La testimone dell’Olocausto e della possibilità di rinascere. L’attivista russa di 17 anni, simbolo di tutti i ragazzi in piazza. Ecco perché l’Espresso ha scelto loro come persone dell'anno 2019

Liliana Segre e Olga Misik, il nostro tempo

Olga Misik e Liliana Segre nei ritratti di Maki Galimberti

Il primo anno dopo il ritorno a casa fu tragico. Ero una ragazza, mi sentivo giudicata, brutta, bulimica, studiavo privatamente, non frequentavo quasi nessuno. Nell’estate del 1946 sono andata in montagna in Tirolo con i nonni materni e con amici fedeli che avevano una figlia vicina alla mia età, Marisa. Un pomeriggio, mentre facevamo una passeggiata lungo il fiume Fleres, ci siamo buttate per terra e siamo rimaste sdraiate. Era una giornata meravigliosa. Siamo rimaste così a lungo, in silenzio. La testa sepolta nei fiorellini del prato, il rumore dell’acqua, il cielo terso. Due ragazze semplici, pulite, ingenue. Era un momento perfetto. E allora io ho detto: sai che sto pensando? Che forse non sono bella, interessante, felice, ma sono viva. Sono io e sono viva...».

Nella elegante casa borghese nel cuore di Milano, nel salottino in cui si è accomodato un mese fa anche Matteo Salvini con sua figlia, la senatrice a vita Liliana Segre appoggia per un istante la testa con i capelli bianchi sulla poltrona e si allontana da tutto. Via dalla folla che la insegue, dal telefono che non smette di squillare, dal maresciallo dei carabinieri che le fa da affettuoso angelo custode, dalla preparazione per il corteo che il sindaco di Milano Beppe Sala e altri seicento primi cittadini hanno organizzato per lei. È tornata ragazza e sembra ascoltare, di nuovo, il rumore dell’acqua.
[[ge:rep-locali:espresso:285338097]]
La vita viene prima di tutto. Qualche ora prima una ragazza russa che ha oggi l’età che Liliana Segre aveva allora ha visto il mare, sul litorale romano di Ostia, era per lei la prima volta e si è commossa. Olga Misik, 17 anni, è stata in Italia su invito della fiera della piccola editoria Più libri più liberi. Il mondo l’ha conosciuta nella scorsa primavera quando si è seduta per terra davanti alla polizia di Vladimir Putin in tenuta anti-sommossa con un gesto semplice e rivoluzionario, la lettura degli articoli della Costituzione russa del 1993, in particolare l’articolo 29 sulla libertà di pensiero e di stampa («A ciascuno è garantita la libertà di pensiero e di parola. Non è ammessa la propaganda o l’attivismo che inciti all’odio ed all’ostilità sociale, razziale, nazionale o religiosa. Nessuno può essere costretto ad esprimere le proprie opinioni e convinzioni o a rinunciare ad esse. È garantita la libertà dell’informazione di massa. La censura è proibita»), simile all’articolo 21 della nostra Carta. Si muove con la felpa, il cappuccio, la maglietta su cui c’è la sua città Mosca tra le sbarre, o il numero 212 che è l’articolo del codice penale russo che dispone sulle manifestazioni pubbliche. La voce che all’inizio fatica a uscire, parlare è una montagna da scalare, bisogna prendere fiato e affrontare la fatica, ma poi erompe con potenza, con la forza della parola.

Liliana Segre è la persona dell’anno che L’Espresso ha scelto per il 2019. Insieme a lei, Olga Misik. Liliana e Olga, ritratte per la nostra copertina da Maki Galimberti, sono due volti del tempo che ci è dato da vivere e di questo ultimo anno del secondo decennio del secolo, in Italia e nel mondo. Una testimone degli orrori del Novecento e della possibilità di rinascere e un’attivista del Duemila. Un’anziana signora, amante della sua famiglia, di figli e nipoti, gelosa delle sue abitudini («mi scusi, devo congedarla, mi preparo al concerto di Martha Argerich», mi accompagna alla porta con dolce fermezza), che porta stampato sulla pelle quel numero di matricola 75190, Auschwitz, lo sterminio degli ebrei pianificato dal nazismo. E una giovane donna che riassume nel suo gesto di rivolta contro un potere autocratico la grande novità del 2019. Il ritorno del protagonismo dei giovani, la richiesta di politica che si esprime con il dissenso personale, o tutti insieme, nelle piazze.
Liliana Segre, foto di Alessandro Serranò / Agf per L'Espresso

Greta Thumberg compirà 17 anni il 3 gennaio, alla fine del 2018 si conquistò per la prima volta il palcoscenico con il suo intervento alla conferenza di Katowice, dopo essersi seduta per terra davanti al Parlamento svedese con l’impermeabile giallo e un cartello al collo. Oggi è una star globale, contesa dai media di ogni latitudine (Time le ha dedicato la cover dell’anno) e dai potenti della terra che se ne contendono la presenza ai loro consessi e le reprimende, ha dato inizio a un movimento internazionale di giovanissimi che manifestano per bloccare il cambiamento climatico. Tanti altri protestano per qualcosa di impalpabile ma necessario, come l’aria che respiri, di cui ti accorgi se c’è mancanza. La democrazia, malandata in molti angoli del globo: da Hong Kong al Cile, dal Libano all’Iran, al popolo curdo martoriato, i ragazzi e le ragazze si aggregano per manifestare per qualcosa che, come la terra, non è loro, ma di tutti. Fanno insieme qualcosa che si chiama politica.

