La normalità in Afghanistan è davvero un concetto astratto. In questa terra, dove da trent'anni si vive nel terrore, e dove la quotidianità è scandita dalle armi, anche la politica appare un oggetto misterioso. Ufficialmente, sono 83 i partiti riconosciuti. E se a questi si aggiungono le tante etnie che popolano il Paese, ciascuna poi divisa in tribù, fazioni, clan, la Babele è totale.
Sanguinose lotte per il potere. Colpi di Stato. Instabili governi provvisori. È la storia politica dell'Afghanistan da sempre. Nell'ultimo secolo il Paese ha conosciuto ogni forma di governo: dalla monarchia alla repubblica, dal comunismo alla teocrazia. Senza contare il regime imposto da una giunta militare. Oggi l'Afghanistan è guidato dal presidente Hamid Karzai, non particolarmente amato dai suoi cittadini che lo ritengono debole e poco credibile. "Ci avesse almeno costruito una strada", ci dice Ajmal Said, un giovane afgano che insegna inglese. Il parlamento è stato eletto nel 2005, tra i membri ci sono ex combattenti dell'Alleanza del Nord, sostenitori dei talebani, comunisti, riformisti e fondamentalisti islamici. Il 28 per cento dei delegati sono donne, il 3 per cento in più del minimo garantito dalla costituzione. Nella politica si sono tuffati ex combattenti convertiti all'idea che è ora di abbassare le armi, faccendieri che tengono il piede in due staffe per curare i loro traffici, ricchi notabili, gli esuli che hanno fatto fortuna all'estero e sono tornati a casa dopo la caduta dei talebani, abbagliati dal sogno di ricostruire il nuovo Afghanistan. Questi ultimi si riconoscono dalle scarpe lucide e stranamente mai coperte di polvere, dalle loro donne che non portano veli. Vivono in case scintillanti, che appaiono come un miraggio tra le macerie e le case di pietra in rovina di Kabul.
D'altra parte questo è l'Afghanistan, una contraddizione che si incastra perfettamente in un'altra e dove nulla è semplice o accessibile. C'è un presidente, un parlamento, palazzi e ministeri, una marea di impiegati. Tutto quello che serve per far funzionare un potere centrale. Qui, invece, come negli Stati postcoloniali, ci si siede a un tavolo e davanti a un foglio di carta si cerca di disegnare uno Stato. La politica si decide piano piano, secondo le esigenze. Che non sono quelle del popolo, ma di altri: alleati o nemici che hanno infilato gli artigli e si sono aggrappati al destino di un Paese che non è mai stato libero di decidere. Con orgoglio gli afgani dicono che nessuno straniero è riuscito a sottometterli. La realtà è che nemmeno loro stessi riescono a governarsi.
Il potere centralizzato che gli americani hanno messo in piedi in Afghanistan è ancora solo una vaga promessa: quella di avere un posto dove far confluire i soldi degli aiuti. Nel giro di tre anni dalla caduta dei talebani, il nord del Paese è tornato a essere quello che si conosceva negli anni '90, schiacciato dalla violenza delle fazioni rivali. Prima c'erano i signori della guerra, ora i partiti creati da loro, perché il presidente Karzai ha pensato che fosse meglio averli con sé piuttosto che contro.
Così il Movimento islamico nazionale del generale Abdul Rashid Dostum ha tranquillamente ripreso a scontrarsi con il partito della Società dell'Islam, dell'ex presidente afgano Barhanuddin Rabbani. 'È lo stesso mulo con una sella diversa', recita un proverbio afgano. Un altro gruppo all'interno del partito Wahadat fedele al ministro della Pianificazione Mohammad Mohaqeq combatte contro i sostenitori della Jami'at nella provincia di Balkh. E ancora, quello che si è autoproclamato 'Emiro' dell'Afghanistan orientale, il governatore di Herat, Mohammad Ismail Khan, combatte gli afgani di etnia Pashtun nella sua regione e in quella di Badghis, dove gli sciiti della setta radicale degli ismailiti hanno cominciato a far ribollire la provincia.
Nel Sud imperano i talebani, che protetti dai servizi pakistani in quello che è il doppio gioco di Islamabad, entrano ed escono indisturbati, chiudendo scuole e aprendo tribunali islamici, seguiti dalla popolazione un po' per paura e un po' perché delusi da Karzai.
