Avete presente quello che è stato fatto al Tibet, cioè l'azzeramento dell'identità di un popolo? Ora l'operazione si ripete con la minoranza d'origine turca dello Xinjiang. Che l'anno scorso si è ribellata

Il poliziotto arriva strillando, in un vicolo della vecchia Kashgar. "State violando la legge", grida mentre camminiamo per i vicoli di questa straordinaria città sulla Via della Seta con Ahmed, un giovane agente di viaggio locale che incautamente ha accettato di accompagnarci. "State conducendo un'attività illegale", insiste. Non è vero. Cerchiamo solo informazioni sulle demolizioni in corso nell'antico bazar. Ma da qualche mese a Kashgar la legge, come molte altre cose, è sospesa. Tutta la regione della quale fa parte, la Regione autonoma del Xinjiang nel nord-ovest della Cina, è tagliata fuori dal resto del Paese, e dal mondo. L'isolamento è stato totale per dieci mesi e solo a metà maggio è iniziata una graduale restaurazione delle comunicazioni.

Tutto è iniziato il 5 luglio 2009 ad Urumqi, la capitale del Xinjiang, quando bande di uiguri, la popolazione turcomanna e musulmana originaria di queste zone, hanno attaccato gli immigrati cinesi con bastoni, coltelli, e pietre. Nei giorni seguenti un massiccio schieramento di polizia ed esercito non è riuscito a contenere la reazione dei cinesi. Risultato: secondo il governo almeno 197 persone (in maggioranza cinesi) hanno perso la vita, mentre i gruppi di uiguri in esilio affermano che le vittime sono state molte di più, e in maggioranza uiguri. Da allora per dieci mesi il Xinjiang è stato completamente isolato. Internet è stata bloccata. Non è stato possibile inviare sms fuori dalla Cina. Rispondiamo al poliziotto alzando la voce abbastanza da coprire il rumore dei motorini e i belati delle pecore che i locali vendono e comprano in mezzo alla strada. Alla fine si arrende all'evidenza: una legge del 2007 consente ai giornalisti stranieri accreditati di viaggiare liberamente per tutta la Cina, esclusa la Regione autonoma del Tibet e di intervistare chi vogliono. Così possiamo proseguire nella nostra ricognizione accompagnati da Ahmed, al quale è stato ingiunto di seguirci e di riferire i nostri movimenti. "Dal 5 luglio", racconta un giovane mentre camminiamo tra le rovine di un palazzo, "sono bloccate anche le demolizioni, c'era troppa tensione e probabilmente temevano che scoppiassero incidenti". Già, perché la vecchia Kashgar, definita dallo storico dell'architettura George Michell "l'esempio meglio conservato in tutta l'Asia centrale di una tradizionale città islamica", è condannata a morte.

La decisione di radere al suolo il bazar è stata annunciata la scorsa primavera. Il tradizionale mercato del bestiame è già stato spostato fuori città ma il luogo ha mantenuto il suo spirito. Le vecchie case di paglia e fango si susseguono l'una all'altra in un interminabile labirinto di stradine e di porte decorate di legno di pioppo. Nelle centinaia di negozietti che si affacciano sulle strade i commercianti reclamizzano con alte grida i loro prodotti - vasi di rame, statue di legno intagliato, pane appena sfornato, scimitarre con i manici colorati, tradizionali copricapo per la preghiera - mentre le donne con i pesanti veli scuri discutono animatamente con le loro figlie in tailleur e stivali e il muezzin chiama alla preghiera da una vicina moschea.

