Il motore di ricerca utilizza sempre di più l’intelligenza artificiale per rispondere agli utenti. Riducendo così accessi e incassi dei siti. Un problema per il pluralismo della Rete

Google e Intelligenza artificiale: l’alleanza soffoca il web

Fra non molto, potrebbero restare in pochi a navigare sul web. Gli editori digitali? Spazzati via, per gran parte. E, con loro, le ultime vestigia del pluralismo dell’informazione, baluardo delle democrazie. Fino a pochi mesi fa sarebbe stato uno scenario impossibile. Adesso diventa sempre più concreto. Da una parte, stiamo prendendo l’abitudine di informarci tramite i chatbot con intelligenza artificiale, come ChatGpt. Dall’altra, Google mira a controllare fette crescenti della nostra vita online ed è sempre meno propenso a portare traffico ai siti web. Strategia che funziona, a giudicare dagli ultimi dati: Alphabet (la casa madre di Google) ha chiuso il primo trimestre 2025 con utili oltre le attese, in crescita del 46 per cento anno su anno, anche grazie alla buona resa della pubblicità sul motore di ricerca.

 

Ricerca di cosa? Un tempo era “ricerca nel web”, adesso tende a essere un oracolo e il sito cerca di offrire direttamente le risposte. Tanto che l’80 per cento degli utenti nel 40 per cento dei casi non clicca sui link che appaiono nella ricerca Google, secondo uno studio della società di consulenza Bain di dicembre 2024. Una tendenza che procede da anni ma che si è acuita da quando il motore di Google ha incorporato l’intelligenza artificiale (servizio “AI Overview”). Da fine marzo, anche in Italia e altri Paesi europei.

 

I manager americani di Google se la sono sempre cavata assicurando che anche AI Overview, come la search tradizionale, porterà traffico ai siti. Il servizio, del resto, mette (in piccolo) la fonte web delle proprie risposte: gli utenti possono cliccarci. Promesse da marinaio che sono crollate qualche giorno fa, con l’arrivo dei primi studi sugli effetti globali di AI Overview: tracollo del 20-30 per cento per i clic da Google verso i siti (riportano gli osservatori Ahrefs e Amsive). Meno clic significa meno ricavi pubblicitari (e rischio chiusura per chi ci vive); ma crescita per quelli di Google, che la pubblicità certo la mette in AI Overview, come in altre parti del suo ormai onnivoro portale.

 

Qualcuno a questo punto potrà dire: spiace per il web, ma è la concorrenza, bellezza. Google può fare quello che vuole a casa propria. Ma è proprio su concorrenza e libero mercato che casca l’asino. Ossia casca – è cascato – Google: a metà aprile un giudice americano ha dato ragione all’antitrust Usa che lo accusa di monopolio illecito sul mercato della pubblicità digitale (e poche settimane prima, un altro giudice ha affermato lo stesso per il mercato della search). A settembre parte il processo per trovare rimedi a questo monopolio. Si valuterà la richiesta del governo degli Stati Uniti di scorporare dal colosso alcune aree di azienda che si occupano di pubblicità.

 

«Il giudice ha riscontrato che Google controlla tutti i tasselli del mercato pubblicitario digitale; è intermediario dominante nei confronti sia di chi compra sia di chi vende la pubblicità. E controlla anche il punto di incontro tra i due», spiega Marianna Tramontano, esperta di marketing digitale. Insomma, rappresenta i due giocatori ed è persino arbitro e campo da gioco. E così – ha accertato il giudice – può distorcere i meccanismi pubblicitari a proprio vantaggio: più profitti per sé, meno per gli editori web. Qui inclusi non solo siti di notizie, ma chiunque faccia informazione in senso lato o contenuti digitali, come ad esempio recensioni indipendenti di aspirapolveri o di automobili.

 

Su questa distorsione di fondo arriva ora l’intelligenza artificiale, come sale su una ferita. All’Ia di Google per altro si sommano anche quelle di ChatGpt, Perplexity e altri servizi, sempre più capaci di setacciare il web per rispondere agli utenti. Il controsenso è che l’Ia toglie traffico ai siti ma, per rispondere, ne sfrutta i contenuti. Li “legge” e rielabora.

 

Dovremo aspettare l’esito delle cause legali avviate da editori (come da musicisti, scrittori di libri e altri creatori di contenuti) contro le aziende dell’Ia per capire se siamo di fronte al più grande furto di proprietà intellettuale nella storia. E, forse, solo i grandi editori avranno la forza di fare causa o trattare con le aziende per accordi di licenza sui contenuti. Come quelli già ottenuti da giganti come il Wall Street Journal e Reuters.

 

«Non si tratta più solo di copyright o di concorrenza. È una questione democratica», dice Alessandro Massolo, consulente a Bruxelles su questi temi in Forward Global (già collaboratore per la Commissione Ue e l’Antitrust italiano). «Se l’informazione passa attraverso un’unica piattaforma (Google con l’Ia), il rischio è quello di una monocultura algoritmica dove le opinioni si omologano e il pensiero critico si indebolisce», aggiunge. Concorda Antonio Nicita (senatore Pd e professore di politica economica alla Lumsa di Palermo): «Così va a morire l’abitudine degli utenti all’accesso diretto agli editori e al controllo del fonti». 

 

Nicita, Massolo e altri esperti (come Umberto Gambini, partner di Forward Global e Francesco Ricchi della Luiss Guido Carli) concordano sulle soluzioni: serve un approccio sistemico dove norme antitrust e copyright agiscano assieme, a tutela dei più deboli. «Per fortuna l’Europa ha gli strumenti giusti, le norme del Digital markets act (Dma), per imporre obblighi alle big tech», nota Massolo. Si vedrà: una causa dell’Ue come quella appena persa da Google negli Usa è ferma dal 2021. Il Dma è entrato in vigore a maggio 2023. Nel frattempo, la morte del web si avvicina. E se sarà così, delle big tech si dovrà davvero dire (parafrasando Tacito): «Hanno fatto il deserto e l’hanno chiamato innovazione».

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