Gheddafi bombarda la capitale della Resistenza. Dove intanto però ci si prepara a costruire il nuovo Stato. Il reportage della nostra inviata

Bengasi, assedio e sogni

A Bengasi non si lavora solo per cacciare il tiranno ma si sta anche creando il nuovo volto della Libia. Nei corridoi e nelle aule della palazzina del tribunale i "topi" e gli "scarafaggi", come li ha chiamati Muammar Gheddafi, stanno provando a trasformarsi in cittadini. Per farlo dovranno liberare anche Tripoli, decidere che tipo di Repubblica diventare, redigere una Costituzione condivisa dalla maggioranza dei sei milioni di cittadini e stabilire le qualità morali e professionali che i nuovi leader dovranno possedere per essere scelti con libere elezioni. Nel farlo sarà imperativo riuscire a superare le divergenze tra clan e grandi famiglie che costituiscono l'unico tessuto sociale relativamente stabile in un territorio sottoposto da secoli alla dominazione di stranieri o tiranni. Se dovessero fallire, il rischio è la lacerazione del territorio in mini califfati nei cui interstizi potrebbero trovare rifugio gli estremisti islamici.

Per il momento entusiasmo e dedizione verso il "progetto-nazione" non mancano. "Non ho mai sperato né sognato di trovarmi in questa posizione", spiega seduto su una panca di un'aula del tribunale, occhi chiari su barba bianca ben curata, Sal El Ghazal, il capo dei 14 uomini che formano il Consiglio cittadino di Bengasi, il nucleo di potere che ha preso in mano la gestione della città e sta aiutando anche nel coordinamento dei consigli degli altri centri liberati: "Ho settant'anni e mi comporto come se ne avessi trenta. La mia vita è cominciata daccapo". Mentre parla un giovane vestito in abiti tradizionali, la shanna, il cappello di lana rossa, calcata in testa e la barba nera a toccargli il petto, si avvicina e chiede udienza. È stato inviato dallo sceicco del clan Al-Awagir a offrire sostegno al consiglio di Bengasi.

In cambio non chiede una quota del potere ed El Ghazal, ex militare spedito per anni in carcere e più tardi diventato un piccolo costruttore edile, sorride. "Non bisogna mai smettere di sperare", aggiunge. A tradurre le sue parole ha chiamato Essam Gheriani, un manager libico che per due decenni ha vissuto negli Stati Uniti e adesso è il portavoce del nuovo governo per la stampa estera. La moglie di Gheriani, Salwa Bougaigis, che ha studiato anche lei in Inghilterra e negli Stati Uniti e non porta l'hijab, è un avvocato divenuto membro del Consiglio rivoluzionario. La sorella di Salwa, Imam, di professione faceva invece l'ortodontista ma ora confessa che il suo sogno è la politica. "Voglio partecipare alla ricostruzione del Paese", spiega mentre le brillano gli occhi sotto un caschetto di capelli sale e pepe. Ed è proprio in questo incontro di saggezza antica e urgenze moderne, di elementi occidentali e arabi, di leggi ataviche e imperativi imposti dalla globalizzazione, la chiave per trovare i personaggi e le conoscenze che permetteranno di costruire la nuova Libia, partendo da zero o poco più.

Gheddafi ha consapevolmente depredato il Paese di ogni struttura statale e capacità professionale. Ha creato una generazione di ragazzi apatici e poco istruiti, che si sono accontentati di vivere solo grazie ai sussidi. "Come vendetta dell'attacco americano contro la Libia nel 1986 Gheddafi ha impedito l'insegnamento dell'inglese a scuola, togliendo ai ragazzi uno strumento importante per capire il mondo. Per evitare di creare qualsiasi struttura che un giorno potesse sostituirlo ha costruito un esercito nazionale debole, con poche armi, composto da generali fedeli solo a lui", spiega un noto imprenditore della Cirenaica che, ancora adesso, non vuole essere riconosciuto per paura della vendetta del regime: "Anche i suoi ministri erano uomini incompetenti ai quali eravamo noi imprenditori a dovere spiegare cosa fare". Dopo avere tentato senza successo negli anni Settanta di smantellare anche il sistema tribale, Gheddafi ha cominciato dagli anni Ottanta a includere i capi dei clan in un Consiglio nazionale che dava loro l'illusione del potere.

