Narrano storie femminili antistereotipi. Creano graffiti con le sembianze di Margherita Hack, Greta Thunberg, Anna Magnani e altre figure emblematiche. Si chiamano Lediesis, Kiki Spiki, Alice Pasquini, Camilla Falsini. E si fanno strada in Italia e in giro per il mondo: la carica delle street artist italiane

Bombolette spray, rulli, pennelli, vernici, stencil e rulli, alla conquista di pareti dalle dimensioni talvolta monumentali. Muri che si credevano, fino a poco tempo fa, un monopolio maschile. Chissà perché. «Io ne ho dipinti oltre mille in ogni continente, grandi, enormi. Eppure c’è ancora chi si sorprende. Mi chiedono: “Ma hai fatto tutto da sola?”, e magari dispensano complimenti al mio compagno o a un amico nei paraggi».

Alice Pasquini è la nostra street artist più conosciuta, consacrata a livello internazionale, ambasciatrice di un movimento informale di giovani donne trenta-quarantenni che stanno scalando pregiudizi ardui da scolorire. Muri fisici da abbellire, muri mentali da abbattere. Se certi luoghi periferici sono tornati, in qualche caso, a splendere, assumendo le sembianze di un museo en plen air, il merito è sempre più loro, sempre più suo. Romana, tra committenze statali e azioni più estemporanee, le sue opere fantasmagoriche sono esposte sulle superfici urbane di tutto il mondo. Sydney, Mosca, Singapore, Londra, Berlino, New York, Buenos Aires, Yogyakarta, Marrakech, Saigon: l’elenco potrebbe continuare per decine di righe. Alice ha introdotto un’estetica inedita, «linee frastagliate e rotte, fondi con l’acrilico. Il mio intento è di trapiantare un canone pittorico in spazi eterodossi, narrando una piccola storia personale lì dove la città sembrava averti abbandonato», dice. Le protagoniste dei suoi murales sono figure femminili, con la loro vitalità, alterità, irriverenza. Ragazze libere e in rotta con stereotipi di vecchia o nuova generazione.

Alice Pasquini

«Quando ho cominciato eravamo pochissime, e su scala globale. Per me è stata l’occasione per trasmettere una rappresentazione autentica, di donne reali. Parecchi miei colleghi uomini, già al tempo pioneristico dei graffiti, tratteggiavano sempre lo stesso facsimile: un’eroina da fumetti, la donna supersexy, come sui cartelloni pubblicitari. Io non ho deciso su due piedi “adesso invento una street art femminista”. Ho cercato però, fin da subito, di veicolare uno stile femminile che aderisse al nostro punto di vista». Un problema e un divario atavico, ai confini del paradosso.

«Nel corso della storia dell’arte sono sempre stati i pittori maschi a raffigurare noi donne», conclude Pasquini: «C’è ancora tanta strada da percorrere, sembra tuttora strano che a farlo sia direttamente una donna». A proposito di kryptonite muliebre, ma sfrondata di ogni côté vetero o inconsciamente maschilista; anzi, rovesciandone il senso. Da un paio d’anni fa parlare di sé il collettivo delle Lediesis, due street artist fiorentine, anonime alla Banksy, che tappezzano le finestre e gli archi ciechi dei centri storici tricolori con le loro “Superwomen”. Icone dell’epoca corrente o del Novecento, sfoggiano la “S” di Superman sul petto e fanno l’occhiolino. I loro “poster di strada” (usano la tecnica del “paste up”) sono stati avvistati a Napoli e a Firenze, a Roma e a Milano. Le superwoman sono, per citarne solo alcune, Margherita Hack e Rita Levi Montalcini, Anna Magnani/Mamma Roma e Sora Lella, Alda Merini e Peggy Guggenheim, Greta Thunberg, Maria Callas e Giovanna Botteri (vittima di body shaming). Creatività, consapevolezza e uno sguardo che legge tra le righe del contemporaneo.

Alice Pasquini

Le street artist italiane vengono da studi d’arte regolari e classici che hanno poi trasgredito, sublimandoli. Anche Giò Pistone (il nome d’arte è frequente, e trasversale al genere sessuale) è romana come Alice Pasquini, anche la sua fama sconfina all’estero e si muove sul filo della metafora: un universo espressivo rigoglioso e sgargiante, fitto di rimandi. «Amo le storie, le leggende e vi assicuro che qualsiasi posto io raggiunga è sempre tempestato di vita. E così, di prassi, ho molto materiale da visionare, su cui fantasticare», racconta a L’Espresso: «L’ultimo anno prima della pandemia stavo portando avanti un progetto che ho intitolato “VVITCH”. Si è un po’ bloccato, ma l’idea era di tracciare una panoramica dell’immagine della donna lungo i secoli. Un fil rouge. Per ora le mie streghe (per modo di dire), sono visibili sui muri di San Pietroburgo, Lugano, Ponte de Sor, Lisbona, Amsterdam, Gand, Livorno, Stigliano, Barbarano, Torino… E quest’ultima è stata bruciata, non scherzo».

