Rischiano tutti. Ministri, vice-ministri, sottosegretari. E poi i vertici delle aziende pubbliche, i dirigenti della Rai, le alte burocrazie, gli uffici di diretta collaborazione del presidente del Consiglio, cioè lo staff del premier. Lo ha fatto capire Matteo Renzi una settimana fa nel Consiglio dei ministri, interrompendo la serie dei provvedimenti da approvare. «Ora parliamo del referendum», ha detto guardando i suoi ministri in faccia uno a uno. «I sondaggi danno in svantaggio il “sì”, per ora. Siamo indietro nelle regioni del Sud e tra i giovani. Gli indecisi sono nell’elettorato berlusconiano. Suggerisco a ciascuno di voi di fare una campagna elettorale mirata a raccogliere i voti del centro-destra».
Più che un consiglio, un ordine. Che tutti stanno rispettando: perché se vinceranno i “no” al referendum del 4 dicembre il governo si dimetterà in blocco, ma i ministri sanno bene che se trionferanno i “sì”, Matteo diventerà «unchained», senza catene, e saranno in pochi a restare al loro posto. Nell’agenda del premier c’è la fase due del suo governo. Un rimpasto, anzi, un rimpastone. Il rimpasto universale. Il 4 dicembre comunque vada sarà il Dies Irae di Renzi. Con le modalità “sanguinose” che molti fedelissimi ed (ex) amici hanno imparato a conoscere in questi primi due anni e mezzo di potere.
Renzi, infatti, non è solo «il leader» o «il Capo» , come lo chiamano affettuosamente in tanti. Per i suoi uomini è qualcosa di più. «Il politico più straordinario che l’Italia abbia mai avuto». «Un visionario», afferma un dirigente Rai che ammette che Matteo riesce a smuovergli dentro emozioni «pari a quelle di un profeta».
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Citando Max Weber, il primo a declinare il concetto di “autorità carismatica” in politica, la sociologa americana Diana Kendall nel 2000 definiva un certo tipo di comando come «legittimato dalle eccezionali qualità di un capo, o dalla dimostrazione di straordinario acume e successo, che ispirano lealtà ed obbedienza tra i seguaci». Ecco, non è un caso: nel cerchio magico di Renzi non entrano affatto i più bravi o i più capaci in circolazione, ma solo coloro di cui il leader si fida ciecamente.
Il premier è volubile. Un uomo capace di grandi innamoramenti . Ma anche di tradimenti e abbandoni improvvisi. Nel suo inner circle si può essere accolti in un amen, ma anche uscire alla velocità della luce: se decine di adepti della prima ora, leopoldini osannati, lobbisti vezzeggiati per la loro vicinanza al sovrano hanno perso il privilegio di entrare nella sala del trono, altri temono di essere messi alla porta nei prossimi mesi.
I RIPUDIATI
Ecco perché il Dies Irae renziano è atteso con ansia dalle sue truppe. A Firenze, di rimpasto in rimpasto, Renzi fece ruotare l’intera giunta. A Palazzo Chigi, per ora, le caselle sono rimaste al loro posto, a parte Federica Mogherini, (spedita in Europa dal ministero degli Esteri nel 2014, dopo sei mesi di governo, ora in disgrazia) e i centristi Maurizio Lupi e Federica Guidi, sloggiati senza tanti rimpianti dopo essere stati sfiorati da uno scandalo familiare.
Nelle prossime settimane saranno tutti pericolanti. A parte Paolo Gentiloni (forse), il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, ambasciatore con Bruxelles e con le istituzioni sovra-nazionali, e Angelino Alfano, protetto solo perché segretario di un partitino indispensabile per la maggioranza. Il giudizio negativo è destinato ad abbattersi su Stefania Giannini, ministro dell’Istruzione, e su Marianna Madia, ministro per la Pubblica amministrazione: sono accusate di non aver saputo gestire le riforme del loro settore. I ministri dell’Agricoltura e della Giustizia Maurizio Martina e Andrea Orlando sono ex ds alleati con Renzi e dunque preziosi, ma potrebbero tornare utili per una vice-segreteria del Pd, al posto di Lorenzo Guerini e Debora Serracchiani.
