Rassegnazione, poche lacrime. E la sfiducia che dopo il sisma Haiti potrà rinascere. Perché la gente è abituata a non avere nulla

Les évènements, dicono nelle tendopoli dei senza più nulla sparse ovunque, in una piazza, un parco, un prato incolto, uno spartitraffico largo i tre metri sufficienti ad appendere un lenzuolo su quattro pali di legno sotto il sole. Non 'il terremoto, il sisma, la catastrofe', solo 'les évènements' cioè l'accaduto, le cose che sono successe. Pudore estremo delle parole, in un paese con l'Aids al 7 per cento e le minorenni che si offrivano persino dentro l'ufficio elettorale. Accettazione di una normalità della morte, anche la più violenta e insensata, in quest'isola dove ogni aspetto della vita è da sempre esposto come una banderuola al primo colpo di vento, e dove non si fa altro che ringraziare Dieu e Jésus e la Provvidenza sulle insegne dei negozi e le fiancate dei camion. Devi davvero stupirti e inorridire se, ancora una settimana dopo quel martedì 12 in cui alle 16.53 la terra si è lacerata, vedi davanti alla Morgue dentro l'ospedale centrale di Port-au-Prince decine di cadaveri lasciati ai vermi accanto a un cumulo di immondizia? Nelle fosse comuni ne hanno già sepolti 60 mila, e l'ultima stima ufficiale parla di 75 mila morti. Ma in aree periferiche a sud-ovest della capitale, come Mariani e Leogane al di là di Carrefour, i primi sporadici soccorsi non sono arrivati se non dopo sei giorni. E nessuno, a tutt'oggi, ha idea di quanti siano davvero là i morti, e quanti gli insepolti.

La stessa accettazione della fragilità dell'esistenza muove quegli uomini e donne che vedi cercare un varco sotto i lastroni di cemento accasciati al suolo e infilarsi nei negozi e magazzini di rue Dessalines e delle altre vie del centro attorno al Palais national schiacciato su se stesso. Entra uno, altri lo seguono, prendono biscotti, pannolini, vestiti, bibite, cavi elettrici, quello che trovano. Saccheggiatori? In senso proprio lo sono. Ma non si tratta di bande organizzate, non sono le gang che imperavano a Cité Soleil finché due anni fa la Minustah (la missione per la stabilizzazione dell'Onu ad Haiti) non gli ha fatto la guerra, cacciandole e uccidendo o incarcerando i capi, scappati ora che la prigione è crollata. Questi sono solo dei disperati. I vigilantes, assoldati dai proprietari dei magazzini, li prendono facilmente. Li vedi, qualche minuto dopo, trascinati via in tutta fretta e caricati sul cassone di un pick-up, le mani legate davanti o dietro la schiena, i volti imbiancati dalla polvere. Vanno a morire, e lo sanno, glielo leggi in volto: neanche ci sono più galere, li finiranno con un colpo di pistola. "Rubano. A quel punto puoi fargli qualunque cosa, è il sistema haitiano", conferma Jean Louis Oscar, uno dei pochi poliziotti che dovrebbero difendere quel che resta del palazzo presidenziale. In un caso documentato è stata la polizia a uccidere, subito, i ladri, come succedeva anche prima lontano dagli occhi della stampa internazionale. Ora li massacrano di calci ma almeno, per le testimonianze dirette che abbiamo, non li portano più via né li giustiziano sul posto.

"Ha mai visto una catastrofe di queste dimensioni in cui non ci siano problemi di sicurezza?", ha risposto, quando gli abbiamo posto la questione di chi possa gestire un'emergenza del genere, il presidente René Préval (l'intervista video con sottotitoli è sul sito www.espressonline.it). Ma è palese che lo Stato haitiano non può garantire alcunché: "Le sue strutture e infrastrutture erano già deboli prima del terremoto, esito di cinquant'anni di vicende di questo Paese", risponde il canadese Edmond Mulet, nuovo capo della missione Minustah, che ha sostituito il tunisino Hedi Annabi perito sotto le macerie del quartier generale (anche l'intervista video a Mulet è sul nostro sito Web). "E adesso cosa si può chiedere a una Pnh, la polizia nazionale, con la maggior parte dei commissariati distrutti e non più del 40 per cento degli agenti operativi? Bisogna dirigere e ricostruire, e tocca a noi farlo: la Minustah è qui proprio con il compito di garantire sicurezza e stabilità, in coordinazione con il capo della polizia e l'ufficio del Presidente". Non da ora ma dal 2004, quando l'ex-liberatore poi dittatore Jean-Bertrand Aristide, prete salesiano, venne costretto all'esilio in Sudafrica.

Ben più della sicurezza (Mulet parla di "casi comunque isolati di saccheggio", e non a torto bolla di "irresponsabile" ogni descrizione di Port-au-Prince come luogo dove a colpi di pistola e machete spadroneggiano le bande criminali), il problema drammatico e immediato è come gestire l'emergenza umanitaria e distribuire in fretta gli aiuti. Che arrivano in gran quantità, da tutto il mondo, in una mobilitazione con pochi eguali in passato: ma quando giri nelle tendopoli, nella piazza del Palais National, accanto all'aeroporto, giù a Carrefour alla base navale e altrove, l'unica cosa che vedi distribuire, da ong e Minustah, è l'acqua, con la gente che si accalca, in mano taniche e bidoni. E tutti ti ripetono: "Cibo? Nessuno ce ne ha dato, finora. Né altri generi. Ci arrangiamo con quel poco che abbiamo, chi ha divide, riso, banane e pasta li compriamo per strada".

