Una Nazionale, un campionato vero, ma anche nuove strutture per far giocare i bambini dei campi profughi. Così, grazie al pallone, in Cisgiordania e Gaza si prova a dare un calcio al passato

E se ci provassimo col calcio? Fallite o quasi tutte le altre strade, qualcuno si è messo in testa l'idea meravigliosa di mettere un pallone ai piedi dei bambini invece che un mitra nelle loro mani. E di dare così un calcio alla guerra utilizzando il pallone come potente veicolo massmediatico per propagandare un sogno: quello di uno Stato palestinese. Lo sport, vecchio trucco ma sempre nuovo, al servizio della causa per provocare consenso e simpatia.

Grazie a un progetto che riguarda i ragazzi, certo, ma che ha anche bisogno di star (in sedicesimo), un campionato professionistico, e una Nazionale che si sta giocando la possibilità di accedere ai gironi di qualificazione dei prossimi mondiali in Brasile. L'idea risale a tre anni fa, ha avuto bisogno di una non facile semina che sta dando solo adesso i primi frutti, ha il convinto sostegno della Fifa, è accompagnata dall'aiuto di alcune federazioni (tra cui quella italiana), ma non avrebbe mai visto la luce se per primi non ci avessero creduto i politici. Compreso il presidente dell'Autorità nazionale palestinese Abu Mazen che, incontrando di recente Lilian Thuram, l'indimenticato campione francese coinvolto nella promozione del calcio a queste turbolente latitudini, ha dichiarato: "Non solo economia e politica, dobbiamo parlare anche di sport". Sottinteso: alla Palestina serve soprattutto per un deciso cambio d'immagine.

Non a caso, tre anni fa appunto, nell'Anno zero del calcio palestinese, fu scelto per guidare il progetto uno dei loro personaggi più rappresentativi, quel Jibril Rajoub, 58 anni, che ne ha passati 18 nelle carceri israeliane, è stato il responsabile dei servizi di sicurezza di Yasser Arafat, ed è chiacchierato come possibile successore di Abu Mazen. Un uomo di tanto spessore, oltre a continuare a occuparsi di politica in Fatah, ha sommato le cariche di presidente della Federcalcio e del Comitato olimpico.

Nel duplice ruolo di uomo di potere e, ora, di sport, nel suo ufficio di Ramallah racconta questa sua nuova esperienza: "Quando sono stato eletto ho cominciato a studiare un mondo che non conoscevo. E ho capito che ci può essere molto utile. Il calcio ci può aiutare a esportare la nostra causa e dobbiamo educare i giovani con i valori dello sport. Ho capito che è il modo migliore per lottare contro la più lunga occupazione della storia contemporanea. Attraverso lo sport possiamo gridare: basta guerre e sofferenze per la Palestina". Non si sarebbero fatti i progressi che ci sono stati se a un entusiasmo fecondo ma ingenuo non fosse stata affiancata l'esperienza di un professionista. Incarnata da Jérôme Champagne, francese, per 11 anni al fianco di Sepp Blatter alla Fifa e ora assunto a Ramallah con la qualifica di consigliere per lo sviluppo dello sport.

Completamente catturato dal nuovo incarico, Champagne osserva i risultati ottenuti e afferma: "Abbiamo fatto molto, ma c'è ancora tanto da fare e i prossimi progetti riguardano la creazione di una televisione e di altre strutture per i praticanti". Oltre alla ricerca di altri sponsor che affianchino la compagnia telefonica Jawwal, di proprietà di Munib al Masri, il più ricco uomo d'affari palestinese con casa palladiana sulle colline di Nablus, che garantisce 500 mila dollari l'anno.

