
Una ragnatela di soldi, società, vasi comunicanti, personalità, azioni apparentemente scollegate tra loro e distribuite in un tempo lungo, che convergono però a un risultato finale sempre identico, a un obiettivo costante: distrarre a favore di amici e familiari fondi dell’Obolo di San Pietro e in più in generale della cassa della Segreteria di Stato. La regia è dell’ex porporato di Pattada, l’azione è affidata al finanziere Enrico Crasso.
Secondo quanto sostengono gli inquirenti, dalle rogatorie internazionali che lo Stato Vaticano ha inviato in Svizzera, emerge una chiara «associazione a delinquere». Accanto ad Enrico Crasso, troviamo protagonista Raffaele Mincione che, con una ragnatela di società (Wrm Capital Asset Management sarl, Wrm Capinvest Ltd, Time&Life SA, Athena Capital Fund Sicav, Wrm Resinsurance AG e la fiduciaria First Names) ha tratto i benefici economici maggiori dall’operazione del palazzo di Sloane Avenue a Londra: una perdita per le casse vaticane di 100 milioni di euro che si vanno a sommare ai 16 milioni di commissioni relative al fondo Athena, i 2 milioni di euro di commissioni per un mutuo e i 243 mila euro di morosità delle società di Mincione e consorte, Maddalena Paggi, di per gli affitti non pagati proprio al civico di 60 di Sloane Avenue.

Il buco generato nelle casse vaticane dagli investimenti in strumenti finanziari in società di Mincione è ancora sotto indagine: non si riesce a stabilire quanti denari siano stati alla fine drenati in società riferibili al finanziere di Pomezia. Una voragine economica avallata da tutti gli attori di questa partita e propiziata dal gestore della cassa della segreteria di Stato, Enrico Crasso. È lui a far entrare Mincione e il broker Gianluigi Torzi in una partita già complessa in partenza: un ingresso non casuale, ma parte di una strategia pianificata per cercare di distrarre più risorse possibile, prima che a chiudere i forzieri vaticani intervenissero per un verso le riforme volute da Papa Francesco e per l’altro la continua perdita di liquidità, denunciata dal presidente dello Ior Gianfranco Mammì proprio al Pontefice in almeno due occasioni.
Il sodalizio tra Crasso, Torzi e Mincione - secondo gli inquirenti i tre agivano in pieno accordo - unitamente alla complicità di impiegati della Segreteria di Stato come Monsignor Alberto Perlasca e Fabrizio Tirabassi, rende possibile una continua sottrazione di risorse nell’affare londinese.
Non solo: centinaia di chat WhatsApp agli atti degli inquirenti vaticani dimostrerebbero che il cardinale Becciu ha continuato a dirigere gli affari della cassa della Segreteria anche dopo la rimozione operata da Papa Francesco. Bergoglio, nel maggio 2018, creandolo cardinale e nominandolo Prefetto per la Congregazione delle Cause dei Santi, in teoria ne aveva interrotto il potere sulle finanze vaticane. Il nuovo Sostituto agli Affari generali che prende il posto di Becciu, il venezuelano monsignor Edgar Peña Parra, si ritrova, come testimonia Perlasca in vari interrogatori, ad agire in totale solitudine. Tenta di chiudere l’affare del Palazzo di Londra ma ricorrendo ai medesimi personaggi che continuano a richiedere fondi e liquidità.
C’è poi l’arrivo “improvviso” sulla scena di Gianluigi Torzi: compare solo nel 2018, ma il broker molisano di Guardialfiera in pochi mesi è in grado di drenare liquidità alla segreteria di Stato per un valore complessivo di 15 milioni di euro, senza alcuna giustificazione e con fatture false da parte delle sue due società. Il sospetto degli inquirenti si concentra proprio su questa velocità e sul fatto che la segreteria di Stato avrebbe potuto chiudere l’affare di Londra in modo definitivo con l’acquisto diretto del palazzo di Sloane Avenue, invece di usarlo come intermediario. E sembrano convinti che Torzi sia un “prestanome” che abbia agito per conto e in concorso con funzionari della Segreteria di Stato.
