La costruzione di infrastrutture costituisce la maggioranza delle opere finanziate dal Piano di Resilienza e Ripresa, ma dal Nord a Sud i cantieri sono fermi. Così per colpa di politica e burocrazia stiamo sprecando i fondi

Sperano, e fanno bene. Perché come recita il proverbio, la speranza è l’ultima a morire. I costruttori sperano che a Bruxelles, impietositi, si mettano una mano sulla coscienza e concedano una proroga per riuscire a farci spendere tutti i soldi del Pnrr, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza che scade fra due anni e cinque mesi. Sperano, perché per una volta tanto l’Italia non è l’unico Paese che deve fare i conti con i ritardi. La Spagna, per citare soltanto un caso, non sta messa benissimo. E anche lì inevitabilmente si spera, perché l’unione fa la forza.

 

In qualche caso, però, nemmeno una proroga di qualche mese potrebbe risultare sufficiente. Che i problemi non manchino non è una novità.

 

Adesso però si scopre che potrebbero essere più grossi di quello che crediamo. Ci sono 9 miliardi e 21 milioni di opere pubbliche già aggiudicate e con i cantieri aperti, però ancora ferme. Da mesi. Una delle più grosse, in Sicilia, per la ferrovia Palermo-Catania, è bloccata perché mancano le utenze. L’acqua e l’elettricità, banalmente. Come sia stato possibile è un mistero. Davvero incredibile, considerando le dimensioni e l’importanza del progetto. Ci sarebbe quasi da ridere, se non ci fosse di mezzo una valanga di denari pubblici. Fatto sta che il cantiere è aperto, ma l’attività è ferma.

 

Un cantiere dell’anello ferroviario di Palermo

 

Un caso limite, penserete. Vero. Ma ci sono anche altre situazioni, forse non così al limite, dove per ragioni diverse i cantieri aperti sono al palo. C’è un indicatore inequivocabile che lo sta a dimostrare. È quello della incidenza sulla spesa della manodopera effettiva. Per gli 11 appalti di opere Pnrr monitorati dall’associazione dei costruttori, dal Nord al Sud, l’incidenza è ferma addirittura allo 0,2 per cento. E questo grazie al fatto che una di queste 11 opere, il quadruplicamento della galleria Facchini nel nodo ferroviario di Genova con il cantiere aperto esattamente un anno fa, è quasi al 38 per cento. Il resto è da allarme rosso. A cominciare, appunto, dalla ferrovia Palermo-Catania-Messina. Per la tratta Fiumetorto-Lercara, una cosetta da un miliardo e 549 milioni, aggiudicata il 3 agosto scorso, è previsto un costo per lo manodopera di quasi 170 milioni. Siamo a 89.910 euro spesi dal 14 settembre: 0,1 per cento. Ancora peggio, se possibile, il tratto Caltanissetta-Enna. Un miliardo e 319 milioni di opere, di cui 119 milioni per il personale: spesa per il personale dal primo giugno 2023, zero. Come per alcune opere sulla tratta ferroviaria Milano Rogoredo-Pavia (216 milioni e mezzo di lavori).

 

Per non parlare della nuova diga foranea del porto di Genova, 928 milioni dei quali almeno 132 per la manodopera. Spesi finora, 613.750 euro. I cantieri si sono aperti il 17 luglio del 2023, ma la gara era stata aggiudicata il 12 ottobre 2022. Nove mesi e spiccioli prima.

 

Dicono tutto, questi numeri, dello stato di cose che ben presto si dovrà affrontare per le opere infrastrutturali del Pnrr. E lo dicono a dispetto dei trionfalistici comunicati periodici con i quali il governo ha cura di rivendicare puntualmente l’incasso delle rate da Bruxelles. La verità è che oltre alla speranza c’è anche molta preoccupazione: per completare e collaudare opere così impegnative e complesse nei due anni e cinque mesi che rimangono servirebbe un miracolo. Però all’orizzonte non si scorge. Il fatto è che non si scorgono nemmeno consistenti spiragli di luce. Il ministro competente, quel Raffaele Fitto partito democristiano e convertitosi forzista, poi centrodestrorso ribelle una volta appurato di non essere il delfino di Silvio Berlusconi e infine approdato alla corte di Giorgia Meloni, ha promesso di dare una scossa con un decreto. Ma non ha la bacchetta magica, e parte della responsabilità è comunque sua.