Di Dario Franceschini non sfugge invece l’ambizione a guidare un governo di scopo, in caso di vittoria dei no. Ipotesi che Renzi vede come fumo negli occhi. Uguale fatwa incombe su Carlo Calenda: troppo simile a Renzi, nel carattere spavaldo, per non finire nella lista nera. La ministra della Salute Beatrice Lorenzin è scivolata sulla comunicazione, per il premier il peccato capitale, da cui è impossibile emendarsi. «Tecnicamente inguardabile», è stata giudicata da Renzi la campagna sulla fertilità. Game over.
Spesso i nemici paragonano il premier a mister Bean. Hanno ragione. Ma non tanto per la somiglianza fisica, ma perché il premier, come il personaggio di Rowan Atkinson, è un finto-buono che nasconde un’anima individualista, che può diventare vendicativa, spietata. «Matteo cattivo? Fondamentalmente è un anaffettivo», commenta chi lo vede muoversi nei palazzi. «Basta pochissimo a cadere: una mossa sbagliata, un commento fuori posto, un gossip maligno e finisci nel cono d’ombra. Per sempre». I ministri tremano perché sanno benissimo che nella breve storia del renzismo la schiera dei sedotti e abbandonati è lunghissima. Nel girone sono finiti vecchi amici, parlamentari, manager che hanno dato tutto e che ora spediscono compulsivamente messaggini su whatsapp sperando di ottenere una risposta dal leader, invano. Matteo Richetti, deputato di Modena, era un o dei primi fedelissimi , ora si aggira solitario.
Qualcuno - addirittura - vede in lui un potenziale candidato segretario del Pd alternativo al premier, in nome della purezza delle origini. Anche il suo rivale in Emilia, il presidente Stefano Bonaccini, ex bersaniano, non è più ascoltato come un tempo. Ma tra i ripudiati sono finiti il tesoriere del Pd Francesco Bonifazi , tollerato solo perché amico della Boschi, e il consigliere di Finmeccanica e leopoldino doc Fabrizio Landi. In panchina c’è anche Filippo Bonaccorsi (per lui si ipotizzavano incarichi di governo, è rimasto all’unità di missione per l’edilizia scolastica) e Roberto Reggi, coordinatore della campagna delle primarie 2012. Promosso sottosegretario all’Istruzione, dopo alcune divergenze è stato paracadutato all’Agenzia del demanio. Un esilio dorato, con stipendio a 240 mila euro l’anno.
In Rai l’ingratitudine ha travolto invece Luigi De Siervo, amico di vecchia data, inventore della Leopolda e “scopritore” della Boschi: fino a pochi mesi fa era in corsa per diventare vicedirettore della Rai, dove lavorava da 16 anni, poi si è scontrato con Antonio Campo Dall’Orto. Renzi non l’ha protetto e De Siervo ha lasciato l’azienda, passando a Infront Italia e chiudendo - per ora - ogni rapporto con il premier, che continua a tenerlo a distanza, anche su consiglio di Lotti e Boschi.
Sarà una magra consolazione, ma anche il suo rivale in viale Mazzini rischia di fare a breve la stessa fine. Di Campo Dall’Orto a Palazzo Chigi non vogliono più sentire parlare, nonostante sia stato Renzi a volerlo a viale Mazzini con i super-poteri garantiti dalla nuova legge. Su di lui pesano le scivolate editoriali (Raisport e Raitre di Daria Bignardi in primis), i rilievi dell’Anac di Raffaele Cantone sulle assunzioni esterne e la scelta di comunicare nel momento sbagliato i mega-stipendi dei dirigenti.
Ora lo aspettano mesi ancora più caldi: la Rai dovrà garantire imparzialità nella campagna referendaria, ma ogni trasmissione sarà valutata sulle dosi di renzismo imposte al pubblico. In caso di vittoria del no è certo che CdO finirà sul banco degli imputati della sconfitta.
