Inchieste
marzo, 2025

Così il sex work divide l'Europa

Riconosciuto come un lavoro in Belgio, criminalizzato in Croazia, puniti solo i consumatori in Svezia, in una zona grigia in Italia: quando si parla di sesso a pagamento, ogni Paese va per la sua strada

C'è chi lo definisce sex work, chi prostituzione. Chi pensa che vada sradicata, e chi punta sul suo riconoscimento. L’offerta a pagamento di servizi sessuali è da sempre fonte di dibattito, soprattutto all’interno dell’Unione europea, dove la disomogeneità dei diversi approcci nei vari Paesi si è concretizzata in una sorta di schieramenti opposti.

 

Da dicembre 2024 il Belgio è il primo Paese al mondo ad aver, non solo depenalizzato la prostituzione, ma anche riconosciuto dei contratti di lavoro veri e propri. Un cambiamento rivoluzionario che investe la legge, e il linguaggio. «Ora finalmente parliamo non di prostituzione, ma di sex work», spiega Daan Bauwens di Utsopi, l’Unione belga dei sex worker. Secondo Unaids, la definizione di sex worker include donne, uomini, transgender, adulti e maggiorenni, che ricevono soldi o beni in cambio di servizi sessuali, regolarmente o occasionalmente, e che possono o noidentificarsi nel concetto di sex worker. «Lo sappiamo che non è un lavoro come gli altri, ma è importante riconoscerlo come tale per proteggere le persone che lo fanno da determinati rischi», sottolinea Bauwens. Persone che possono rimanere incinte ma non avere un congedo di maternità, possono prendersi l’influenza ma non avere la malattia pagata, né un’assicurazione sanitaria, e possono invecchiare, e ritrovarsi senza stipendio né pensione. Sono proprio loro, attraverso le associazioni, ad avere portato avanti, e vinto, questa battaglia in Belgio. Prima con le proteste, poi con una trattativa a livello politico che ha avuto il merito di far sedere al tavolo proprio i rappresentanti di questo settore. «Qui abbiamo un forte sistema di sicurezza sociale e protezione dei lavoratori, e poi abbiamo anche una storia di battaglie sui diritti umani: abbiamo depenalizzato l’aborto e l’eutanasia, legalizzato i matrimoni omosessuali», aggiunge Bauwens, «Il contesto ci ha aiutato ad arrivare a questo risultato, ma non è stato un percorso facile».

 

Tutto è nato durante il Covid, quando ovunque ci si è resi conto che alcuni lavoratori non avevano nessun tipo di supporto economico. Anche in Italia, chi si prostituiva si è trovato a essere costretto a vivere senza uno stipendio o ad accettare di lavorare in condizioni ancora più rischiose. In Emilia-Romagna ci si era mossi con un crowdfunding, ma non solo. «Il problema lo avevamo visto anche noi, e anche noi lo abbiamo fatto presente al governo. Solo che non ci hanno ascoltato. In Belgio invece sì», racconta Pia Covere, del Comitato per i diritti delle prostitute: «Paghiamo il prezzo di essere invisibili, non si parla del lavoro sessuale se non quando vengono disturbati i cittadini: gli abitanti di un palazzo, ad esempio». Questo, nonostante i servizi di prostituzione continuino a crescere: secondo l’ultimo rapporto dell’Istat sull’economia sommersa e illegale, nel 2022 il giro d’affari è salito a 4,7 miliardi di euro (consumi finali).

 

In Italia è ancora la legge Merlin del 1958 (che bandì le case chiuse) a dare i contorni alla prostituzione: non è criminalizzata in quanto tale, ma lo è tutto quello che vi ruota attorno, e che spesso include l’immigrazione irregolare. «Questo mantiene viva l’idea che ci sia un aspetto criminale nel sex work», spiega Tina Marinari di Amnesty, «come conseguenza, queste persone continuano a doversi nascondere, e le sacche di marginalizzazione continuano ad aumentare». Negli anni, Amnesty ha portato avanti diverse campagne, sostenendo l’importanza di riconoscere la prostituzione come un lavoro, con diritti e doveri. E chiedendo anche un’omogeneità al livello europeo.

 

Ogni Paese, infatti, regolamenta il sex work in modo diverso. «Cambiano le politiche nazionali, ma soprattutto le realtà vissute dai lavoratori del sesso in tutta Europa. Questo rende più difficile affrontare questioni come il traffico di esseri umani transfrontaliero, la migrazione dei sex worker e l’applicazione dei diritti sul lavoro», sottolinea Marija Antić, sociologa esperta del tema.