 

Il paradosso è che i lavori più piccoli, quelli per capirci che gestiscono i Comuni, procedono con molto maggiore celerità rispetto agli altri. Anche per motivazioni politiche: i sindaci sono eletti dai cittadini e hanno l’interesse a fare sì che tutto vada liscio. I grandi interventi, invece, sono pratiche completamente diverse che richiederebbero ben diverse cure dal potere centrale. Talvolta intersecano altre opere accessorie, che però non sono finanziate con i fondi del Pnrr, che hanno una corsia preferenziale. E si finisce nel gorgo delle procedure ordinarie, senza possibilità di scampo.

 

C’è poi un dettaglio niente affatto marginale. Più del 90 per cento dei lavori infrastrutturali del Pnrr è affidato a una sola impresa. È la WeBuild del gruppo che fa capo alla famiglia di Pietro Salini, ma alla quale partecipa anche lo Stato attraverso la Cassa Depositi e Prestiti. La grande banca del Tesoro ne detiene il 18,7 per cento: è il secondo azionista. Cinque di quelle 11 opere con i cantieri aperti ma incagliate, per un ammontare di circa 6 miliardi, riguardano appalti aggiudicati a WeBuild. Si va dalla Liguria alla Sicilia.

 

Pietro Salini, patron di WeBuild

 

Ma i guai seri arrivano quando salta fuori un’emergenza ambientale che chissà perché non era stata prevista. Succede, per esempio, con la circonvallazione di Trento: 985 milioni, che non sono esattamente bruscolini, bloccati dal 2 marzo 2023, quasi un anno. Un bel giorno spunta la novità che c’è sul tracciato una falda inquinata dall’amianto. Nessuno se n’era accorto prima. E le macchine si fermano prima ancora di partire. Questa è una situazione particolare, perché l’opera era prevista nel Pnrr per poi essere dirottata sul fondo europeo di coesione, ma rende bene l’idea di quello che può accedere in casi simili. Bisogna rifare la procedura ambientale e occorre prima un decreto del direttore del ministero dell’Ambiente, che per inciso lavora in un enorme palazzone romano pieno zeppo d’amianto. Ma quel decreto deve passare anche al vaglio del ministero delle Infrastrutture di Matteo Salvini. Sarà finita lì, direte. Niente affatto, perché a quel punto, soddisfatta la tecnostruttura, è necessario un provvedimento politico. Decreto interministeriale: firma prima il ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, poi quello delle Infrastrutture Salvini. E il decreto torna all’Ambiente, cui spetta l’emanazione fisica del provvedimento. Nel frattempo sono passati sei mesi.

 

Già, il tempo. Questa è una variabile decisiva, che però fatica a entrare nella testa dei decisori politici. Facciamo allora un po’ di conti: magari servirà a rinfrescare la memoria a qualcuno.

 

Il governo di Mario Draghi viene fatto cadere per ragioni esclusivamente elettorali da forze politiche che ne facevano parte il 21 luglio 2023. Da quel giorno l’esecutivo dell’ex presidente della Banca Centrale Europea può compiere esclusivamente atti di ordinaria amministrazione. E il Pnrr va virtualmente in letargo. Tre mesi dopo ecco il governo di Giorgia Meloni che mette il dossier nelle mani di Raffaele Fitto. L’ex presidente della Regione Puglia, che quando ricopre quell’incarico non si avvale di una gestione indimenticabile dei fondi europei, spazza via tutta la squadra che aveva messo in pista Draghi, concentrando ogni potere nella propria struttura.

 

Così si riparte daccapo. Non bastasse, Fitto non è d’accordo su come è stato fatto quel piano. Per lui ci sono troppe opere infrastrutturali a scapito dei finanziamenti per le industrie. Il Pnrr va perciò ricalibrato, e ci vuole la ratifica di Bruxelles. Un problema mica da ridere, visto che i cambiamenti riguardano 144 dei 350 progetti del piano. Anche solo per metterli a punto, quei cambiamenti, ci vogliono un sacco di mesi. Tanto che a settembre del 2023, un anno dopo le elezioni e a 14 mesi dalla caduta del governo Draghi si comincia a discutere con la Commissione europea. Ben arrivati.

