Alla fine, la beffa è tutta qui: le stesse istituzioni che impongono una morale cristiana e che erigono “i giardini degli angeli”, poi si arrogano il diritto di toglierti quella croce se la loro morale all’improvviso cambia. Oppure se temono una multa. Così, c’è chi oggi piange una tomba che non esiste più, e chi invece non sapeva nemmeno di averne una. Sembra un racconto distopico uscito dalla penna di Margaret Atwood, e invece è cronaca. Con un vizio d’origine chiarissimo: la totale assenza di consenso.
Il caso di Roma è ormai noto: nel 2020, al cimitero Flaminio, migliaia di donne dopo un’interruzione di gravidanza scoprirono che i loro feti erano stati sepolti con tanto di croce e nome e cognome materno. Tutto senza consenso, spesso a loro insaputa. La denuncia, partita proprio dalle pagine de L’Espresso, fece esplodere uno scandalo nazionale.
A Brescia oggi accade l’inverso, ma la radice è la stessa. Se a Roma le tombe erano state imposte a tradimento, a Brescia sono state eliminate in silenzio. Stesso copione, trama ribaltata. Al cimitero Vantiniano, oltre 2.500 tombe di feti sono state rimosse in blocco. Un’area rasa al suolo, comprese lapidi commissionate e pagate da genitori che avevano consapevolmente scelto un luogo fisico per elaborare il lutto. Secondo le famiglie, l’operazione sarebbe avvenuta violando le procedure e la programmazione biennale prevista per le esumazioni.
Per lo studio legale Patricelli-Mingiardi, che tramite l’associazione Fondamenta assiste le famiglie coinvolte, non è un semplice disguido. Il sospetto è che questa esumazione di massa sia stata una manovra per far sparire le prove di un’altra violazione già accertata e per la quale il Garante della privacy ha in seguito multato con 10mila euro il Comune di Brescia, per uso illecito dei dati personali delle madri, impressi su croci e resi accessibili online. Insomma, per evitare un secondo caso Flaminio si sarebbe scelto di cancellare le tracce.

La vicenda ora è nelle aule di giustizia e il processo comincerà con rito abbreviato. Due le imputate: Elisabetta Begni e Monik Liliana Peritore, responsabili dei servizi cimiteriali del Comune, accusate a vario titolo di violazione di sepolcro, vilipendio di tombe, vilipendio di cadavere e sottrazione di cadavere. Resta fuori dal procedimento il Comune di Brescia. Undici le famiglie costituitesi parte civile, assistite da Francesco Mingiardi, lo stesso legale che a Roma aveva seguito il caso di Francesca Tolino. Dopo un aborto terapeutico trasformato in incubo, Tolino aveva trovato una croce al Flaminio con il proprio nome, dando il via all’azione legale. Oggi Mingiardi sottolinea un paradosso: «Nel caso di Roma e in quello di Brescia, le famiglie partono da premesse opposte, ma rivendicano gli stessi diritti: informazione corretta, libertà di scelta, autodeterminazione».
«Ciò che contestiamo è la modalità: radendo al suolo tutto, probabilmente per evitare ulteriori problemi con il Garante della privacy, hanno colpito anche chi quelle tombe le aveva richieste», spiegano Annamaria Bianchetti e Giovanna Padula, due delle undici donne costituite parte civile nel processo. La vicenda ha inizio nel 2021. «Sono arrivata al cimitero per la ricorrenza del 2 novembre, con due piantine da mettere sulla lapide del bimbo che avevo perso nel 2013, al quarto mese di gravidanza», ricorda Padula. «Ma al posto della tomba c’era terra spianata, e un biglietto stropicciato con scritto che erano in corso le esumazioni. Nessun dettaglio, nessun preavviso». Dopo l’intervento frettoloso di una ruspa, racconta, ha trovato resti sparsi, ossa, terra mescolata. Padula si è subito rivolta al Comune. «Alla fine mi hanno riconsegnato solo la targhetta della lapide. Non mi è rimasto altro».
Secondo le famiglie, le esumazioni non sono state condotte in modo regolare. «In molti casi non abbiamo più trovato nulla. Alcuni feti erano di gravidanze avanzate, con vestiti, coperte, giocattoli. È impossibile che si sia “sciolto tutto”, come sostengono. Solo per pochi è stato possibile identificare i resti». Le donne parlano di uno scenario da film dell’orrore. «Abbiamo trovato ossa nel terreno, un femore, costole, frammenti di omero. Li abbiamo fatti analizzare in laboratorio, al Labanof, e abbiamo avuto conferma che fossero i resti dei feti. Ma al cimitero hanno coperto tutto con la ghiaia».