 

Ci sono casi specifici come la Lituania, che è l’unico Paese europeo proibizionista al 100 per cento, o la Croazia, che è l’unico a criminalizzare i lavoratori del sesso, e non i clienti. E poi ci sono dei veri e propri modelli, come quello cosiddetto nordico, che è nato in Svezia negli anni Novanta e che criminalizza chi acquista il sesso, non chi lo vende. Secondo quanto riporta l’Agenzia governativa per l’uguaglianza di genere, dall’entrata in vigore della legge, il fenomeno in strada si è dimezzato. «Per noi la prostituzione è violenza contro le donne e, in quanto tale, ovviamente non è possibile regolamentarla, come ha fatto il Belgio», sottolinea Marie Fredriksson, senior advisor dell’Agenzia. Lei crede in questo modello. «Non mi scorderò mai le parole di una ragazza che si era prostituita, che una volta disse: “Che bello stare in Svezia, in questo Paese le donne non sono in vendita”». 

 

Per Stoccolma, infatti, la prostituzione e lo sfruttamento sessuale sono problematiche strettamente connesse al genere: inasprire le pene per chi ne usufruisce, permette di aiutare le donne che si stanno nascondendo a essere prese in carico dai servizi sociali. «Stiamo ragionando su sistemi di protezione personalizzata», dice Fredriksson. Ma non solo. Spiega come esista anche una struttura, che si chiama “Compratori di servizi sessuali”, a cui vengono indirizzati gli uomini che vogliono smettere, ma che non riescono.

 

Una disomogeneità, quella tra i Paesi europei, che evidenzia Antić, «riflette differenze ideologiche più profonde su cosa rappresenti la prostituzione: se venga vista principalmente come una forma di lavoro, un’espressione di autonomia personale, una forma di violenza o un danno sociale». In questo senso, sono due poli opposti quelli incarnati da Svezia e Belgio. Entrambi sostengono di avere dalla loro parte le organizzazioni che si occupano di tratta sessuale. Entrambi riconoscono che spesso chi svolge lavoro sessuale arriva da una base di discriminazione, da opportunità ineguali. Come nel caso di migranti irregolari o persone appartenenti alla comunità Lgbt. «Noi pensiamo che dare dei diritti ai sex worker aiuti a migliorare le loro condizioni e a non perpetuare quelle di marginalizzazione da cui possono arrivare», ribatte Bauwens. «Lo sfruttamento c’è in diversi settori, come per esempio l’agricoltura, ma in quei casi non si è mica mai pensato di criminalizzarla per risolvere il problema». Secondo l’Unione belga dei sex worker, il rischio del modello nordico è che si appigli a un “sogno ideologico del femminismo”, rendendo invece un incubo la quotidianità dei lavoratori.

 

Ci sono anche Stati, come la Germania e i Paesi Bassi, che a livello formale hanno legalizzato e regolamentato il lavoro sessuale. Nell’immaginario, il quartiere a luci rosse di Amsterdam è da sempre un modello di liberalizzazione della prostituzione. Ma nella pratica, spiega Bauwens, si ricade spesso in situazioni contraddittorie: «In questi Paesi svolgere sex work senza un permesso di soggiorno o in un luogo non regolarizzato può costituire un reato». Il fatto che la differenza di regolamentazione abbia conseguenze negative, come quella di creare un terreno fertile per la criminalità organizzata, è stata anche al centro delle due risoluzioni non legislative approvate nel 2014 e nel 2023 dal Parlamento europeo. Che però resta specchio delle diverse realtà all’interno dell’Unione. E infatti, nel 2023, l’Aula si è spaccata proprio sulla parte del testo che chiedeva di adottare il modello nordico. La risoluzione è passata solo quando quella proposta è stata cancellata.

 

Nella risoluzione del 2023 è stata anche criticata la mancanza di dati affidabili e accurati. Non si hanno infatti stime ufficiali su quanti sex worker ci siano in Europa. La regolarizzazione potrebbe aiutare in questo. Ma in Belgio ci vorrà tempo per vedere i risultati, su tutti i fronti. «Siamo ancora in un periodo di transizione», dice Bauwens. Spiega che ogni richiesta di contrattualizzazione inviata dai datori di lavoro necessita di un tempo di tre mesi per ricevere l’approvazione. «C’è stata una svolta nella filosofia, ma ci vorranno anni per vedere concretamente come funzionerà».

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