È un tuffo nel Medioevo senza macchina del tempo. Quando pensare serviva solo per sopravvivere, per combattere, per proteggere la propria terra. Nelle loro teste non esistono foto, feste, ricordi felici, se non quello di una vittoria.
A Peshawar, ultimo bastione pachistano prima di sconfinare in Afghanistan, tutto sembra fossilizzato. È qui che si interrompe quel che è politico e ragionevole. Il posto dove le preghiere dei muezzin si frangono nella furia dei mitra. È la fine della civiltà, dove la paura rende le strade sicure. Paura di un Dio implacabile interpretato a piacimento da questi uomini. Non portano divise, non hanno autorità, sono solo, anzi soprattutto, il prodotto mutato della guerra.
Lo Swat, la Frontiera del nord-ovest, il Waziristan, le Fata sono le province che sagomano il regno dei talebani. Solo nello Swat, dopo un anno di operazioni militari dell'esercito pachistano, il territorio sotto il controllo dei talebani è aumentato dal 25 al 75 per cento. L'invasione americana li ha spazzati via, ma come una goccia di mercurio che cade, si sono moltiplicati, si sono allargati, si sono sparsi, sono diventati più forti. "E soprattutto hanno trovato una nuova causa: combattere gli infedeli stranieri. Non sono nessuno se non hanno qualcuno da distruggere, al contrario dei primi talebani, che venivano da famiglie di contadini, oggi non saprebbero neanche seminare un campo", ci spiega Vahid Mojdeh, analista e scrittore pachistano, ai tempi del regime, consigliere dei talebani.
"Un anno fa, mio cugino Shiraz, 16 anni, è partito per un campo di addestramento militare nel Waziristan. Ora non sappiamo più dove sia. Uno dei figli di mia zia è già morto combattendo in Kashmir: la donna non sopporterebbe di perdere un altro figlio. Quando i ragazzi decidono di andare, non c'è modo di fermarli", ci racconta un giovane di Peshawar. E non c'è modo neanche di cercarli, nelle zone tribali, del nord e del Waziristan, perché qui pochi si azzardano a entrare: è la terra dei pashtun, dichiarata Emirato islamico dai talebani.
Pattugliano le strade nei loro pick-up fatiscenti carichi di uomini, armi e sguardi impietosi. Corrono nella speranza di tornare ai tempi del profeta, quando non c'erano gli aquiloni o la musica. Intanto, non rifiutano la modernità dei cellulari o dei Kalashnikov che tengono saldamente tra le mani. Predicano e impongono una vita alle origini, secondo gli insegnamenti che hanno appreso nelle madrasa, le scuole coraniche che ha giocato con le loro menti di bambini. Consegnati da genitori troppo poveri per un pezzo di pane schiacciato e una scodella di riso.
Il 15 gennaio scorso, dopo la pausa invernale, le scuole avrebbero dovuto riaprire, ma i talebani, pochi giorni prima, hanno minacciato di bombardarle. Nessuna delle 400 scuole femminili ha riaperto e 80 mila ragazzine sono rimaste a casa e con loro 8 mila insegnanti donne rimaste senza lavoro.
"Non esisteva il terrorismo prima che arrivassero gli americani. È nostro dovere combattere contro gli stranieri e preparare questi ragazzi alla jihad", ci dice, mentre suo figlio di tre anni, davanti a the e biscotti, gli si arrampica addosso, Maulana Sayed Yousef Shah, il direttore della madrasa di Akora Kattak, vicino a Peshawar che ha dato i natali ai talebani. Ha la responsabilità di 3 mila ragazzini.
"I talebani non agiscono da soli. Il 90 per cento della resistenza vive grazie alla gente. Danno cibo e un letto", racconta al telefono da qualche parte vicino a Kandahar, il mullah Abdul Jalil, un pionere del movimento dei talebani a Kandahar e vicino al mullah Omar. Il capo inafferrabile, seguito dal suo consiglio di mullah e comandanti militari che cadono come mosche schiacciati dalle macerie dei drone americani. Comunicano attraverso i satellitari, ma soprattutto con il passaparola, vivono con niente e spendono in armi i soldi che arrivano dal traffico di droga, dai sequestri e dalle donazioni di alcuni centri islamici.
Spesso non hanno scarpe, ma sempre un Rpg anticarro che hanno imparato a usare nei centri di addestramento che pullulano nella regione e che ospitano i vagabondi del terrore in cerca di un posto sicuro.
Un trio di talebani e signori della guerra impera. Con loro si deve negoziare. Ci provano il Pakistan e l'Afghanistan. Con Obama, forse anche l'America. I tre non entrano in competizione, ma si controllano: uccisi i fastidiosi capi tribù, i maliki dei villaggi (150 dal 2005), è tutto loro, del mullah Omar, di Gulbudin Hekmatyar (estremista islamico che per poco negli anni '90 è stato anche primo ministro) e di Jalaluddin Haqqani (talebano e capo del sanguinario comandante Baitullah Mehsud). Le organizzazioni dei tre capi operano lungo il confine. Haqqani e Hekmatyar agiscono intorno e dentro Kabul e cercano di rivitalizzare la guerriglia a est dove sono concentrati gli americani. L'influenza del mullah Omar, invece, spazia nel sud, a Kandahar, il cuore pulsante dei pashtun. La roccaforte inespugnabile dalla quale si irradiano i talebani con la loro implacabile avanzata attraverso le coscienze degli uomini e la paura di pensare.