A Kabul sono decine i partiti entrati in parlamento. Molti dei loro rappresentanti erano (o sono) legati ai signori della guerra: oggi si sono ripuliti per diventare leader politici o perfetti sconosciuti che nell'arena politica non contano nulla. "Degli 83 partiti ufficialmente registrati, a contare sono solo il vecchio partito comunista e quelli legati ai signori della guerra. Non hanno nessuna credibilità, ci hanno portato solo bombe, distruzione e crimini. Ma tutto qui è loro ostaggio, complici le potenze straniere che non vogliono la stabilità dell'Afghanistan, come Pakistan, Iran, Russia, Cina, India e le Repubbliche centro asiatiche", ci racconta Dawd Sultanzoy davanti a un piatto di minestra fumante. Sultanzoy è un deputato indipendente, eletto con i 34 mila voti del suo distretto ultra conservatore di Asristan al confine tra le province centro-meridionali di Ghazni e Uruzgan. I talebani, che si erano presentati contro di lui alle elezioni di due anni fa, si sono ritirati convinti del suo programma. "Ma non sono riuscito a fare quanto promesso", aggiunge Sultanzoy, "soprattutto per le 14 mila donne che hanno votato per me. In questo Paese si parla inascoltati. Le orecchie sono sorde".
Sultanzoy, che dopo essere stato mujaheddin contro i sovietici, pilota dell'United airlines, uno dei progettisti del Boeing 777 e istruttore in Arabia Saudita, è tornato per sempre a casa, per combattere di nuovo. Questa volta per uno Stato di diritto. E lo fa in ciascuna delle tre sessioni settimanali plenarie del parlamento e in ogni occasione che gli si presenti. Racconta. "I ministri non mi amano perché conosco le domande giuste da fare".
Gli afgani hanno sempre una storia incredibile alle spalle e Sultanzoy non fa eccezione. Nel marzo del 1980, ai comandi di un Dc10 dell'Ariana, portò con sé una cinquantina di persone, tra dipendenti della compagnia di bandiera afgana raccolti in vari aeroporti e passeggeri, nella fuga dal suo Paese, invaso tre mesi prima dalle truppe sovietiche. "Pensai che la mia diserzione fosse un buon sistema per far parlare di quanto stava succedendo nella mia terra". Vissuto per anni in Europa e in America, ora combatte questa sua nuova battaglia per "portare la stabilità lungo quella via della seta che fu percorsa da Marco Polo, altrimenti per la stessa strada arriverà anche a voi l'instabilità del nostro Paese".
Sultanzoy non ha un partito perché ancora non ha i mezzi per farlo, anche se, dice, "si sente forte la necessità di una formazione diversa, moderna, che realizzi le aspettative dei giovani, ma non andrò a bussare alla porta di ambasciate o di organizzazioni di spionaggio". Si scalda sulla questione della presenza straniera in Afghanistan: "Quanto avete guadagnato, voi, i vostri primi ministri, dalla fine della Guerra fredda? Gli afgani al raggiungimento di questo obiettivo hanno contribuito con due milioni di morti nella guerra contro i comunisti".
Nel 2002, in un'assolata Kabul si tenne la Loya Jirga, la grande assemblea che elesse il presidente Karzai e altri ministri chiave. Dopo decenni di guerra c'era la sensazione che il primo passo per costruire un nuovo futuro fosse stato compiuto. Finalmente il popolo poteva votare e decidere. Lo spirito di quel grande evento deve essere rimasto tra le pieghe del tendone dove i delegati si erano dati appuntamento cinque anni fa. Il governo afgano è ora costretto a una politica che corre su più binari, per tentare di tenere insieme tutte le realtà politiche e militari di questo Paese, e di stemperare le divisioni etniche e geografiche.
Così, da una parte il presidente Karzai è costretto a sostenere uno sforzo bellico insieme con gli americani e agli eserciti della Nato nella lotta contro la guerriglia. Poi, su un altro fronte, il governo afgano deve prendere atto dell'impossibilità di controllare il territorio e in particolare l'aerea meridionale ai confini con il Pakistan. E in questa regione, per trovare delle soluzioni politiche e amministrative, deve arrivare a patti con i gruppi e gli esponenti meno radicali dei talebani che controllano la zona. L'obiettivo di Kabul è di tentare di mettere insieme una rappresentanza talebana presentabile in parlamento. Insomma, un compromesso. Tuttavia ferocemente osteggiato dall'ala militare più oltranzista dei talebani, ben lontana dall'accettare l'idea di subire un abbraccio che per loro potrebbe essere fatale.
Mondo
26 marzo, 2007In Afghanistan sono 83 i partiti ufficialmente riconosciuti. Decine poi le fazioni e le tribù. Infinite le divisioni. La difficile mediazione del presidente Karzai. E le prove di dialogo con i talebani moderati
Nella Babele di Kabul
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