Il Comune si è appellato al regolamento: dopo cinque anni si può procedere all’esumazione per fare spazio ad altre sepolture. «Del regolamento inizialmente non c’era traccia. Tra l’altro prima si parlava di 5 anni, poi di 10, un caos», ribattono le famiglie. «Di solito ci sono cartelli con gli avvisi. In questo caso nessuna comunicazione. Per privacy, dicono, ma intanto ancora oggi le targhette con i nomi sulle lapidi sono esposte e visibili a tutti».
«Io ho perso Alessandro al settimo mese di gravidanza, nel 2009 – racconta Annamaria Bianchetti – Era vestito, avvolto in una coperta di pile, improbabile che non sia rimasto nulla». Secondo le famiglie, il Comune ha giustificato la mancata affissione dei classici bollini gialli – che servono ad avvisare i parenti delle esumazioni imminenti – con costi troppo elevati. «Poi ci hanno riferito che in questi casi non vengono applicati i bollini. Ma prima venivano sempre messi. Altra giustificazione è stata la fretta di esumare a causa del Covid, anche se l’emergenza era ormai rientrata. I funzionari comunali ci hanno fatto sentire in colpa perché non ci siamo accorti per tempo delle esumazioni, poi ci hanno detto che i nostri non erano figli, ma «scarti», «prodotti abortivi». Una volta hanno persino paragonato Alessandro a una mano persa in un incidente». Nel frattempo, le nuove sepolture sono già iniziate.
«Qui c’è un tema di consenso, di rispetto verso il corpo – commenta l’avvocato Mingiardi – Quando si applica una doppia morale è sempre un’ipocrisia. Il problema è anche la mancanza di informazione; in generale quando si parla di questi temi, di aborto o di sepolture, spesso manca un’informazione trasparente».

Ma cosa prevede la legge dopo un’interruzione di gravidanza, che sia terapeutica, volontaria o spontanea? L’articolo 7 del regolamento di polizia mortuaria del 1990 distingue in base all’epoca gestazionale. Per i nati morti oltre la 28esima settimana è prevista la sepoltura obbligatoria. Tra la 20esima e la 28esima settimana la sepoltura è possibile e va richiesta l’autorizzazione all’Asl. Sotto la 20esima settimana, i «prodotti del concepimento» vengono trattati come «rifiuti ospedalieri», ma possono essere sepolti su richiesta delle famiglie. In tutti i casi, i genitori hanno 24 ore di tempo per fare richiesta di sepoltura. Peccato che molti non lo sappiano e negli ospedali accade spesso che le donne non vengano adeguatamente informate. Trascorse le 24 ore, la responsabilità ricade sulle strutture ospedaliere, che affidano le sepolture alle Asl. Ma è qui che entrano in gioco le associazioni cattoliche pro-vita, con cui ospedali e Asl hanno siglato delle convenzioni. Sono loro a prelevare i feti, organizzare funerali – sempre con rito cattolico – e far incidere il nome delle madri sulle lapidi, spesso senza il loro consenso. Ma è tutto perfettamente legale? La risposta, assurda, è sì.
In Italia esistono oltre cinquanta cimiteri dei feti. Il primo è stato istituito a Novara nel 2000, seguito da Busto Arsizio; da lì sono stati creati una serie di registri dei “bambini mai nati” e di “giardini degli angeli”: a Cagliari, Udine, Trieste, Pescara, Verona, Bari, Marsala. Secondo una mappatura della testata The Vision, in molti comuni i feti vengono sepolti anche senza autorizzazione dei genitori. L’associazione più attiva è Difendere la Vita con Maria, con oltre 200mila sepolture.
Ogni anno si contano circa 500-600 sepolture di feti. Il problema però non è l’esistenza o no dei cimiteri. Il problema è la libertà di credere o no, di seppellire o no, di scegliere se considerare un feto un figlio oppure no, se cremarlo, donarlo alla scienza. Ed è così che questioni intime e personali diventano, letteralmente, un affare di Stato. O, peggio ancora, un affare di Chiesa. Eppure, proprio i religiosi dovrebbero ricordarlo: “In principio era il verbo”, il logos, la parola che illumina e chiarisce. Qui, invece, vince il non detto. E tutto ciò che è omertoso, opaco, silenziato.