Stessa sorte che è già toccata ai vertici di Poste, la presidente Maria Luisa Todini e l’ad Francesco Caio. Nonostante gli ottimi risultati della privatizzazione, Caio è malvisto perché troppo autonomo da Palazzo Chigi e troppo eccentrico per un’azienda burocratica e in mano ai sindacati. Paga la sua autonomia dal premier un altro nome da vetrina, il presidente dell’Inps Tito Boeri. A Palazzo Chigi inserito da un pezzo nella lista nera dei congiurati, quelli che puntano a sostituire il “Capo”. «O Boeri ha la fiducia di Renzi e allora va sostenuto senza indugi nella sua azione», ha scritto Ferruccio De Bortoli sul “Corriere della Sera”. «Oppure l’ha perduta e va sostituito. Magari spiegando perché».
GLI INTERMITTENTI
l gruppo di quelli che u n giorno entrano a corte con tutti gli onori e il giorno successivo trovano la porta chiusa a doppia mandata. Coloro che possono vantare con il Capo una relazione solida ma che va però a singhiozzi, per ragioni misteriose che spesso neanche loro sanno spiegarsi. Giuliano Da Empoli, a Firenze consigliere prediletto e ghostwriter di fiducia, nel 2013 è stato messo in disparte, nel 2014 è stato richiamato a Palazzo Chigi, poi di nuovo un passo indietro, in autoesilio a Parigi dove vive felicemente con la famiglia, ora di nuovo in auge con il think-tank ad uso e consumo del leader (“Volta”) e in delegazione con il premier nei viaggi istituzionali, come quello ad Atene.
Tra gli intermittenti c’è Ernesto Carbone, il deputato Pd che due anni fa accompagnò Renzi a bordo di una Smart a sfrattare da Palazzo Chigi il suo ex capocorrente Enrico Letta, ma da poco uscito dal cda della fondazione Open (la cassaforte del Giglio magico). Dario Nardella, l’ex braccio destro diventato sindaco di Firenze dopo Renzi, ha osato scegliere alcuni collaboratori senza consultare l’amico. Non l’avesse mai fatto: il premier non gli ha risposto al telefono per settimane. «In realtà a Matteo dà fastidio che Nardella sieda sulla sedia che un tempo fu sua. È irrazionale, ma è fatto così», spiegano a Palazzo Chigi.
Anche Lapo Pistelli ha un rapporto complesso con il principe di Rignano: lo ha voluto come suo assistente quando Matteo era un ragazzino, poi è stato il primo dei rottamati nel 2009, quando Renzi lo sconfisse alle primarie per il comune di Firenze, ha riallacciato i rapporti da viceministro degli Esteri, ma nel 2015 ha preferito allontanarsi dal governo. Ne è uscito bene: alla faccia del conflitto di interessi è diventato vicepresidente dell’Eni, con stipendio sopra i 250 mila euro più bonus.
Il più influente degli intermittenti, però, resta il ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio. Così devoto a Matteo, negli anni della conquista del potere, da aver segnato sul cellulare il numero di Renzi con il nome “Mosè”. I rapporti si sono guastati quasi subito, durante la convivenza a Palazzo Chigi (Delrio era sottosegretario alla presidenza). Ora si è ristabilita la collaborazione, a distanza. Renzi teme il carisma di Delrio, i suoi buoni rapporti con il Quirinale, le gerarchie vaticane e un pezzo di Pd, ma ne riconosce il valore. «Sei un figlio di p.», gli ha detto durante una missione, all’americana, «ma sei il mio figlio di p.».