Non hanno un volto le donne di Kiki Spiki («Non mi piace, non mi interessa, preferisco conferire più importanza alla totalità», spiega), sarda (originaria di Oristano), da qualche anno in pianta stabile a Bologna. «Mi ha influenzato la fotografia, che ho studiato per tre anni a Milano, in particolare la scoperta dell’autoritratto; attingo un po’ da tutto, mischio il passato con il presente, guardo i vecchi poster de La Vie Parisienne e le ceramiche Lenci dei primi anni Trenta, le grafiche dei francobolli russi, vecchi scatti vintage... Do spazio alla fantasia, sempre». Un Aleph ecumenico e ritagliato su misura per i rispettivi immaginari, sensibili, ma mai appiattiti sull’attualità. «Quando ho iniziato, non si chiamava ancora street art», dice Alice Pasquini: «Parlo degli anni Novanta: arrivava finalmente anche da noi la cultura hip hop, carica di un messaggio molto importante per i giovani. La libertà di esprimersi, trovare una formula, una parola, un passo proprio. La mattina andavo all’Artistico e di pomeriggio, con i miei amici, imparavo altro. Allora la tecnica dello spray non la insegnava nessuno. Non c’erano mica i corsi di ogni tipo di oggi. Per noi era una maniera di vivere alternativamente la città, compiendo atti creativi al di fuori dell’arte istituzionale del Liceo, quella con la a maiuscola».

Un tragitto iniziatico analogo per Giò Pistone: «Verso i miei 13-14 anni vedevo spuntare sui muri della mia città scritte con lettere colorate, poster e locandine disegnate da artisti che invitavano a iniziative che catturavano la mia attenzione totalmente. Questo coincideva con la nascita a Roma dei centri sociali e della controcultura punk e hip hop. Era scoccata l’ora: sentivo vibrare la strada di messaggi e linguaggi nuovi e codificati, che ancora non capivo. Una selva da attraversare per riuscire a riconoscere i richiami. Mi ci sono buttata. Era il 1988». In Kiki Spiki la passione per la street art è deflagrata, invece, più tardi, «esercitandomi, da ragazza, sui muri abbandonati della mia Sardegna». Ha origini romane pure Camilla Falsini, un’altra street artist stimata e quotata («I miei lavori sono riconoscibili per le tinte piatte e i colori molto accesi. Amo disegnare personaggi e creature inventate, più che i paesaggi» premette): «Dal 2005 al 2009 diedi vita, con due colleghe, a un collettivo artistico che chiamammo “Serpe in seno”: risalgono a quel periodo i miei primi murales. Dopo il suo scioglimento ho continuato a forgiarne da sola, anche se almeno la metà del mio tempo è assorbita dall’illustrazione». La street art femminile e la realtà magmatica, l’entropia che ci circonda. «Secondo me la street art, o muralismo, è una forma d’arte come le altre, ma più visibile», chiosa Giò Pistone: «Coltivo tante idee, studio, leggo, e di solito trasferisco nei disegni i miei pensieri politici, nel senso che riguardano la “polis”, cercando di tradurli in qualcosa di abbastanza positivo, perché credo che l’arte urbana non debba usare simbologie pesanti o senza speranza, è un’arte di passaggio, che si guarda velocemente ed entra con prepotenza nelle vite. Non deve turbare l’animo, già parecchio sconvolto, dell’essere umano cittadino».

Secondo Camilla Falsini, invece, è una forma d’arte contraddistinta da un elemento particolare rispetto a tutte le altre: «La sua dimensione di arte pubblica, fruibile liberamente semplicemente passandoci sotto. È questo l’aspetto che mi affascina di più, così come la sua dimensione urbana, la sua quintessenza è questa. Poi sì, certo, può incidere sul mondo esterno, perché modifica uno spazio e suscita emozioni e sentimenti, invita alla riflessione. Ma animare un muro non risolve in blocco i problemi di un quartiere, non è una panacea». Lo sa bene Giò, che qualche anno fa dipinse quei guardiani fantasy che sovrastano l’ingresso di una nota, tetra e frequentata galleria del Quadraro, nella capitale. Col corredo della scritta “Ai pensieri liberi, alle paure, agli amori volanti nel paesaggio tra due tempi”: «Le periferie dovrebbero essere trattate bene dalle amministrazioni comunali, diventare vivibili, arricchite da parchi accessibili, pulizia delle strade e cultura. Me lo auguro per Roma, che sta cadendo a pezzi». Un’incrollabile tensione artistica, civile ed etica le accomuna.

Il murale creato a Palermo da Camilla Falsini in omaggio a Federico II, simbolo dell'accoglienza

Alice Pasquini continua, per esempio, a sfornare qua e là murales gratuiti, «per centri di accoglienza per minori, carceri, luoghi sociali sia in Italia che nel resto del mondo». Ma la perdurante disparità di genere può essere combattuta a colpi di bombolette spray? Risponde, a nome di tutte, Kiki Spiki: «Visto che siamo nel 2021, ed esiste ancora, tutti i mezzi sono permessi».

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