E' stato il difensore della Francia campione del mondo. Oggi Lilian Thuram ha una seconda vita: la lotta ai pregiudizi.  Per questo ha una sua Fondazione e ha scritto un libro sull'orgoglio nero. L'intervista

Arrivai in Francia che avevo nove anni. C'era un cartone animato con due mucche, una bianca e una nera. Quella nera era depressa e stupida. Così a scuola mi chiamavano la Noiraude, il nome della mucca nera. Perché, mi dicevo, la mucca stupida deve essere quella nera?... Un ricordo di quelli che lascia il segno. E il segno lo ha lasciato in Lilian Thuram, calciatore, difensore straordinario della Francia campione del mondo, autore di "Mes étoiles noires", un libro che vende bene, fa discutere e demolisce ogni linguaggio razzista. Perché Thuram, che ha avuto tutto nella sua carriera, non ha mai dimenticato le sue origini e il suo percorso. E ne ha fatto la missione della sua seconda vita.

Dopo l'addio al calcio, è impegnato nella lotta contro il razzismo con la sua Fondazione.
"L'ho creata nel 2008, quando giocavo ancora, a Barcellona. In questo momento stiamo preparando una mostra al museo Quai de Branly di Parigi che aprirà a fine autunno. E poi vado nelle scuole e incontro bambini e ragazzi di ogni età. Forniamo un supporto in Dvd che dà spiegazioni agli studenti e ai professori: uno strumento pedagogico e culturale. Credo nel potere del dialogo".

In concreto?
"Partiamo da un concetto: non si nasce razzisti, lo si diventa. Il razzismo è un linguaggio che va demolito. E per farlo bisogna dare degli strumenti ai ragazzi. Occorre capire che cosa ci porta ad avere pregiudizi: sulla religione, sull'omosessualità, sul rapporto uomo-donna. I bambini non li hanno, siamo noi che glieli forniamo. Il condizionamento comincia da giovanissimi. Pensiamo al rapporto uomo-donna, è l'esempio tipico: da secoli è stabilito che l'uomo è superiore. E il nostro modo di parlare riflette questa convinzione. Del resto, l'idea dell'ugaglianza è molto recente. Le donne in Francia hanno potuto votare solo a partire dal 1944, in Italia dal 1946; in certi mestieri guadagnano meno, nei posti di potere ci sono quasi sempre uomini che hanno paura di perdere la loro posizione e quindi è difficile far cambiare loro idea. Da questo punto di vista è molto interessante la mia esperienza, quando vado a parlare nelle scuole".

Racconti.

"Faccio ai ragazzi la seguente domanda: le donne sono spesso considerate inferiori e di conseguenza discriminate, volete che questa visione delle cose cambi? Che ci sia una parità? Tutta la classe risponde di sì. Una delle ultime volte che ho fatto questo giochino c'erano 14 ragazzini maschi. A quel punto ho detto: "Immaginiamo che avete il potere assoluto. Chi di voi lascia il posto a sette delle vostre compagne?" Solo tre hanno alzato la mano. Uno, non troppo convinto, l'ha sollevata a metà. Quando si tratta di essere protagonisti nel cercare di cambiare le cose, non c'è la stessa convinzione. Perché si è condizionati".

Razzismo, condizionamento, linguaggio e potere vanno a braccetto?

"Certo. Il razzismo è complesso di superiorità dovuto all'ignoranza. Non c'è scambio, ognuno resta sulle sue idee, mantiene il suo linguaggio, è chiuso nelle sue paure. Non bisogna avvicinarsi all'altro, non bisogna mischiarsi. Era il concetto della razza ariana di Hitler. E si va avanti con clichés. La cosa più pericolosa è il razzismo incosciente. Quando chiedo ai ragazzi quante razze esistono, mi rispondono: "Quattro: i bianchi, i neri, i gialli, i rossi". È una risposta sbagliata. Esiste una sola razza, quella umana".

Il peso del passato?
"Enorme. A scuola quando si parla di neri, si parla di schiavitù. E se si studia solo in questi termini, si penserà automaticamente sempre allo stesso modo. Quanti sanno che anche i bianchi hanno conosciuto la schiavitù? E a proposito dell'importanza del linguaggio: la parola "schiavo" deriva da una regione dell'Europa, la Slavonia. Bisogna avere il coraggio di guardare la storia e capire Perché abbiamo messo gli occhiali sbagliati per leggerla".