Ma c’è un altro capitolo decisivo che riguarda le pressioni a cui sarebbe stato sottoposto il sostituto di Becciu, monsignor Peña Parra. Secondo quanto stanno accertando gli investigatori sarebbe stato vittima di un dossieraggio «da parte di soggetti che avevano interessi nella conclusione della vicenda del palazzo di Sloane Avenue». I dossier sarebbero arrivati da oltreoceano, estensori Monsignor Carlo Viganò, capo degli antibergogliani statunitensi, e il giornalista venezuelano Gastòn Lopez, direttore di “Que pasa”, giornale di Maracaibo, città venezuelana di provenienza di Peña Parra.

Il sostituto della Segreteria di Stato veniva accusato di essere parte di una lobby di sacerdoti gay nella città, un gruppo che per trent’anni avrebbe intrattenuto relazioni con ragazzi minorenni. I dossier - dai contenuti mai verificati e provati, tanto che i media statunitensi non vollero dargli spazio - sarebbero stati accompagnati dalla minaccia dell’esistenza di video compromettenti.
Come abbiamo visto nella storia recente della Santa Sede con il caso di George Pell, non serve portare prove per provocare scandali e deposizioni. E dunque Peña Parra, nel timore di trovarsi al centro di un nuovo eventuale “caso Pell”, avrebbe deciso di affidarsi agli stessi personaggi che avevano creato la voragine: Crasso e Mincione. Questi in «associazione a delinquere» con altri membri della segreteria e con la regia dietro le quinte dell’ex cardinale Angelo Becciu, avrebbero chiuso a modo loro l’affare del Palazzo di Londra.
Il timore di trovarsi al centro di scandali inventati a tavolino o di fughe di notizie è stata una costante negli ambienti vaticani, a partire dai casi Vatileaks, ed è proprio sulle analogie rispetto a storie del passato che i promotori di giustizia vaticani puntano i fari, alla ricerca di punti di congiunzione, natura delle fughe di notizie e modalità di ricatto ai danni di coloro che si frapponevano alla riforma della Curia. In questo panorama consolidato di accuse, ricatti incrociati, fee altissime, bonifici senza motivazione, si inseriscono personaggi che potrebbero sembrare marginali, ma che in verità sono dei veri playmaker delle operazioni.
Come Fabrizio Tirabassi, decano amministrativo della segreteria di Stato che, nei suoi conti sia allo Ior che in Svizzera, avrebbe depositato nel corso degli anni cifre che si avvicinano ai due milioni di euro. Una quantità di denaro che stride rispetto a quella che si immagina a disposizione di un semplice dipendente dell’amministrazione. Secondo gli investigatori al centro di questa pioggia di soldi c’è il rapporto stretto di Tirabassi con Enrico Crasso, «con il quale era certamente d’accordo per utilizzare soldi della Segreteria di Stato per finalità diverse da quelle istituzionali».
Secondo altre rogatorie internazionali che “L’Espresso” ha potuto visionare, non vi sarebbe solamente la Svizzera come teatro delle attività illecite collaterali che hanno determinato il crack della cassa della segreteria di Stato, ma anche Londra. Dove gli inquirenti britannici starebbero verificando numerose attività filantropiche di copertura che Gianluigi Torzi avrebbe costituto per rafforzare la sua immagine pubblica. Iniziative umanitarie e che sarebbero dovute servire per schermare i controlli e per aumentare la ”reputacion”, coinvolgendo figure di primo piano delle istituzioni nazionali ed europee, come l’ex ambasciatore italiano negli Stati Uniti Giovanni Castellaneta e l’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti. Personalità che, ignare, avrebbero prestato la loro immagine per analisi e studi geopolitici. Un piano che, secondo gli inquirenti londinesi, vedrebbe la “longa manus” di altri attori finanziari che avrebbero voluto costruire intorno a Torzi una visibilità tale accreditarlo in ambienti di difficile permeabilità.
Nei prossimi giorni, con la decisione della magistratura italiana sulla scarcerazione di Cecilia Marogna, la manager cagliaritana accusata di peculato sempre nell’ambito dell’inchiesta su Becciu, assisteremo ad una nuova evoluzione giudiziaria. Mentre le carte di ritorno dalle numerose rogatorie internazionali potrebbero aprire nuovi scenari sulle vicende del fiume di denaro che è stato disperso.
Il contenuto di questo articolo stato contestato dal sig. Raffaele Mincione in un procedimento per diffamazione avviato presso la High Court of Justice di Londra, attualmente in corso.