Cinque anni fa, di questi tempi, con altri cronisti curiosi, andai a seguire Beppe Grillo in campagna elettorale, in tour per le piazze meridionali, quando i sondaggi davano il Movimento 5 Stelle ancora in basso alla classifica e il dibattito politico nazionale ruotava sulla possibilità che dopo il voto fosse riconfermato il governo in carica, guidato da Mario Monti. Non era ancora cominciato lo Tsunami, ma già Grillo riempiva le piazze, anche quelle dove nessun leader si avvicinava da anni, per esempio quella sfinita di Taranto dell’Ilva. «Ho faticato a riscaldare il pubblico ieri sera», ammise la mattina dopo in albergo. Una sera a Napoli presentò tutti i candidati presenti sul palco con possibilità di vittoria. I loro nomi restavano appuntati a stento, ancora più a fatica nella memoria, ma ricordo che un giovanissimo candidato quella sera aveva una giacca a vento bianca e qualche militante già lo indicava come un futuro leader: «Quello è Luigi Di Maio, sarà sicuramente eletto deputato. E poi, vedrete, è uno che sa fare politica».
Cinque anni fa un quarto dell’elettorato italiano votò per Grillo e non per il Movimento 5 Stelle. Scelse il comico per sfasciare il sistema, nonostante l’inconsistenza programmatica, i candidati sconosciuti, le follie regolamentari, le bizze del comico diventato leader, tutti a consultare compulsivamente quel blog che era diventato il cuore della vicenda italiana. In quel momento il resto della politica europea era stabile, quasi noiosa: la Germania di Angela Merkel, la Francia di François Hollande, l’Inghilterra di David Cameron, la Spagna di Mariano Rajoy. Quelle nazioni sono uscite dal quinquennio politicamente terremotate.
Mentre l’Italia che torna al voto si presenta come insolitamente stabile, nonostante i sondaggi continuino a segnalare che dopo il 4 marzo una maggioranza uscita dalle urne non ci sarà, bisognerà trovarla dopo, in Parlamento. Qualcuno, per esempio il professor Sergio Fabbrini dalle colonne del “Sole 24 Ore” (21 gennaio), vede nel voto italiano il rischio di una crisi sistemica, la messa in discussione delle scelte fondamentali dell’Italia da parte di «forze politiche sovraniste che mirano a superare l’orizzonte della democrazia rappresentativa e a distaccare l’Italia dall’interdipendenza con l’Europa integrata».
La minaccia c’è, non c’è dubbio, soprattutto se si vedono i toni della Lega di Matteo Salvini e di alcuni suoi candidati no-euro. Ma c’è da chiedersi se per evitarla sia più utile erigere una nuova diga anti-sovranista, come fu il 18 aprile 1948 quella anti-comunista, e come si è fatto in Europa con esiti incerti e a volte opposti alle intenzioni (in Inghilterra hanno vinto i pro-Brexit, in Spagna l’ottusità di Rajoy ha ingigantito il nazionalismo catalano che era minoritario, in Germania la nuova grande coalizione è molto più piccola e debole che in passato, in Francia Macron governa grazie al sistema istituzionale ma in un vuoto politico che dovrebbe allarmare). Oppure seguire una strada più coerente con la nostra storia nazionale: inglobare, includere, assorbire, costituzionalizzare le forze anti-sistema, un fenomeno che nella politica italiana è ricorrente, forse ne è il tratto caratteristico.
Toccò a Giovanni Giolitti all’inizio del Novecento provare a coinvolgere i socialisti offrendo a Filippo Turati un incarico da ministro e poi firmando con i cattolici il patto Gentiloni (un avo dell’attuale premier) che significava il recupero delle masse popolari escluse dallo Stato liberale dopo la presa di Porta Pia e il non expedit del Vaticano, il divieto per i credenti di votare o di farsi eleggere. L’operazione fallì nel 1922, quando una parte di establishment, la Corona, le grandi forze imprenditoriali del Nord, puntarono a inglobare Mussolini e invece finirono divorate dal fascismo, fino alla dissoluzione finale dello Stato. Ma poi si riprese: nel secondo dopoguerra toccò a De Gasperi tenere il Partito comunista in una cornice di legalità anche nei momenti più duri (il Pci stretto a Stalin, non a Casaleggio, aveva votato la Costituzione e il suo leader Togliatti da ministro della Giustizia aveva firmato l’amnistia per i fascisti) e poi a Moro, recuperare i socialisti nell’area di governo.
