Il dossier

L'Italia si mette l'elmetto: sempre più missioni estere per difendere il commercio. Per ora

di Carlo Tecce   21 maggio 2024

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Il nostro Paese si adegua agli alleati e, tra modifiche di leggi e nuove operazioni, sarà più semplici inviare militari e mezzi in scenari a ridosso dei focolai di guerra. Per adesso si difendono i mercantili contro i terroristi. In futuro?

La tendenza europea/occidentale è quella di farsi trovare preparati in caso di guerra. Ci si arrangia, è evidente, in caso di pace. È la deterrenza, termine abusato al pari di resilienza. Questa strategia che muove armi, mezzi, truppe, per funzionare davvero contro la guerra, essere deterrente per l’appunto, dovrebbe smentire il principio massimo dei drammaturghi: quando in un racconto compare una pistola, bisogna che prima o poi spari, altrimenti è soltanto un errore di scena. Qui la scena e lo scenario dicono che ogni governo europeo accorcia le pratiche per fare la guerra o almeno per farsi trovare preparato in caso di guerra. E c’entrano pure le missioni internazionali europee e italiane, che secondo le leggi italiane, non un dettaglio, riguardano le «politiche di cooperazione allo sviluppo per il sostegno dei processi di pace». Una premessa abbastanza pedante: la politica estera italiana è interconnessa a quella europea e, per estensione, a quella americana. Il tema non è mai se aderire o sfilarsi, ma quanto e come aderire.

 

Quest’anno il governo Meloni ha confermato le missioni internazionali già avviate e ne ha varate tre di nuove: 1,71 miliardi di euro nel 2023, 1,82 miliardi nel 2024, oltre un terzo per il ministero della Difesa. I meri dati economici sono troppo asettici per descrivere gli interessi italiani. Le tre nuove missioni introducono o rafforzano la presenza italiana attorno alla penisola del Golfo. Dove ci sono le le ricche monarchie arabe e i ricchi giacimenti di idrocarburi. È l’emergenza mondiale più complessa, più del conflitto in Ucraina, dopo l’attacco di Hamas a Israele del 7 ottobre 2023 e la violenta reazione nella Striscia di Gaza. L’obiettivo primario, europeo e italiano, nel Golfo è proteggere il mercato globale, il traffico commerciale, respingere le offensive terroristiche. Cioè contrastare le rappresaglie che il fronte sciita – Hamas palestinese, Hezbollah libanese, Houthi yemeniti – vuole imporre nel Mar Rosso e nel Canale di Suez o dove s’incontrano il Golfo Persico e il Golfo di Oman, lo Stretto di Hormuz, la via del petrolio. Le scorte armate sui mercantili sono un palliativo. Non la soluzione. Le missioni italiane devono curare i malanni quotidiani, ma devono pensare alle guarigioni di domani. Eccole.

 

1. Operazione Levante. È una simbolica risposta ai fatti del 7 ottobre 2023, prettamente umanitaria. «La Difesa italiana è stata chiamata a fornire contributi per fronteggiare una situazione che prefigura una potenziale escalation e impone un approccio integrato», si legge nei documenti parlamentari. Il contributo italiano è circoscritto: «Trasportare beni di prima necessità a favore di civili; schierare un ospedale da campo e una unità navale con capacità sanitaria in supporto alla popolazione civile; predisporre misure precauzionali per l’eventuale evacuazione di connazionali o l’estrazione delle forze italiane dalla Regione». I limiti di una missione sono fissati con un’area geografica, è un parametro rivelatore, e l’Operazione Levante è parecchio estesa: Israele, Cisgiordania e Striscia di Gaza, Libano, Egitto, Giordania, Cipro, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Mediterraneo Orientale.

 

2. Operazione Aspides («scudo» in greco). È una missione europea, assai prudente se paragonata ai britannici e agli americani che non soltanto mostrano le pistole in scena, ma le fanno sparare. Bruxelles ha deciso di respingere i terroristi in azione, non di sganciare bombe con l’aviazione in territorio yemenita. Per la cronaca: «L’operazione è stata istituita per la durata di un anno, con l’obiettivo di proteggere le navi civili in transito davanti alle coste dello Yemen dagli attacchi provenienti dalla terraferma. L’obiettivo dell’operazione è contribuire alla salvaguardia della libera navigazione e alla protezione del naviglio mercantile in transito in un’area di operazioni che include Mar Rosso, Golfo di Aden e Golfo Persico, con compiti eminentemente difensivi, estesi alla difesa del naviglio mercantile nella sola area prospiciente lo Yemen e nel Mar Rosso». 

 

Altre missioni sono collegate o sovrapposte ad Aspides che «usufruisce del sostegno del Centro dell’Unione europea di situazione e di intelligence per la raccolta delle informazioni necessarie allo svolgimento dei suoi compiti». Per esempio c’è la missione Atalanta che, in varie forme, esiste da una quindicina di anni: «Fornire protezione alle navi di aiuti umanitari del Programma alimentare mondiale diretti in Somalia e proteggere la libera navigazione delle navi mercantili transitanti nell’area geografica di intervento. Dal 12 dicembre 2022 Atalanta ha assunto la nuova denominazione di “operazione militare volta a contribuire alla sicurezza marittima nell’Oceano Indiano occidentale e nel Mar Rosso”».

 

 

3. Operazione Agenor. Questa è la componente militare di una missione multilaterale proposta dai francesi che inizialmente garantiva la sicurezza dei mercantili nello Stretto di Hormuz. Le regole di ingaggio sono delicate: «I dispositivi aeronavali svolgono attività di presenza, sorveglianza e sicurezza per proteggere il naviglio mercantile nazionale (anche con attività di scorta); supportare il naviglio mercantile non nazionale (con attività di accompagnamento, ma non protezione diretta); effettuare attività di ricognizione e raccolta informativa e rafforzare la cooperazione con gli altri assetti internazionali». Inoltre, il governo italiano, sempre nella stessa zona e sempre con il ruolo di sorveglianza, partecipa alla Combined Maritime Forces degli Stati Uniti.

