A Karachi è una calda serata di novembre. Dietro le quinte dell'esclusivo centro ricreativo del ministero della Difesa sulla spiaggia del Mar Arabico, a mezz'ora dal centro, la top model Nadia Hussein sta ritoccando il suo rossetto e gli stilisti infilando l'ultima spilla da balia per la sfilata di moda.
Nello stesso istante, nel cuore della metropoli, le guardie del dipartimento di investigazione criminale sono assalite dagli spari di una decina di terroristi a bordo di due camionette imbottite di esplosivo. Vicino al mare si alza il sipario e i cantanti Shahzad Roy e Hadiqa Kiyani aprono la collezione di Asifa and Nabeel. In centro i terroristi sunniti di Lashkar-i-Jhangvi sfondano il cancello d'ingresso e con mille chili di esplosivo polverizzano gli edifici della polizia e sventrano le palazzine di centinaia di famiglie. Da una parte scrosciano gli applausi, dall'altra le grida di dolore ammutoliscono il frastuono dei clacson.
Guerra e lusso: questo è il doppio volto della quotidianità in Pakistan. "Questa non è la nostra guerra, ci è imposta", spiega durante il ricevimento nella sua villa subito dopo la sfilata Rehan Saigol: "Ma la vita continua e la gente deve trovare il modo di guadagnare e di mangiare".
In un Paese in cui il settore tessile compone il 60 per cento delle esportazioni e oltre un terzo del Pil, le sfilate di moda organizzate da due diverse associazioni di Lahore e di Karachi sono l'occasione per celebrare la tradizione artigianale del Paese ed esplorare nuove vie di reddito. Non è facile. Un terzo dei 180 milioni di pachistani vive al di sotto della soglia di povertà, e gli altri due terzi, con l'eccezione di un milione di ultra ricchi, non solo non potrà mai permettersi un abito firmato da un designer pakistano (prezzo medio, 200 euro), ma non ha nessuna idea di cosa voglia dire la parola moda al di fuori di shalwar kamiiz, l'abito tradizionale, composto da ampi pantaloni sotto una lunga camicia.
Così alcuni giovani rampolli delle famiglie bene si sono lanciati nel design. "Perché non sfruttare quello che la nostra gente sa fare da secoli e trasformarlo in qualcosa di moderno?" spiega Kamiar Rokni. Certo, come clienti principali hanno il giro allargato di amici, e il fulcro delle vendite è ancora dato dai tradizionali abiti da sposa. Ma qualcosa si sta muovendo, e c'è chi non disdegna di strizzare l'occhio ai consumatori occidentali. "Ho disegnato per la prima volta una collezione che può piacere alle donne d'Occidente per potere vendere anche all'estero", spiega Sahar Atif, la creatrice del marchio Saair: "Sono diventata designer per dare lavoro alle donne dei villaggi". In un Paese dove il due per cento della popolazione detiene tre quarti della ricchezza, quello che è un lusso di pochi offre posti di lavoro a chi non avrebbe altra opportunità. "A ogni milione di dollari di esportazioni corrisponde un milione di persone in grado di sfamarsi", spiega Tariq Puri, il capo dell'Autorità pakistana per lo sviluppo del commercio.
Alcuni compratori europei, indiani e arabi hanno cominciato a prendere posto ai lati della passerella. "Ci sono molti spunti interessanti", spiega Sonja Noel, una buyer belga: "Soprattutto adesso che il tessile in Europa è in declino, il Pakistan, con la sua tradizione e il bassissimo costo del lavoro, ha un ottimo potenziale". Talebani a parte. O forse no. Tra gli stilisti più acclamati dell'evento c'era Mohsin, ventenne appena uscito dalla scuola di Lahore, che ha vestito le modelle prima in lunghi chador neri e poi con giacche di velluto marrone che terminano in sacchi colorati, modellati su quelli di sabbia dei posti di blocco. "Sono il figlio della seconda moglie di un imam di Quetta", il quartier generale dei seguaci del mullah Omar, "e voglio diventare uno stilista di successo".