Nell’Italia assopita dall’anti-politica che è il contrario - irresponsabilità dei singoli e scarico di ogni colpa su chi sta in alto, schiacciamento sul tempo presente, feroce difesa di ciò che è mio (prima gli italiani, ovvero prima di te vengo io) - il vento ha preso inizialmente la direzione del gesto individuale. La disubbidienza e il coraggio. I bambini eroi Ramy e Adam che hanno salvato i loro compagni di scuola dal dirottamento del loro pullman e dalle fiamme ma non erano cittadini italiani. Il «a me nun me sta bene che no», il “preferirei di no” di Simone di Torre Maura di fronte agli squadristi di CasaPound che volevano cacciare le famiglie Rom da un centro di accoglienza. La scelta della capitana Carola Rackete di forzare il blocco navale di fronte a Lampedusa e salvare i migranti a bordo della Sea Watch. Poi, all’improvviso e a sorpresa, sono arrivate le Sardine. Hanno invaso le piazze italiane, partendo da Bologna fino alla manifestazione di San Giovanni a Roma del 14 dicembre. Con il loro manifesto che è un inno al ritorno alla politica, qualunque cosa voglia dire. Cantare insieme, per esempio, come ha detto di loro Romano Prodi.
Olga Misik, foto di Christian Mantuano / One-Shot per L'Espresso

A Liliana Segre è toccato il destino più strano. «Io sono rinata due volte». Rinata dopo essere stata esclusa dalle scuole, tradita dagli amici, deportata ad Auschwitz, strappata dal papà che non rivedrà più. Sergio Mattarella l’ha nominata senatrice a vita nel 2018 per significare che la Repubblica non rimuove la vergogna delle leggi razziali e la complicità nell’Olocausto degli italiani e non dimentica che nel rifiuto di ogni forma di razzismo e fascismo affonda le sue radici, nel segno dell’unità e della memoria condivisa. E invece, da più di un mese la senatrice Segre vive sotto tutela, minacciata e insultata dopo il voto del Senato sulla sua proposta di istituire una commissione sull’odio. «A quasi novanta anni mi mandano messaggi di morte. Non vedo i social, me li riferiscono: vecchia schifosa, smettila di raccontare le tue bugie... Con ingenuità mi aspettavo che la commissione contro le parole d’odio non avrebbe disturbato nessuno, sarebbe stata un’occasione straordinaria per mettere d’accordo tutti. Quando ho visto che una parte del Parlamento si asteneva, non lo nascondo, ci sono rimasta male». Ne ha parlato con Matteo Salvini, andato a casa sua per spiegarle le sue contrarietà, ognuno è rimasto sulle sue posizioni, «c’è andata di mezzo Mirta, la figlia, si è annoiata tantissimo mentre parlavamo». Aggiunge: «Io non ho paura. Questi sentimenti ci sono sempre stati. Ci sono odi antichi che tornano allo scoperto. In questi giorni se n’è andato Piero Terracina, era un sopravvissuto come me, tra noi c’era una fratellanza a distanza. Ogni volta che qualcuno di noi se ne va è un pezzo che viene meno. Non mi faccio illusioni: la Shoah può essere dimenticata, agli armeni è successo, i fatti storici possono essere revisionati, la Costituzione o l’Europa possono cambiare. Per questo sono sempre grata a Susanna, la vecchia cameriera che viveva con i miei nonni. Era cattolica, non fu arrestata per caso. Non ha salvato tanti, ma tanto: le fotografie, gli oggetti, la memoria delle persone».
Liliana Segre con il sindaco di Milano Beppe Sala- foto di Alessandro Serranò (AGF)