 

L’impegno finanziario totale è di 42,5 milioni di euro per 642 militari, tre mezzi navali, cinque mezzi aerei. Queste cifre mentono. Non perché siano scorrette, ma perché sono cifre. Asettiche. Il loro valore non è in euro. È in prospettiva. Allora va citata la riforma della legge 145 del 2016 che disciplina le missioni internazionali. La riforma ha due scopi: accentrare e velocizzare. E se vi ricorda gli scopi della riforma sulle esportazioni delle armi (n. 185 del 1990), no, non vi sbagliate.

 

La riforma della legge 145 del 2016 è ben riassunta dalle schede fornite ai parlamentari: «Possibilità di prevedere in anticipo le possibili “interoperabilità” tra missioni della stessa area; individuazione di forze ad alta e altissima prontezza operativa, da impiegare all’estero al verificarsi di crisi o situazioni di emergenza, prevedendo una procedura accelerata con decisione delle Camere entro cinque giorni dalla deliberazione del Consiglio dei ministri (…); implementazione dell’elenco degli acquisti e lavori che possono essere eseguiti in economia da parte dei dicasteri introducendo ulteriori materiali e servizi». Il senso è chiaro: in cinque giorni, con una «procedura accelerata», il governo italiano può raddoppiare, quintuplicare, decuplicare mezzi e unità in missione.

 

Altro aspetto che prima è stato omesso: questa riforma, come altre riforme del genere, svilisce il mandato del Parlamento. Lo espone bene il documento delle Camere: «Per quanto riguarda gli aspetti finanziari, la riforma prevede l’eliminazione della previsione dell’adozione di uno o più decreti del presidente del Consiglio dei ministri. Tali atti sarebbero sostituiti con decreti del ministro dell’Economia e delle Finanze. Sarebbe anche soppresso l’obbligo di previa acquisizione del parere parlamentare sugli schemi di decreto».

 

Per ricapitolare. Più investimenti per la Difesa con l’obbligo di raggiungere il 2 per cento del Prodotto interno lordo, come richiesto dall’Alleanza Atlantica; più rapidità per le concessioni di esportazioni di armi, meno burocrazia del ministero degli Esteri, comando a Palazzo Chigi e scelte assunte col «silenzio assenso»; più flessibilità con le missioni internazionali per reagire ai mutamenti geopolitici, meno controlli parlamentari. È innegabile: l’Italia non si sottrae alla tendenza europea/occidentale, non potendo, peraltro, e agisce per farsi trovare preparata in caso di guerra. Per l’esattezza: di un coinvolgimento diretto in caso di guerra.

 

Se collassa il traffico nel Mar Rosso, collassa l’intero Occidente. Le crisi regionali provocano contagi immediati ovunque. La guerra nella Striscia può avere influenze in Africa e dunque in Europa e in Italia. Banale. Quanto ovvio. E spaventoso. L’intervento israeliano con i carrarmati a Rafah, confine meridionale della Striscia di Gaza, ha creato divergenze inusuali nei rapporti con Washington. Il pericolo è l’Egitto, che potrebbe subire ondate di profughi ingestibili. Il Cairo era dipendente dal grano ucraino, l’aggressione della Russia ha fermato le forniture, l’inflazione alimentare è scoppiata e il governo del generale Abdel Fattah al-Sisi ha chiesto soccorso al Fondo monetario internazionale con un programma di prestiti da 3 a 8 miliardi di dollari.

 

In Egitto ci sono 300 mila profughi sudanesi e altri 4 milioni sono pronti a partire dal Sudan. La destinazione finale non potrebbe che essere l’Europa. Al fianco ovest egiziano, c’è la Libia. O meglio, la Cirenaica molto amica della Russia di Vladimir Putin. E dall’altro lato, a Tripoli, arrivano le ambizioni della Turchia di Recep Tayyip Erdogan. Le esitazioni europee hanno già allontanato le due Libie (forse le tre, se includiamo il Fezzan preda delle tribù). Come quando Fayez al Sarraj supplicò il divieto di sorvolo su Tripoli durante l’avanzata del generale Khalifa Haftar e la replica di Bruxelles fu un imbarazzato no. Oppure adesso, dopo la drammatica alluvione, con Derna che verrà ricostruita dai cinesi. Al contrario l’Italia ha una preziosa occasione in Niger. La giunta militare, che ha liberato scafisti e trafficanti di esseri umani, ha siglato patti con i russi e ha cacciato i francesi e sta cacciando gli americani, ma tollera gli italiani, come ultima finestra su Europa e Occidente.

 

L’Egitto, la Libia, il Niger, il Sudan e, più giù, la Somalia con i suoi guai che affaccia sul Golfo di Aden. Non occorre impastare un breve compendio di geopolitica per capire che le missioni internazionali sono necessarie come avamposti a tutela dell’interesse nazionale. E che dunque, con una certa indulgenza, è comprensibile il tentativo di aggirare le pastoie del Parlamento. Quello che invece il governo Meloni dovrebbe spiegare alle Camere e, per il loro tramite, ai cittadini è ciò che davvero ci aspetta. Sapendo che nessuna missione internazionale italiana, se non coordinata a un’azione europea comune dentro una politica europea comune, sarà sufficiente a evitare tensioni sociali in Europa. Se non peggio. Con la scusa della guerra alle porte, non si può mettere la trasparenza, che è democrazia, in piedi davanti all’uscio.