A Barcellona cresce la voglia d'indipendenza, mentre la crisi economica si aggrava e il tasso di disoccupazione della Regione supera il 20 per cento. E, per staccarsi da Madrid, si comincia a parlare di referendum

Lei non ne vuole fare una questione decisiva. Lui non può causare tensioni in famiglia. Dunque nel grande giorno, quello del loro matrimonio, che nessuno parli di politica. I due promessi sposi sono sulla spiaggia della Barceloneta e quella che cercano di evitare è una discussione ai tavoli del banchetto nuziale sull'unico tema in voga da queste parti: l'indipendenza della Catalogna, ora non più solo un sogno di molti, ma un vero progetto politico. Se ne discute con garbo. Pro e contro. Sempre con passione, in bilico tra un passato mai davvero passato, se già fervono i preparativi per la celebrazione del trecentesimo anniversario della caduta di Barcellona per mano borbonica nel 1714, e un futuro tutto da costruire.

All'indomani dello straordinario e inatteso successo dell'annuale manifestazione in memoria del fatidico 11 settembre catalano - un milione e mezzo di cittadini in piazza - Artur Mas, il leader di Convergència i Unió (in castigliano Convergencia Y Union), fino a un mese fa il partito di centrodestra della buona borghesia catalana, quella che vive arroccata sulle colline, lontana dal chiasso delle ramblas e dalla decadenza dei vicoli che portano al mare - si è trasformato nel miglior surfista della regione. Forte dell'appoggio assoluto del mentore Jordi Pujol - classe 1930, fondatore di Convergencia, per vent'anni leader della Catalogna, oggi rappresentante leggendario dell'orgoglio catalano - e del figlio Oriol Puriol, segretario del partito, il mite ma solido Mas ha deciso di cavalcare l'onda indipendentista che si è sollevata nella regione ribelle, con l'ambizione di dominarne la direzione, pur non conoscendone la profondità della spinta propulsiva né il punto di approdo.

«Ci siamo resi conto che i catalani sono pronti a reclamare la propria nazione», spiega a "l'Espresso" Francesco Homs, amico di sempre di Mas, considerato dalla stampa catalana l'eminenza grigia del partito: «È come in un divorzio, dopo l'ennesima promessa non mantenuta, la moglie fa le valige, e non importa quanti fiori le porti il marito e quante volte le ripeta che questa volta cambierà. Non tornerà indietro». In questo caso l'ultima promessa ha a che vedere con il "pacto fiscal", un accordo fiscale con il governo centrale più favorevole alla Catalogna - una regione che a differenza dei Paesi Baschi non raccoglie autonomamente le proprie tasse - promesso da Mas durante la campagna elettorale ma rifiutato nettamente a settembre da una Madrid sempre più soffocata dalla crisi economica.

E prima ancora c'era stato il tradimento sul nuovo Statuto, ampliato in senso nazionalista nel 2006 con l'accordo dell'allora premier socialista, approvato dalla popolazione catalana, infine respinto dalla Corte costituzionale nel 2010 dopo il ricorso del partito popolare. Lo spirito indipendentista dei secoli passati non ha mai abbandonato il cuore della Catalogna, che spiritualmente è rimasta una regione occupata dalle forze monarchiche spagnole. Così, insieme alla democrazia, nel 1978 è nata in Spagna anche una difficile mutua sopportazione tra popoli, lingue e tradizioni. Ma, con l'esclusione fino a qualche tempo fa dei Paesi Baschi, il successo economico del Paese ha per trent'anni ammorbidito gli animi e anestetizzato le rivendicazioni nazionaliste.

È stata la crisi a dare fuoco a una miccia che perfino il partito storicamente a favore dell'indipendenza - la Sinistra Repubblicana - considerava disperatamente bagnata. Con un tasso di disoccupazione che si mantiene al di sopra del 20 per cento, un deficit locale intorno al 5, un debito regionale di 40 miliardi di euro e una popolazione giovanile che per la prima volta in tre secoli subisce l'onta dell'emigrazione, i sassolini nelle scarpe dei cittadini sono diventati macigni. La storica mancanza di infrastrutture della regione ha cominciato a fare più male del solito. Perché la Catalogna, cuore dell'economia spagnola, non ha un collegamento ferroviario veloce con Valencia, privilegiato partner commerciale, e nemmeno con la Francia, poco distante, nonostante sia in programma da dieci anni (potrebbe arrivare con l'anno nuovo). Al contrario, Madrid sopporta in perdita collegamenti radiali con ogni angolo del Paese e vorrebbe controllare perfino l'asse ferroviario del Mediterraneo che dovrebbe unire mezza Europa.