Fanno da soli. Si mettono insieme spontaneamente. Per restare o per andarsene in piccoli gruppi nei villaggi sui monti: sanno che se piove altissimo è il rischio di epidemie di tifo, colera, meningite. Non inventano comitati, non fanno richieste: non sono abituati perché nessuna autorità le ha mai prese in considerazione, qua i voti si comprano diversamente. Le tecniche di sopravvivenza minuta sono infinite. Al Chioske Oxide Jeanty, un parco con colonnato dove nelle feste nazionali le bande suonano l'inno e le musiche tradizionali e dove ora tra gli sfollati trovi da comprare la birra Prestige e le sigarette Comme il faut di produzione locale, una luce nel buio e il rumore di un generatore ti segnalano dove ricaricare i cellulari per 15 gourdes, mezzo dollaro. Ovunque si presume di incontrare stranieri, sulla strada dell'aeroporto o in faccia al quartier generale Minustah o allo storico albergo Oloffson tutto in legno, prediletto da Graham Greene e John Barrymore, si accalcano senza confusione persone che cercano un lavoro qualsiasi: sconosciuti stendono su foglietti liste di nomi e numeri di cellulari, e fatichi a spiegare che non sei tu la persona a cui consegnarle. È un modo di sopravvivere, nient'affatto secondario, anche la cura che madri e nonne e sorelle mettono nel rifare le treccine alle ragazze, sui marciapiedi accanto ai quali sfreccia nel traffico l'automezzo dei pompieri belgi tutti in rosso e in piedi come in Fahrenheit 451 di Truffaut e, a forte velocità, il camion bianco della spazzatura che trasporta cadaveri, a clacson spianato perché l'odore dolciastro è insostenibile anche per pochi secondi.

Saputo dell'arrivo degli americani, una mano ha scritto sulle macerie di una casa nel sobborgo di Nazon, uno dei più disastrati, il cartello: 'Welcome the US Marine, we need some help, dead bodies inside'. Cadaveri qui: una freccia indica il punto dove scavare. Ma l'annuncio di Barack Obama che gli Stati Uniti stanno montando per Haiti una gigantesca operazione di soccorso, con il dispiegamento di 10 mila militari tra marines, divisioni aerotrasportate, genio e quant'altro, non ha generato solo enormi speranze: non sfugge infatti a nessuno che un tale impiego di forze è l'occasione per gli States di chiudere la partita, nei Caraibi loro cortile di casa, con l'asse Chávez-Castro, che da due anni persegue una politica di seduzione su René Préval, il primo vendendogli petrolio con pagamenti a 30 anni, il secondo inviando gratis a Haiti medici e strutture ospedaliere. Dovrete scegliere, chiediamo al presidente. "Dovremo sommare", ammicca benevolo. Intanto però venerdì 15, terzo giorno dal sisma, un primo nucleo di marines ha preso il controllo del porto e dell'aeroporto (in seguito anche del palazzo presidenziale), provocando in poche ore proteste francesi e, ufficiosamente, anche italiane per la priorità data all'arrivo dei voli Usa rispetto a tutti gli altri: "Gli americani", critica un grande industriale senza esporsi perché è con loro che faceva e farà business, "hanno i loro moduli standard, Iraq o Afghanistan o Haiti è lo stesso. Ma qui non funziona così. Il porto è inagibile, e l'aeroporto lo gestiscono con procedure assurde". Domenica 17, all'ospedale centrale di Port-au-Prince, sono arrivati i primi 25 uomini della 25 Airborne division, al comando del maggiore Paul Schillaci: "Siamo in maggioranza medici e tecnici, aiutiamo a riparare attrezzature e logistica come a spostare i feriti", ci spiega in tono minore. Discreta, in questa fase, anche la loro presenza nelle strade: gli 'humvee' stanno in coda, sul tetto basso il telone mimetico buono forse per i passi afghani ma di cui sfugge l'utilità qua dove al massimo ti devi riparare dal sole, che picchia sui 30 gradi. Con la Minustah i rapporti non devono essere idilliaci, se Edmond Mulet, capo missione Onu, precisa subito che "in 10 mila verranno qui a rotazione, ma sul terreno gli americani non saranno più di 3.200; noi siamo settemila, più altri duemila militari e 1200 poliziotti in arrivo", e continua elencando le azioni in corso, dal completamento della raccolta cadaveri fino all'invio di uomini Minustah nelle banche perché possano riaprire e far ripartire i commerci e l'economia.

"Ben vengano gli Stati Uniti", dicono forte Jean-Jacques René e Joseph Rinald, manager e ingegnere entrambi senza lavoro, "sono gli unici che possono trasformare questa devastazione in occasione di rinascita: come già nel 1915 (occupazione americana), nel '94 (Aristide riportato al potere da Clinton), nel 2004 (Aristide cacciato da Bush)": date non precisamente di buon auspicio, visti gli esiti. "Washington deve ribaltare le sue alleanze a Haiti, abbandonare questa classe politica corrotta, rompere con 'le 11 famiglie', l'élite economica che ha in mano il vero potere, altrimenti non c'è speranza", attacca Richard Morse, il più noto musicista dell'isola e padrone dell'Oloffson. "Meglio le Nazioni Unite, almeno tutto il mondo sarà coinvolto", chiosa la sera in piazza Jeanty il trentacinquenne Yves Guyard Tanger, docente di letteratura: "Ma è inutile alimentare illusioni fallaci. Haiti non rinascerà mai più".

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