona per identificare i suoi aggressori: davanti alle foto di molti sospettati, «indica Roberto Savi» come «uno dei tre che lo picchiarono a sangue».

 

 

Roberto Savi era il capo della banda criminale, che ha fondato nel 1987 con il fratello Fabio. Era un poliziotto, come cinque dei sei condannati, tra cui il terzo fratello Alberto. È stato arrestato il 21 novembre 1994 dai suoi colleghi della Questura di Bologna. Nei processi, i fratelli Savi hanno confessato sostenendo di aver agito per soldi. Le sentenze sottolineano però la sproporzione tra mezzi e risultati: 103 azioni da professionisti del crimine, con 24 morti e 102 feriti, per portare a casa, in otto anni, un bottino equivalente a poco più di un milione di euro. I verdetti evidenziano che proprio tra il 1990 e il 1991 la banda ha commesso omicidi misteriosi, non collegati a rapine: stragi di carabinieri, delitti razzisti.

 

Sergio Picciafuoco è morto nel marzo 2022, dopo aver deposto nel processo contro Bellini. In aula ha negato tutto, perfino l’incontro del 1990 confermato da Bellini. E ha ritrattato il suo stesso verbale su Roberto Savi, fornendo una versione che per i giudici è inverosimile: lo avrebbe indicato a caso, solo perché «era una delle foto sul tavolo della Questura», e «senza collegarlo all’aggressione». Nella sentenza, i giudici concludono che Picciafuoco ha ritrattato per paura: nella deposizione «ha dimostrato di essere in evidente difficoltà, dando l’impressione di essere intimorito e di temere per la propria incolumità».

 

I banditi della Uno bianca erano estremisti di destra, ma hanno sempre smentito collegamenti con terroristi neri o Servizi deviati. Intervistato nella pausa di un processo, Fabio Savi dichiarò: «Dietro la Uno bianca c’era solo la targa».