I vecchi e caratteristici edifici, secondo il governo cinese, non reggerebbero a un terremoto, e Kashgar si trova in una zona sismica. Di qui la necessità di un intervento radicale. Gli uiguri in esilio affermano invece che si tratta di un modo per colpire al cuore la cultura uigura, della quale Kashgar è la indiscussa capitale. Le 49 mila famiglie che ancora vivono nei bazar saranno disperse in nuovi quartieri costruiti alla periferia della città, distanti tra di loro e mischiate agli immigrati cinesi. Per ora sono stati demoliti solo due isolati, due enormi cantieri che ora compaiono improvvisamente, abbandonati, tra i vicoli della città vecchia. Gli abitanti sono stati trasferiti in periferia, in un quartiere fatto di case a schiera costruite recentemente ma che già sembrano vecchie. Quelli che sono rimasti mostrano con orgoglio le vecchie case, spesso tirate su da un nonno o da un bisnonno. Al centro hanno un piccolo cortile, al pianoterra la cucina e una grande sala dove si fanno accomodare gli ospiti nei giorni di festa, mentre le stanze da letto si trovano al primo piano. "Non sappiamo niente", affermano, "ci hanno detto solo che le case verranno demolite e che in cambio avremo un appartamento moderno".

La grande piazza sulla quale sorge la moschea di Id-Kah, la più vecchia del Xinjiang, si riempie di gente nei giorni di festa e nelle sere d'estate. Pochi guardano l'enorme schermo televisivo sistemato ad una delle estremità, che trasmette a getto continuo i programmi della televisione locale, soprattutto telegiornali che parlano dei progetti di sviluppo o trasmettono film sulla "guerra di liberazione'' contro i giapponesi, mentre la maggior parte dei cittadini preferisce comprarsi un kebab o della frutta fresca in una
delle bancarelle o farsi fotografare su uno dei cavalli o dei cammelli che stazionano sulla piazza. Anche i bambini restano in giro fino a tarda sera, perché tutta la vita, gli orari delle scuole e degli uffici, per esempio, è regolata secondo l'ora del Xinjiang, che è due ore indietro rispetto all'ora di Pechino che il governo impone per dimostrare l'unità della nazione.
Per il resto della Cina, il Xinjiang è lontano (da Pechino a Kashgar ci vogliono sei ore di aereo) e remoto. Un posto selvaggio, dove nel corso dei decenni passati milioni di cinesi poveri hanno cercato fortuna sotto la protezione del Xinjiang Production and Costruction Corps (Bing Tuan in cinese), un organismo misto militare e civile probabilmente unico al mondo, che gestisce società di produzione ed intere città e che è quotato alla Borsa di Shanghai. Oggi la maggioranza dei circa 20 milioni di abitanti del Xinjiang sono cinesi (gli uiguri sono 9 milioni). Recentemente Pechino ha sostituito Wang Lequan, il 65enne segretario regionale del Partito comunista che ha governato per 15anni il Xinjiang con poteri poco meno che assoluti, col più giovane (57 anni) e dinamico Zhang Chunxian. In una recente riunione del Comitato Centrale il presidente Hu Jintao ed il premier Wen Jiabao hanno promesso maggiori investimenti e una più equa distribuzione tra la regione ed il centro dei profitti derivanti dallo sfruttamento delle risorse naturali del Xinjiang. Finora ha prevalso la linea dura: almeno 26 persone (tutte con nomi uiguri meno una) sono state condannate a morte, e almeno nove di queste sentenze sono già state eseguite. Centinaia di anni di prigione sono stati inflitti agli altri imputati processati per le violenze (198 secondo il governo locale).

Pechino denuncia il rischio del terrorismo islamico rappresentato nel Xinjinag dal Movimento islamico del Turkestan Orientale (il nome con il quale i nazionalisti uiguri indicano la regione), ma per gli esuli uiguri il pericolo viene usato per giustificare una politica di colonizzazione. Il Xinjiang è un territorio enorme, che occupa un sesto della superficie della Cina e va dal deserto del Taklamakan alle montagne del Kunlun e del Pamir. È ricco di materiali preziosi come petrolio, carbone, gas naturale e uranio e si trova in una posizione geopolitica cruciale, ai confini con Russia, Mongolia, Kazakhstan, Kirghizistan, Tajikistan, Afghanistan, Pakistan e India. Forse è per questo che la Cina continua a sostenere che la sua politica nella regione è "giusta", nonostante le violenze dell' anno scorso. E che la vecchia Kashgar è destinata a scomparire.

Tag
LEGGI ANCHE

L'E COMMUNITY

Entra nella nostra community Whatsapp

L'edicola

Siamo tutti complici - Cosa c'è nel nuovo numero dell'Espresso