I GRANDI AMORI
i sono poi le passioni che non sfumano mai. «Schierarmi con Renzi il giorno prima che perdesse le primarie è stato un gesto a cui rimarrò affezionato anche se si mettesse a fare fesserie paurose», ha scritto Alessandro Baricco nel suo ultimo libro. Un amore che resiste, fatto di sms e battute, cene e pacche sulle spalle, come il legame con Oscar Farinetti e il regista Fausto Brizzi. Tra i consiglieri economici, se il primo prescelto Andrea Guerra è scomparso dai radar scappando dalla sala dei bottoni, in crescita c’è il sottosegretario Tommaso Nannicini, potenziale ministro in un futuro governo.
Tra i manager pubblici , l’unico del mazzo a non aver deluso le attese è Francesco Starace, numero uno dell’Enel, in auge anche grazie alla mediazione del fiorentino Alberto Bianchi, che siede nel cda della spa. Matteo gli ha affidato la realizzazione della banda ultralarga (facendo fuori Telecom dall’affare) e lo ha difeso (in privato) quando l’ad si è lanciato in un discutibile speech sui metodi necessari a «cambiare un’organizzazione: bisogna creare malessere all’interno dei gangli che si vuole distruggere», spiegò, «e colpire le persone che si oppongono al cambiamento, ispirare paura, facendo tutto in fretta e senza nessuna requie».
Molti scommettono che sarà proprio Starace, la prossima primavera, a prendere il posto di Claudio Descalzi all’Eni (il numero uno del cane a sei zampe è infatti in discesa nelle gerarchie renziane, a causa - ma non solo - dell’inchiesta della procura di Milano sulle presunte tangenti in Nigeria, in cui è indagato per corruzione internazionale), ma in realtà il prescelto sembra essere Matteo Del Fante, ex direttore generale della Cassa depositi e Prestiti messo a fare l’amministratore delegato di Terna, fiorentino e amico di Renzi, di Carrai e del finanziere iper-renziano Davide Serra in grande ascesa nel cuore del sovrano. Più amato ancora di Mauro Moretti, ex ad di Trenitalia piazzato a Finmeccanica, che qualche mese fa ha rischiato di diventare ministro dello Sviluppo economico, e che dovrebbe essere confermato a fine scadenza.
GLI INAMOVIBILI
Infine, ci sono i dignitari più vicini al Capo, i cui equilibri sono rimasti immutati negli anni. Renzi si affida totalmente a quelli che considera due “fratelli” acquisiti: Marco Carrai e Luca Lotti, il primo amico d’infanzia e libero imprenditore prodigo di relazioni e consigli, il secondo sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Seguono la Boschi e l’avvocato fiorentino Bianchi, mente del Giglio magico. Alla banda dei quattro vanno affiancati il portavoce Filippo Sensi, sempre più inseparabile e decisivo non solo per la comunicazione , sorta di mediatore con il mondo esterno, e l’ex comandante dei vigili urbani di Firenze Antonella Manzione, promossa a numero uno del dipartimento Affari giuridici di Palazzo Chigi.
Qualche giorno fa Renzi ha inserito il suo nome tra i nuovi consiglieri di Stato di nomina governativa, insieme al segretario generale della presidenza del Consiglio Paolo Aquilanti. Qualcuno sostiene che la promozione sia un preludio alla sostituzione, ma è in realtà un premio ad personam: nel caso vincano i sì la Manzione resterà dov’è prendendosi l’aspettativa (o il distacco) a Palazzo Spada, nel caso vinca il no avrà un salvacondotto con i fiocchi.
E nel cerchio più vicino a “colui che tutto move” punta a entrare il santo laico della Repubblica renziana, il magistrato Raffaele Cantone, presidente dell’autorità anti-corruzione. Nelle ultime settimane è intervenuto su tutto: il Campidoglio, la Rai, il centro richiedenti asilo di Foggia, la ricostruzione post-terremoto, la legalizzazione della cannabis, le cattedre universitarie spartite tra parenti e amici. E dicono che con il rimpasto universale sarà portato nel cielo delle poltrone di governo con un ministero-chiave: l’Interno al posto di Alfano, in trasloco verso gli Esteri. Sempre che Renzi si fidi ancora di lui. Condizione nient’affatto scontata.