All’appuntamento con i referendum – ormai imminente: si vota l’8 e e il 9 giugno – l’assenza più rumorosa sarà quella dell’autonomia differenziata. Il quesito che avrebbe dovuto chiamare gli italiani a pronunciarsi sulla riforma bandiera della maggioranza meloniana è stato infatti bocciato dalla Corte costituzionale: tecnicamente inammissibile, politicamente troppo ingombrante per superare il vaglio dei giudici delle leggi.
Così, i cinque referendum ammessi – su Jobs Act, contratti a termine, licenziamenti nelle piccole imprese, appalti e cittadinanza – si presentano orfani della spinta emotiva che l’autonomia differenziata avrebbe garantito, condannati a una campagna referendaria che sa di atto dovuto più che di grande battaglia popolare. Così, quella che nei piani dei promotori doveva essere una spallata al governo Meloni (ricordate la foto di gruppo dei leader sui gradini della Cassazione?) è diventata un’operazione nella quale chi rischia di più è proprio l’opposizione.
Le battaglie referendarie che sono rimaste sul tavolo vedono infatti la segretaria del Pd schierata contro una legge – il Jobs Act – che porta la firma di un premier del suo stesso partito, e un Movimento 5 Stelle che sul quesito più delicato – il dimezzamento dei tempi per la cittadinanza agli immigrati – si dissocia dalla sinistra lasciando pilatescamente libertà di voto ai suoi elettori. Una divergenza che, al netto delle dichiarazioni diplomatiche, rende impossibile presentarsi agli elettori con una voce sola. Al contrario, il centrodestra si muove compatto e deciso: Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia hanno issato il vessillo del No su tutti i quesiti, invitando i loro elettori a disertare le urne.
Più che il voto favorevole o contrario, per il fronte referendario il vero avversario da battere resta dunque l’astensionismo. Un mostro silenzioso e letale che ha già inghiottito molte consultazioni popolari negli ultimi anni. Senza il quorum della metà più uno degli aventi diritto, i referendum saranno invalidati e tutto resterà com’è. L’assenza del tema trainante dell’autonomia ha reso più difficile creare una narrazione chiara e comprensibile, capace di superare l’apparente tecnicismo delle schede referendarie. Gli italiani saranno chiamati a pronunciarsi su contratti, clausole, tutele: parole fredde, lontane dal cuore. E la dispersione delle opposizioni, in questo scenario, aggrava la possibilità che prevalga la disillusione.
Ecco perché un eventuale fallimento dei referendum, per mancato quorum, avrebbe conseguenze politiche pesanti. Per l’opposizione significherebbe certificare la propria irrilevanza, l’incapacità di mobilitare l’elettorato anche sui suoi temi storici. Per il governo Meloni, al contrario, sarebbe una vittoria silenziosa ma pesante: la conferma che il Paese, se interpellato, non sente il bisogno di cambiare le cose nella direzione indicata dalla sinistra.
E ancora: un nuovo flop referendario riaprirebbe inevitabilmente il dibattito sull’efficacia stessa dello strumento abrogativo, su un quorum che molti considerano ormai anacronistico, utile solo a garantire l’immobilismo. Non basteranno più, forse, le solite dichiarazioni amare del giorno dopo. Servirà una riflessione profonda sullo stato di salute della democrazia italiana.
Giugno sarà, dunque, più che una scadenza elettorale: sarà uno specchio. Riflessione amara o motivo di riscatto, dipenderà dai cittadini. Sempre che decidano di andarci, davanti a quello specchio.