 

Nel frattempo, anche all’estero qualcuno si accorge che il piano italiano zoppica. Il Financial Times avverte che bisogna darsi una mossa: dice che dovevano essere spesi 40 miliardi entro la fine del 2022 e invece è stato impiegato il 60 per cento di quella cifra. Per metà di quell’anno la responsabilità è del governo Draghi, ma è indiscutibile che la caduta del governo abbia complicato ancor più le cose.

 

Vuoto per pieno, un anno almeno dei cinque a disposizione è stato sprecato inutilmente. Si pensa più a parare le critiche, arrivando al punto di limitare per decreto i poteri della Corte dei Conti, colpevole di aver rilevato i ritardi con cui procedevano alcune parti del Pnrr, che a riparare le cose che non vanno.

 

La banca dati ReGis, responsabile del monitoraggio in tempo reale degli stati di avanzamento dei progetti del Pnrr, per esempio, continua a non funzionare come dovrebbe. Le informazioni che arrivano dai Comuni non sempre sono aggiornate e affidabili. Senza contare che il monitoraggio deve transitare sotto le forche caudine di un “protocollo unico di colloquio” della Ragioneria generale dello Stato di 115 pagine. Un percorso procedurale così infernale da domandarsi perché sia stato concepito in questo modo e se gli amministratori comunali meno attrezzati saranno mai in grado di affrontarlo. Con il risultato che in molte circostanze non si conosce esattamente la situazione reale. La sensazione è che questa sia la spia di una carenza nell’apparato centrale incaricato di sovrintendere alla gigantesca operazione. Una questione di organizzazione o di qualità del personale, quale sia la ragione è difficile dire. Ma se dobbiamo scoprire dall’Ance che opere infrastrutturali così importanti sono ancora a carissimo amico per motivi imperscrutabili, qualcosa di sicuro non va.

 

E pensare che tutte le previsioni di crescita economica sviluppate per il 2024 si basano sugli investimenti del Pnrr. Anche perché per i prossimi anni sono quelli gli unici denari a disposizione per le infrastrutture.

 

Da adesso ai prossimi 14 anni il bilancio dello Stato destina ai lavori pubblici 14 miliardi 311 milioni e 800 mila euro. Peccato che l’81,2 per cento dell’intera somma, pari a 11 miliardi e 630 milioni, sia per una sola opera: il Ponte sullo Stretto di Messina. Sta così caro a Salvini che nella finanziaria del 2024 hanno dirottato lì 700 milioni inizialmente destinati all’adeguamento prezzi di molti piccoli appalti già avviati del Pnrr.

 

Se sia questa una seconda moneta di scambio, oltre all’autonomia differenziata, per assicurarsi che la Lega non faccia scherzi sul premierato che sta invece a cuore alla presidente del consiglio Giorgia Meloni, è forse possibile. Di sicuro, però, è un problema serio per tutto il resto del settore dell’edilizia, da dove finora è arrivata la spinta più forte per la ripersa economica dopo la pandemia. Un’esagerazione? Da qui al 2038 per mettere al sicuro dai terremoti gli edifici pubblici ci sono appena 285 milioni. Mentre per l’emergenza abitativa non si potranno spendere che 100 milioni: meno della metà dei 220 destinati al Giubileo.

 

Fatto sta che per il prossimo anno, e nonostante i soldi ancora in ballo con il Pnrr, le previsioni per il settore delle costruzioni sono di nuovo in rosso. E non di poco: meno 7,4 per cento. Senza contare che le norme introdotte per velocizzare gli appalti hanno avuto finora l’effetto di tagliare le gambe alla concorrenza. Si capisce questo senza possibilità di smentita dai dati in possesso all’Anac, l’Autorità Anticorruzione presieduta da Giuseppe Busia. Le opere e le forniture assegnate senza una gara vera e propria, grazie all’innalzamento per legge dei limiti d’importo che ora consentono le procedure negoziate fino addirittura alla soglia europea dei 5 milioni, sono oltre il 90 per cento del numero complessivo. Tutto ciò mentre si sta lavorando alacremente per eliminare dal Codice penale il reato di abuso d’ufficio perché spaventa i funzionari pubblici che devono firmare. Così diventerà inutile non soltanto la gara, ma anche la firma. E per qualcuno ci sarà da divertirsi.