Il tanto fatto va così riassunto. Costruzione di scuole calcio ovunque sia possibile e talvolta anche dove sembrerebbe impossibile, come in alcuni tra i più disastrati campi profughi dove vivono 700 mila persone. Un'Accademia del calcio per under 15 e under 18 di cui nello scorso mese di maggio è stata posata la prima pietra. Un campionato femminile a undici giocatrici a cui partecipano sei squadre mentre sino a prima per le ragazze c'era solo il calcio a cinque (e anche nei campi profughi ci sono insegnanti che stimolano le donne a praticare lo sport). In una delle città simbolo dell'occupazione, Hebron, un moderno centro sportivo con piscina nel quartiere povero di Tarek Ben Ziad, finanziato oltre che dalla municipalità, dalla Federazione sportiva e ginnica francese attraverso l'Agenzia per lo sviluppo transalpina. Infine, il fiore all'occhiello, lo stadio Faisal al-Husseini, spalti con 13 mila posti ad Al Ram, non lontano da Gerusalemme, pure inaugurato di recente e dove si esibisce la Nazionale (ora numero 167 della classifica Fifa) che ha da poco eliminato l'Afghanistan in un doppio confronto tra Paesi che sanno cosa sia la guerra, ed ora deve affrontare (23 e 28 luglio) la Thailandia nella sfida che permetterà ai vincenti di entrare nel girone asiatico di qualificazione per i Mondiali del 2014 in Brasile.

Il nuovo stadio (dove si è già esibita il 12 giugno scorso anche la rappresentativa under 20 italiana, la prima squadra occidentale a giocare in Cisgiordania) oltre che ospitare gli allenamenti e le partite della Nazionale, è anche utilizzato da diverse squadre che, per carenza di impianti, ne possono usufruire solo per un'ora al giorno e dividendosi in due il terreno. Un reale intralcio alla crescita del livello di gioco che parte da un punto molto basso. Come conferma uno dei tecnici: "Qui schieriamo ancora il libero, per anni non si è giocato a causa dei vari conflitti e non ci sono stati aggiornamenti tecnici". E come conferma il commissario tecnico della Palestina, l'algerino Moussa Bezaz, arrivato nel 2009: "I giocatori non hanno una preparazione che permetta loro di mantenere il ritmo per novanta minuti e non si esercitano sui tiri da lontano".

Quando lo chiamarono alla guida dei "Fidaì" o dei "Fersans" (i soprannomi per i giocatori della Nazionale, che significano rispettivamente "Sacrificati" e "Cavalieri"), Bezaz ricorda di aver risposto: "C'è il calcio il Palestina? Ci devo andare con l'elmetto?". Il calcio c'è e l'elmetto non serve; però sono ancora molti gli ostacoli per poterla definire una squadra normale: "Ci sono calciatori che vengono da Gaza e altri che arrivano dall'estero e che sono bloccati all'ultimo momento. Così devo chiamare più giocatori per ogni ruolo in modo da non trovarmi scoperto. Finora non sono mai riuscito a schierare la formazione tipo". Il presidente del Cio, Jacques Rogge, si è impegnato a parlare con le autorità israeliane affinché rendano agevoli gli spostamenti degli atleti. Ma il problema rimane. Emblematico il caso di Suleiman Obied, 29 anni, centrocampista, nato a Gaza, e che da tre anni non riesce a rientrare per vedere i familiari.

I calciatori più importanti guadagnano uno stipendio tra i 2 e i 4 mila dollari dove il salario medio si aggira sui mille. E partecipano al primo, vero campionato professionistico varato quest'anno, il West Bank Premier League con 12 squadre di cui quattro dei campi profughi e otto città rappresentate. A Gaza c'è un torneo separato per ovvi motivi di mobilità.

Il campionato (assieme alla Nazionale) dovrebbe essere il volano per il decollo definitivo di uno sport già molto amato: le partite più importanti dei campionati europei trasmesse da Al Jazeera provocano adunate di tifosi nei locali in cui vengono trasmesse. Squadre più popolari: il Barcellona e il Real Madrid, la Spagna fa ovviamente tendenza. In attesa che, dalle scuole calcio fresche di vernice, possa uscire domani un campione che porti il nome della Palestina in giro per il mondo. Check-point permettendo.

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