In realtà era il dittatore a controllare tutte le tribù alternando il bastone alla carota. "Ha giocato con i capi dei clan come un marito fa con le sue mogli, sfruttando rancori e gelosie", spiega Idris Elsharif, un assistente di Scienze politiche all'Università Garyounis di Bengasi. Adesso "nessuno dovrà essere al di sopra della Costituzione", ribadisce Mohammed Ismail Tajuri, lo sceicco del clan Tawajir che prende il nome dalla cittadina di origine, poco distante da Tripoli. Tajuri, vestito nei suoi abiti tradizionali come tutti gli sceicchi o i loro emissari che in questi giorni vengono a Bengasi per partecipare alle decisioni sul futuro del Paese, tiene a spiegare il motivo dell'intervento dei capi tribali. "La rivoluzione è stata opera dei giovani che hanno sfruttato le moderne tecnologie per coordinarsi, ma a differenza che in Egitto e in Tunisia qui non c'era nessuno che li potesse consigliare sul da farsi. Non abbiamo un esercito forte. Non abbiamo una classe dirigente. Per questo siamo intervenuti noi: per aiutarli ad avere successo". In Libia i clan (ce ne sono decine di cui una ventina davvero rilevanti) hanno un ruolo sociale fondamentale, ma adesso, spiega Tajuri, "è il momento di dare alla nazione una Costituzione e un sistema legale che sia al di sopra delle tribù. Se avremo successo i clan potranno lentamente dissolversi".

Ad affiancare i grandi vecchi ci sono migliaia di libici che avevano lasciato il Paese in cerca di un'istruzione e una vita migliore e che negli ultimi tre-quattro anni, grazie alla relativa apertura economica del regime, sono rientrati in patria. Il ruolo di businessman e di intellettuali cresciuti all'estero è stato cruciale: hanno portato linfa vitale ad una popolazione ormai stanca di un regime anacronistico. Si sono scontrati nella vita di tutti i giorni con gli abusi e le ingiustizie. Hanno stretto legami solidi con imprenditori e medici locali, trasmettendo anche ai loro figli l'urgenza di un cambiamento. "Non è possibile che un Paese ricco come il nostro non abbia strade e abitazioni decenti per tutta la popolazione, e che la corruzione e la collusione con il regime siano le uniche regole del business", spiega Gheddafi Muhssen Waais, proprietario di un'impresa di costruzioni in joint venture con l'italiana Nova Carel.

Nella rivoluzione ogni categoria professionale sembra avere un compito preciso. Gli studenti, quei ragazzi cresciuti guardando Al Jazeera, hanno agito da soldati. In migliaia sono morti pur di raggiungere l'obiettivo, dimostrando una determinazione che ha colto tutti di sorpresa. "La vedi questa ruspa?", dice Ahmed, l'ingegnere trentenne che fin dal primo giorno si è occupato di inviare le immagini del massacro ad Al Jazeera: "Ci sono voluti sette uomini per portarla contro la recinzione di cemento intorno alla caserma di Gheddafi. Uno moriva colpito dai cecchini, e un altro saliva a bordo. Così, metro dopo metro, fino all'obiettivo". Gli avvocati, i professori e una parte della classe imprenditoriale, uomini e donne di età compresa tra i trenta e i cinquant'anni, stanno gettando le basi del nuovo Stato. Un'altra parte dei manager si occupa invece di tenere in vita l'economia del territorio, continuando le loro attività e finanziando le necessità del nuovo governo. I poliziotti stanno tornando in servizio e i militari hanno cominciato ad addestrare reclute.

Contemporaneamente, si cercano i leader di domani. Ma non è facile, con la parte occidentale del Paese ancora sotto assedio e una serie di clan indecisi se schierarsi o meno coi ribelli. Il clan più grande, con oltre un milione di persone, quello dei Warfalla, in Tripolitania, è rimasto per il momento neutrale. Gheddafi ha offerto loro due miliardi di dinari (poco più di un miliardo di euro) e 150 mila dinari ad ogni membro per non unirsi alla rivoluzione. A Kofra, nel sud, lo sceicco ha accettato i 7 milioni offertigli in contanti, ma poi ha annunciato che il clan stava con i ribelli. E con gli insorti è anche il clan dei Magharia, guidato da Abdel Salam Jallud, ex braccio destro di Gheddafi, oggi agli arresti domiciliari, e uno degli uomini che qualcuno indica tra i prossimi leader per la sua fama di uomo forte ma onesto.

Nel 1993 il suo clan appoggiò il fallito tentativo dei Warfalla di eliminare Gheddafi, e da allora ne paga le conseguenze. Rinchiusi in casa in attesa del momento giusto per esporsi ci sono anche l'ex ministro degli Interni Fattah Younis e l'ex ministro della Giustizia Mustafa Abdel Jalil, l'uomo che ha annunciato ad Al Jazeera (smentito però dal comitato nazionale che tiene segreti i nomi del nuovo esecutivo) di essere il leader del governo di transizione. Per il momento non esistono certezze.

Nemmeno sulla forma di Stato. Nonostante ci sia consenso sulla formazione di una Repubblica islamica moderata, visto che la popolazione libica è composta integralmente da sunniti, Jalil ha spiegato che la creazione di uno Stato non confessionale non è esclusa. Ma su alcuni punti sono tutti d'accordo: la Libia ha bisogno di una Costituzione, di un Parlamento e di libere elezioni che restituiscano ai cittadini il controllo sulla propria vita.

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