La sera di martedì 10 dicembre, il giorno della dichiarazione dei diritti umani delle Nazioni Unite, Liliana è stata abbracciata da seicento sindaci, venuti da tutta Italia per consegnarle la fascia tricolore. Mano nella mano con Beppe Sala, ha avanzato a piccoli passi, applaudita da due ali di folla. A un certo punto dal fondo della galleria illuminata a festa qualcuno ha intonato Bella Ciao, prima sottovoce, come un soffio, poi il canto è diventato forte ed è arrivato fino alla testa del corteo. Tocca ancora a lei, a questa donna inflessibile, trovare le parole per dare coraggio a un popolo disorientato. «Lasciamo l’odio agli anonimi della tastiera e guardiamoci da amici, anche se ci incontriamo solo per un attimo», ha detto dal palco, come nella poesia di Primo Levi. «Moglie, sorella, sodali, parenti,/ Compagne e compagni di scuola, /Persone viste una volta sola /O praticate per tutta la vita: /Purché fra noi, per almeno un momento, /Sia stato teso un segmento, /Una corda ben definita». Un segmento, una corda tra le generazioni. Quella che ha conosciuta direttamente l’odio, «sono diventata un rifiuto della società civile cui credevo di appartenere», ricorda Liliana, e quella del nuovo secolo che combatte la sua battaglia, le «future candele della memoria», le definisce la senatrice.

«Se la situazione in Russia fosse un’altra non sarei qui a parlarne, avrei avuto una vita diversa anch’io». Ne parla già al passato Olga Misik, come un rimpianto, «in quale Russia vorrei crescere? Io sono già cresciuta», citando senza saperlo quasi letteralmente quanto scrisse Giaime Pintor al fratello Luigi nel 1943 prima di raggiungere la Resistenza: «Senza la guerra io sarei rimasto un intellettuale con interessi prevalentemente letterari: avrei discusso i problemi dell’ordine politico, ma soprattutto avrei cercato nella storia dell’uomo solo le ragioni di un profondo interesse, e l’incontro con una ragazza o un impulso qualunque alla fantasia avrebbero contato per me più di ogni partito o dottrina». Studia giornalismo, come Anna Politkovskaja, un lavoro rischioso non solo in Russia, ma si sente un’attivista a tempo pieno. Nella sua settimana in Italia Olga ha partecipato a un’assemblea con i suoi coetanei nel liceo Virgilio occupato, ha visitato con uguale stupore i musei vaticani e la Cappella Sistina e all’uscita ha chiesto di poter fare una cosa che ripete ogni venerdì: manifestare per la liberazione di alcuni detenuti politici davanti a una stazione della metro. È restata in piedi per un po’, da sola, con un cartello in mano e con alcuni nomi, fragile e fortissima. Della coetanea Greta ha detto a Rosalba Castelletti di Repubblica: «Lei parla di ambiente e non rischia niente, mentre io parlo di politica, un tema molto pericoloso in Russia». «In un primo momento alle manifestazioni mi divertivo, poi ho capito che sono una cosa molto seria. Ogni volta che scendo in piazza sento una ispirazione, mi sento di respirare. La propaganda è molto potente, ha grandi risorse economiche alle spalle, ho subito attacchi durissimi. Anche in casa ho rapporti molto tesi: mio padre vuole più bene a Putin che a me, io ho dovuto accettare lui, lui ha dovuto accettare me». Il suo movimento si chiama Bessrochka, ovvero Protesta perpetua: pacifico, senza leader, senza centri, comunicano via telegram, difendono la libertà di parola e di manifestazione violata. Non è la richiesta di una rivoluzione o di una nuova presa del Palazzo d’inverno, «la nostra storia ha dimostrato che gli strappi cruenti e radicali possono portare a cambiamenti in peggio», è una protesta senza fine, un processo, una tensione: «Se anche il governo russo dovesse cambiare, comunque non verrebbe meno l’esigenza di continuare a battersi per un futuro migliore».
Olga Misik fotografata da Christian Mantuano / One-Shot per L'Espresso

«È la vita che ti porta a testimoniare», dice Liliana Segre, anche contro la tua volontà. È il corpo che testimonia. Un anno fa morì in un attentato a Strasburgo Antonio Megalizzi, giovane italiano e europeo che sognava il giornalismo e l’Europa unita e democratica. Per molti ragazzi italiani oggi tornare in piazza significa raccogliere la sua eredità. Per tutti sarà un cammino contraddittorio, di cadute, delusioni, speranze. «Altri, seguendo le tue vive tracce, faranno la tua strada a palmo a palmo, ma non sei tu che devi sceverare dalla vittoria tutte le sconfitte. E non devi recedere d’un solo briciolo dalla tua persona umana, ma essere vivo, nient’altro che vivo, vivo e nient’altro sino alla fine», e questo è Boris Pasternak.

La vita è una cosa molto seria, anche i simboli lo sono. E forse è questa la questione privata che spinge i ragazzi a tornare alla politica, nella trasmissione da Liliana che si sente una nonna alle ragazze come Olga di tutto il mondo e in Italia. Un segmento, una corda ben definita che ci lega tutti.

LEGGI ANCHE

L'E COMMUNITY

Entra nella nostra community Whatsapp

L'edicola

Siamo tutti complici - Cosa c'è nel nuovo numero dell'Espresso