Il suo libro cerca di ristabilire questa verità?
"Ci sono personaggi di cui si ignora addirittura l'esistenza. Ecco, appunto, i neri non sono stati solo "gli schiavi" o come rispondono a scuola i ragazzi alla mia domanda "quelli che sanno ballare bene e che sono i più forti in atletica leggera". Chi ha mai parlato dei faraoni neri, per esempio? Ho voluto chiamare uno dei miei figli Khephren, come uno dei faraoni dell'antico Egitto, proprio per dimostrare che esiste un modo più vasto di vedere la storia e che la storia del popolo nero non si ferma alla schiavitù. Ci sono stati esploratori, filosofi, scrittori, politici come Dona Beatrice (profetessa congolese del Seicento, ndr.), Aimé Césaire, Frantz Fanon".

Nel calcio, però, se sei forte giochi, al di là del colore della pelle.
"Anche se ti fanno giocare perché sei bravo, non vuole dire che non ci sono i pregiudizi".

Ma il messaggio di uno sportivo è più ascoltato.

"Lo sport non può risolvere tutti i problemi, ma crea legami, attira l'attenzione. Sono convinto che la maggior parte delle persone nel mondo vogliono vivere in pace tra loro. E lo sport può dare un messaggio fondamentale in questo senso. La terra è un battello dove siamo a bordo tutti insieme in mezzo al mare che è l'universo. Non ci sono più differenze: né cinesi, né congolesi, né albanesi, né francesi, né italiani. Ma solo uomini e donne che vogliono dividere delle cose e creare dei legami per andare avanti. Se il battello affonda, si affonda tutti insieme. Lo sport è importante per questo, per creare fraternità, superare le differenze legate alla nazionalità, alla religione e al colore della pelle, alle lingue".

La Federcalcio francese ha evocato la possibilità di mettere quote che limiterebbero al 30 per cento l'accesso di giocatori di colore o arabi nei vivai.

"È assurdo. La cosa che mi fa più male è che non si può accettare di discriminare i bambini di 12 anni. E c'è chi si rifiuta di capire che tutto questo è razzismo".

Crede che l'Italia sia pronta a una Nazionale multietnica come lo fu la Francia del 1998?

"Ci vuole tempo. Ma marocchini, tunisini, albanesi resteranno a vivere nel vostro Paese, e faranno parte dell'Italia".

Mario Balotelli è un simbolo contraddittorio del calcio: a volte è insultato per essere di colore ma nello stesso tempo è criticato per via di certi suoi comportamenti.

"Quando ami una persona e ci litighi, non la insulti per il colore della pelle ma per quello che non va. Se si canta a Balotelli: "Un nero non è italiano", è razzismo. Una persona deve essere giudicata per gli atteggiamenti, non per il colore della pelle. E poi, pensi: i miei figli sono nati in Italia e tifavano Italia. Si sentivano addirittura franco-italiani".

Un altro problema a lei caro è quello delle banlieue. Dal 2005, anno della rivolta, è cambiato qualcosa?

"Anche questo discorso offre una riflessione su tutta la società. Di quale periferia parliamo? Ne esistono tante: quella dei ricchi, quella dei poveri? Nelle banlieue esistono più verità: ma magari si parla solo dei furti, che allontanano dal vero problema. La Francia di oggi è cambiata: c'è un misto di religioni, culture diverso da quello che per esempio c'era nel 18 secolo. I mutamenti creano difficoltà, fanno paura perché manca un linguaggio nuovo per farne fronte".

Recentemente lei è stato in visita in Terra Santa.

"È ancora il problema della paura. C'è un timore, legittimo, di Israele. C'è stato Hitler con il suo concetto di razza superiore e di conseguenza sono stati sterminati sei milioni di ebrei. L'Europa l'ha permesso. Ora gli ebrei non hanno più fiducia nell'Europa. E comunque il razzismo nei loro confronti esiste sempre. Però la cosa migliore per Israele sarebbe di avere vicino uno Stato palestinese. E anche qui lo sport può aiutare. Se, per esempio, si arrivasse a far circolare liberamente gli atleti, si potrebbe arrivare a far circolare liberamente le persone in genere".

È vero che Sarkozy nel 2009 le aveva proposto di entrare nel governo?

"Sì, come ministro della Diversità. Ma non mi interessa".
Dall'11 aprile in Francia è entrata in vigore la legge che proibisce l'utilizzo del velo nei luoghi pubblici. Cosa ne pensa?
"È un enorme passo indietro per il mio Paese il cui motto è Libertà, Fraternità e Uguaglianza. Ma ritorniamo ancora al discorso del linguaggio. Con questa legge si vuole "stigmatizzare" certi comportamenti. Ma non penso che imprimere uno "stigma", un marchio d'infamia, sia il modo migliore per cambiare le idee delle persone. Anzi. È una maniera invece per farle trincerare nella loro identità e nella paura. Un disastro". n

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