Molti anni dopo, nel 1994, all’inizio della cosiddetta Seconda Repubblica, Berlusconi ha provato a inglobare la rivoluzione dei giudici di Mani Pulite, offrendo subito dopo la sua vittoria elettorale il ministero dell’Interno al magistrato Antonio Di Pietro, che aveva ancora addosso la toga da pm e appena poche settimane prima aveva interrogato nell’aula del tribunale Bettino Craxi, amico del Cavaliere. Il centrodestra berlusconiano prima maniera ha costituzionalizzato la Lega di Umberto Bossi, trasformando i suoi vertici aspiranti secessionisti in notabili romanizzati, e i post-fascisti che hanno seguito un’analoga evoluzione governativa, moderata. Berlusconi, a sua volta, è stato costituzionalizzato nei suoi spiriti animali dall’interno del partito-azienda, dai Gianni Letta e dai Felice Confalonieri, decisivi nel 2011 per convincere il loro capo a lasciare Palazzo Chigi, ad accettare i servizi sociali dopo la condanna del 2013, a smettere i panni del Caimano e a indossare quelli attuali del Grande Pacificatore. Il Principe di Arcore è stato addomesticato, per citare il titolo di un libro di Fabbrini.
In Italia vince chi costituzionalizza l’avversario, chi riesce a prendere per mano la forza anti-sistema. Oggi la domanda potrebbe essere: chi riuscirà a concludere il percorso cominciato cinque anni fa e a costituzionalizzare il Movimento 5 Stelle? Grillo ha finalmente separato la sua strada da M5S, come hanno anticipato qui sull’Espresso Giovanni Tizian e Susanna Turco, i post o ex grillini che governano il Movimento da oggi sono più liberi di integrarsi: entrare nel gioco politico, allearsi, proporre patti di governo agli altri partiti che, inevitabilmente, si tradurranno in uno scambio delle odiate poltrone. Ma più che il destino dei capi partitici post-grillini interessa il coinvolgimento di un pezzo di società per ora completamente escluso dall’agenda elettorale.
Periferie geografiche, i grandi quartieri urbani, i piccoli centri di province lontane. Periferie anagrafiche, i giovani e i giovanissimi, grandi assenti nei programmi elettorali di tutti i partiti che puntano a elettori anziani, over 60, più forti e numerosi nelle urne e nell’audience televisiva, come Berlusconi sa benissimo, e anche tra i lettori dei giornali. Periferie sociali, l’Italia dei cinquantenni senza lavoro, dei pendolari senza trasporto, degli individui casuali senza comunità. Sono le periferie che fotografa Fabrizio Gatti, nella prima puntata di un viaggio nei territori dell’Italia dimenticata.
È la sfida che Matteo Renzi ha perso in questi cinque anni, come racconta Emiliano Fittipaldi, la sfida di tenere insieme innovazione e coesione, e di non essere percepito soltanto come occupazione (del potere). Risalire in campagna elettorale sarà difficile per lui e per il giglio magico, costretto a lasciare visibilità e protagonismo a Gentiloni e alla sua squadra di governo, come consigliano i sondaggi pubblicati dai media e i focus riservati in possesso dei vertici del Pd. È in quei luoghi invisibili ai riflettori e ai tavoli di spartizione dei collegi di questi giorni che sono in incubazione i fenomeni di cui si parlerà il giorno dopo il voto, con il senno di poi. Vorremmo parlarne prima, per non essere addomesticati anche noi dal racconto standardizzato della campagna elettorale, per non galleggiare nel vuoto.
Politica
1 febbraio, 2018In Italia conquista il potere chi istituzionalizza l’avversario. Oggi la domanda potrebbe essere: chi riuscirà a concludere il percorso cominciato cinque anni fa e a costituzionalizzare il Movimento 5 Stelle?
Elezioni 2018, dopo il 4 marzo vince chi addomestica l'antisistema
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