Innovazione
23 luglio, 2025Quando acquistiamo uno smartphone, un hard disk, una chiavetta Usb, un tablet o perfino un decoder con registratore, nel prezzo finale è incluso un contributo forfettario obbligatorio per la tutela degli autori di eventuali contenuti artistici duplicati per uso personale
La misura fu introdotta in Italia negli anni ’90, per ottemperare alla direttiva europea che riconosceva il diritto degli utenti a realizzare copie private di opere acquistate legalmente, e introduceva il “risarcimento equo” per autori, editori e produttori. Una sorta di meccanismo di bilanciamento: i consumatori hanno libertà d’uso e i titolari dei diritti vengono risarciti “a forfait” per eventuali duplicazioni. A ricaduta, negli anni, la “copia privata” è stata estesa anche agli strumenti digitali di uso comune come decoder, smartphone e chiavette Usb. Questa norma, già al centro di polemiche e ricorsi giuridici, potrebbe essere estesa anche al Cloud, lo spazio immateriale dove milioni di italiani archiviano foto, video, musica e documenti.
Le (amare) novità
La proposta di estensione giunge dal Ministero della Cultura: è stata avviata una consultazione pubblica su un nuovo decreto ministeriale in cui compaiono, per la prima volta, anche i servizi di archiviazione cloud tra i supporti soggetti a compenso. Durissime le reazioni dell’industria tecnologica e delle associazioni di categoria, che parlano di “balzello digitale” unico in Europa.
La bozza di decreto prevede che la “copia privata” si applichi anche ai dispositivi ricondizionati e alla nuova fascia di smartphone con capacità di memoria tra i 265 GB e i 2 TB, con aumenti stimati tra gli 8,64 e i 9,69 euro per dispositivo. La norma toccherebbe anche i provider di servizi cloud - come Google Drive, Dropbox, OneDrive e iCloud – a cui potrebbe venir chiesto il versamento di un contributo mensile massimo di 2,40 euro per utente, calcolato in base allo spazio di archiviazione offerto e al numero di account attivi. E su chi potrebbe indirettamente ricadere questo ulteriore costo, se non sugli utenti finali?
Una spinta all’illegalità?
L’Associazione nazionale supporti e sistemi multimediali – Asmi – leva gli scudi contro questa proposta, parlando di “tassa indiscriminata” frutto di un approccio alla tecnologia “tecnicamente superato e giuridicamente contestabile”. L’Associazione sottolinea che il compenso per “copia privata” già incide in modo sproporzionato sul prezzo dei supporti digitali e che ulteriori rincari potrebbero spingere i consumatori verso acquisti all’estero o addirittura sul mercato illegale, con danni anche per gli stessi autori che la misura vorrebbe tutelare.
Anacronismo normativo
Secondo l’Asmi la copia privata “non rispecchia più le reali modalità di consumo dei contenuti digitali” e l’eventuale tassazione del cloud rischia di diventare anche un freno all’innovazione. Emerge poi una questione di legittimità giuridica. Diversi decreti sulla copia privata sono stati annullati o sospesi dal Consiglio di Stato e dalla Corte di Giustizia Europea negli ultimi anni, ma il Ministero italiano ha deciso comunque di procedere su questa strada. Una scelta che potrebbe portare a nuove impugnazioni legali.
Sì, ma quanto costa?
È una voce nascosta nel prezzo finale dei beni. Il compenso per “copia privata” viene aggiornato ogni tre anni con un decreto del Ministero della Cultura ed è raccolto e gestito in Italia dalla Siae, la società che tutela i diritti degli autori. Sono cifre che possono incidere in modo significativo sul prezzo dei dispositivi: su uno smartphone da 512 GB, ad esempio, il contributo può superare i 6 euro. Su un hard disk esterno di grandi dimensioni, anche 10 euro. Secondo le stime più recenti, gli introiti annui superano i 150 milioni di euro, di cui una parte viene trattenuta dalla Siae per la gestione del sistema.
La tassa sulle nuvole
La bozza del nuovo decreto del Ministero della Cultura è in consultazione fino al 1° settembre.
Il testo aggiorna (al rialzo) le tariffe della copia privata e include, per la prima volta, anche la “memoria in cloud” tra i supporti soggetti a compenso. In parole semplici: le aziende che offrono servizi cloud dovrebbero pagare una tassa per ogni utente italiano che utilizza il loro spazio, anche se gratuito. E già si profila lo scenario dell’aumento dei costi degli abbonamenti o la riduzione degli spazi gratuiti. Le piattaforme dovranno rendicontare periodicamente l’uso degli account e gestire una burocrazia complessa legata alla dichiarazione del numero di utenti attivi e della memoria effettivamente utilizzata.
Copioni
Un’indagine commissionata da Anitec-Assinform - associazione di Confindustria che rappresenta l’industria digitale - mette in chiaro un paradosso: quasi la metà degli italiani (48%) non ha mai fatto uso della copia privata, mentre oltre il 68% utilizza il cloud come principale strumento di archiviazione. Come a dire che milioni di persone potrebbero ritrovarsi a pagare un compenso per contenuti che non hanno mai copiato né salvato, alimentando una percezione di ingiustizia e opacità nel sistema. Le nuove modalità di consumo – radicalmente evolutesi rispetto agli anni ’90 - richiederebbero un ripensamento completo della normativa, che distingua tra uso personale e reale fruizione di contenuti protetti, a differenza dell’attuale modello che prevede un contributo “alla fonte”, applicato indiscriminatamente su ogni dispositivo o spazio idoneo a contenere dati, anche se non utilizzato a fini di copia.
Digitale individuale
Dietro la questione della “copia privata” c’è un tema che va oltre il diritto d’autore: riguarda il rapporto tra innovazione digitale, libertà individuale e modelli di compensazione culturale. Se da un lato è giusto tutelare gli autori, dall’altro è legittimo chiedersi se una tassa fissa su ogni supporto digitale - fisico o virtuale - sia lo strumento più equo e sostenibile in un mondo dove lo streaming ha sostituito la masterizzazione, e dove la maggior parte dei dati salvati sono contenuti personali e non file protetti da copyright. La scelta del Ministero della Cultura di inserire anche il cloud tra i mezzi da tassare apre un precedente significativo che merita attenzione e richiederebbe un momento di confronto e trasparenza. Perché non si tratta solo di una questione tecnica o fiscale, ma di una sfida culturale che riguarda il futuro del digitale in Italia.
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