Secondo tutti i paesi dell'Unione sarebbe meglio che attraversasse la Costa Brava, ma Madrid chiede che salga invece verso Nord e buchi i Pirenei prima di scendere verso la costa francese. È questa visione madrileno-centrica della Spagna che fa male, soprattutto quando i catalani sentono di essere loro a sovvenzionarla. Si sentono derubati delle proprie risorse, visto che la Spagna non solo raccoglie le loro tasse ma, tra entrate e uscite, a conti fatti, trattiene oltre 16 miliardi di euro del Pil della Catalogna (l'8,4 per cento) per finanziare le altre regioni. Con questi trasferimenti, da terza regione più ricca del Paese (dopo Madrid e le Baleari), la Catalogna diventa ottava. Un'ingiustizia per molti. Che pesa di più ora che le entrate fiscali, con il crollo dell'economia, diminuiscono per tutti e che, dopo due anni di tagli al budget regionale ad opera di Mas, la qualità della vita è in discesa libera. E poi c'è stata la grande umiliazione: la Catalogna è stata costretta a chiedere formalmente il riscatto economico a Madrid: 5 milioni di euro subito, per non fallire.

Proprio la Catalogna, senza cui, come riconosce anche Alicia Sanchez-Camacho, la carismatica leader del Partito popolare, fedele a Madrid ed ex alleata di Mas, la Spagna avrebbe difficoltà a sopravvivere. «Dobbiamo riattivare l'economia a casa nostra e proteggere lo stato sociale», ha tuonato la scorsa settimana Mas di fronte ai militanti entusiasti del suo partito, «ma adesso non ne abbiamo i mezzi. Così dobbiamo accelerare la transizione nazionale». Per questo servono elezioni anticipate il prossimo 25 novembre: occorre contarsi, sapere dov'è l'anima politica della Catalogna. Se ci saranno i numeri, il presidente indirà un referendum sull'indipendenza, nonostante l'opposizione di Madrid, che lo ha definito anticostituzionale. Mas non ha fretta. Si è dato tutti e quattro gli anni di tempo del mandato per indirlo. "Una Catalogna in Europa", è lo slogan da queste parti: gli indipendentisti non vedono contraddizione tra una potenziale frammentazione della Spagna e la costruzione degli Stati Uniti d'Europa.

Mas ha spezzato la dicotomia destra-sinistra, ha perso alleati - dal Partito popolare agli imprenditori catalani che, come in tutto il mondo, votano soprattutto per la stabilità - ma, in tempi di miseria di ideali, ha dato spazio alle illusioni e alla speranza. È diventato il volto della lotta per l'indipendenza, che qui è sentita anche come "lotta per un futuro migliore". Può contare, soprattutto, sull'appoggio del Barcellona calcio, "més que un club", più di un club (come recita lo slogan della squadra), ma una bandiera identitaria che tanto più sventola negli ultimi anni grazie a una sequenza incredibile di vittorie. Il presidente Sandro Rosell ha deciso che la seconda maglia dopo quella storica blaugrana sarà la "senyera", la bandiera catalana a strisce gialle e rosse e ha dichiarato: «Il giorno che la Catalogna deciderà per l'indipendenza, il Barça sarà al suo fianco». Allo stadio, durante le partite, i tifosi già gli hanno fatto eco con cori conseguenti. E dal suo buen retiro di New York, dove sta trascorrendo un anno sabbatico, l'ex allenatore dei tanti trionfi Pep Guardiola ha mandato un videomessaggio ai conterranei: «Qui avete un voto in più per l'indipendenza».

Secondo un sondaggio del quotidiano "La Vanguardia" circa il 55 per cento della popolazione è a favore dell'indipendenza rispetto al 51 per cento rilevato lo scorso maggio dal Centro Studi di Opinione della Catalogna e a una percentuale costantemente al di sotto della metà nei trent'anni precedenti. Ad accorgersi tra i primi che i tempi stavano cambiando è stata un'insegnante liceale di una cittadina del Sud. Lo scorso marzo fonda l'Assemblea nazionale per la Catalogna per promuovere gli ideali indipendentisti. «Non ho ambizioni politiche e chiuderemo l'assemblea una volta raggiunta l'indipendenza», racconta la cinquantenne Carme Forcadell. Una laurea in filosofia, ex-militante del partito della Sinistra repubblicana, racconta di essersi avvicinata alla causa indipendentista tramite la lingua. «Non volevo che finisse come il gaelico e ho capito che perché non accadesse bisognava costruirle attorno un nazione. Abbiamo iniziato a promuovere tanti piccoli referendum sull'indipendenza nei villaggi della Catalogna». Poi il grande corteo della svolta: «Quattro giorni prima abbiamo capito che quest'anno sarebbe stato eccezionale. I bus non bastavano, e non c'erano più bandiere catalane nei negozi. Perfino i cinesi non le avevano».

ha collaborato Cristina Artoni

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