"Le geografie", disse il geografo al Piccolo Principe, "sono i libri più preziosi fra tutti i libri. Non passano mai di moda. È molto raro che una montagna cambi di posto. È molto raro che un oceano si prosciughi”. Ma può capitare che arrivi un presidente degli Usa – un Donal Trump a caso - e decida di fare il geografo e di cominciare a cambiare i toponomi che non gli piacciono più. Tipo rinominare il Golfo Persico in Golfo Arabico – che sa tanto di captatio benevolentiae rivolta agli Emirati Arabi in occasione del viaggio di stato di questi giorni - scelta che sta facendo borbottare l’Iran. O ancor prima ribattezzare il “Golfo del Messico” in “Golfo d’America”. Una decisione fortemente simbolica e politica, ufficializzata con un ordine esecutivo firmato da Donald Trump nel giorno del suo ritorno alla Casa Bianca, nel gennaio 2025.
Le mosse di Google
Dal canto suo Google – fra i principali fornitori di servizi cartografici digitali al mondo - ha deciso di adeguarsi alla nuova nomenclatura, in entrambi i casi, per gli utenti connessi dagli Stati Uniti, ma non solo. Facendo una ricerca su google earth si scopre infatti che, fra parentesi, i nuovi toponimi affiancano quelli storici. Questo potrà avere delle conseguenze? Il Messico si è già attivato, denunciando il colosso di Mountain View. E Google risponde alle critiche chiarendo che le modifiche sotto accusa rientrano nella propria politica di lungo corso, ovvero procedere all’adeguamento della toponomastica considerando gli aggiornamenti ufficiali che giungono dai vari enti governativi. E quindi per gli utenti americani sarà visibile solo il nome “Golfo d’America”, mentre in Messico continuerà ad apparire “Golfo del Messico”. Nel resto del mondo, come già accade, viene mostrata la doppia dicitura: “Golfo del Messico (Golfo d’America)”. Google considera questa prassi consolidata utile a gestire differenze tra nomenclature nazionali, ma il governo messicano la interpreta come la legittimazione di un atto simbolico di appropriazione territoriale.
Law and order
La presidente del Messico, Claudia Sheinbaum, ha annunciato un’azione legale contro Google che, a suo dire, non avrebbe considerato le richieste formali per limitare la nuova nomenclatura alla sola area statunitense, senza estenderla all’intero Golfo. Il decreto firmato da Trump, sostiene Sheinbaum, sarebbe valido all’interno della giurisdizione americana ma non ha valore per le acque territoriali del Messico o di Cuba. Cambiare il nome del Golfo del Messico dovrebbe essere frutto di una decisione condivisa fra le nazioni che sul golfo si affacciano, ha affermato la Presidentessa, accusando Google di non aver applicato le regole dell’imparzialità digitale. Altrimenti, propone Sheinbaum provocatoriamente, si potrebbe rinominare gli Stati Uniti “America Mexicana”, come nelle mappe del XVII secolo, quando il Nord America veniva indicato con quel nome. Un gesto simbolico che sottolinea l’assurdità – aveva dichiarato la Presidente - di modificare toponimi storici per convenienza politica.
L’Iran tuona
Donald Trump guarda ben lontano e ha anche già disposto che d’ora in avanti, sulle cartine geografiche di Google, si chiami “Golfo Arabico” quello che a scuola ci hanno insegnato essere il “Golfo Persico”. Dura la reazione da parte dell’Iran che considera il nome “Golfo Persico” parte della propria identità storica. Il ministro degli Esteri iraniano, Abbas Araghchi, parla di “provocazione politica” e definisce l’azione americana come “un insulto alla memoria collettiva dell’umanità”. La nuova nomenclatura voluta da Trump – stando alle fonti diplomatiche – potrebbe risponde alla volontà americana di tessere relazioni più stabili con i Paesi arabi del Golfo, in barba però al contesto, già segnato da forti tensioni geopolitiche.
La mappa del tesoro
Le carte geografiche diventano quindi strumenti di potere politico. Dietro una semplice ‘label’ posta su una mappa digitale si nasconde una battaglia d’influenza, che ha ricadute sulla memoria storica e la sovranità. Donald Trump aveva già provato ad affermare la visione americana del mondo in un rigurgito colonialista 4.0: nel suo primo mandato aveva voluto rinominare la montagna Denali, in Alaska, con un nostalgico “Monte McKinley”. Anche in quell’occasione le critiche non erano mancate.
La bussola verso il futuro
Chi ha il potere di decidere come si chiamano i luoghi del mondo? È questa la domanda al centro della contesa. In un’epoca in cui i confini sono sempre più digitali, anche i nomi diventano armi diplomatiche. Il caso del Golfo d’America dimostra che non basta una mappa per orientarsi nel mondo: bisogna anche capire chi l’ha disegnata — e perché.