Israele ora vive la rivoluzione araba come una minaccia. E teme che possa nascere un asse tra gli Usa e l'Egitto del Fratello musulmano Morsi
L'attacco a Gaza è stato per Israele soprattutto una reazione alle "primavere arabe". Fra le molte dimensioni della breve operazione militare, la più rilevante riguarda infatti le nuove dinamiche in corso nel mondo arabo-islamico. Ciò che Gerusalemme teme più di ogni altra cosa è l'allineamento fra Stati Uniti e Fratelli musulmani, frutto quasi inevitabile delle rivoluzioni che hanno portato alla caduta dei regimi filo-occidentali in Egitto e in Tunisia. Scatenando l'offensiva contro Hamas, Netanyahu ha mirato alla precaria coppia Obama-Morsi. Una relazione speciale, certamente non dettata da affinità politico-ideologiche, ma tanto più importante in quanto basata su interessi geopolitici. Gli Stati Uniti hanno bisogno di un interlocutore al Cairo quale che sia. L'Egitto necessita degli aiuti americani per riportare in linea di galleggiamento la sua economia e per continuare a contare nel mondo.
Per Israele la forzosa intesa Washington-Cairo è la peggiore costellazione possibile. Anzitutto perché legittima i Fratelli musulmani come interlocutori politici dell'Occidente. In secondo luogo, perché offre all'Egitto dell'inaffidabile Morsi una sponda a Washington. E infine perché prima o poi gli americani potrebbero essere tentati di estendere alla filiale palestinese della Fratellanza (Hamas) il lasciapassare appena rilasciato alla casa madre egiziana.
Su questo sfondo, possiamo stabilire che i bombardamenti di Gaza non sono stati un successo per Israele. Morsi si è eretto a mediatore indispensabile, corteggiato da americani, europei e altre potenze. Solo lui, in quanto leader di un movimento di cui Hamas è filiazione e presidente di uno Stato che è in pace con Israele, poteva disinnescare la miccia. Morsi lo ha fatto, cercando e ottenendo il massimo per sé. Anzitutto, la visibilità mondiale come statista decisivo all'incrocio delle correnti più pericolose della geopolitica mediorientale. Poi, il ruolo di salvatore di Gaza - e di Hamas - da un' «aggressione» israeliana, tanto da permettere al movimento palestinese di celebrare la «vittoria». Infine, ha messo in ombra l'Iran e i suoi sponsor gaziani, a cominciare dalla Jihad islamica, che con il lancio di missili di fabbricazione persiana, spesso contro il volere di Hamas, cercava di far sentire il suo minaccioso peso al confine Sud di Israele.
Infine, Morsi ha voluto stravincere sul fronte interno. Autoproclamandosi dittatore di fatto, almeno per i pochi mesi che dovrebbero separare l'Egitto dalla nuova Costituzione. Con ciò suscitando la reazione violenta dei rivoluzionari della prima ora, defraudati della loro vittoria su Mubarak, dei copti e delle altre opposizioni interne. Vedremo presto se in tal modo Morsi ha tirato troppo la corda, mettendo a rischio anche il suo rapporto con gli Usa - fortemente imbarazzati dalla sua svolta autoritaria - o se avrà avuto ragione di azzardare questa mossa.
Quanto al rapporto con Israele, la questione di Gaza ha fatto riaccendere i riflettori sulla penisola del Sinai. Formalmente egiziana, di fatto terra di nessuno, agitata dalle scorrerie di gruppi terroristici e dei beduini refrattari al controllo dello Stato, il Sinai è il tramite che consente il rifornimento di armi e beni di ogni genere ai palestinesi della Striscia e non solo. Di recente Gerusalemme aveva concesso al Cairo di rafforzarvi i suoi contingenti militari, in modo da recuperare una qualche forma di pressione sui traffici che attraversano la penisola. Risultato: i traffici continuano, mentre militari israeliani ed egiziani non sono mai stati a contatto tanto ravvicinato da quarant'anni. Basterebbe una scintilla per incendiare il Sinai e con esso l'intero Medio Oriente.
Certo, la prima ragione che ha portato Netanyahu a rispondere con la forza alle provocazioni di Hamas resta quella elettorale. Vedremo il 22 gennaio, data prevista per il voto politico in Israele, se il calcolo avrà portato i frutti sperati. In ogni caso, quali che siano le ripercussioni domestiche, Netanyahu ha segnalato al mondo che Israele non è disposto a restare spettatore passivo delle dinamiche che stanno sconvolgendo il Medio Oriente. Sullo sfondo, l'obiettivo strategico rimane l'Iran. Colpendo Hamas, in realtà Israele colpisce quella che considera, a torto o a ragione, una filiale dei mullah e dei pasdaran persiani. A conferma che i fattori dell'equazione mediorientale sono ormai troppi, e troppo complessi, per poter immaginare a breve termine una strategia di pacificazione e stabilizzazione regionale.