Lo scalo di Tel Aviv sta diventando un punto di riferimento internazionale per le misure di sicurezza contro il terrorismo. Ci aspettano lunghe code e controlli serrati. Ma il controllo maniacale dei dettagli riduce molto il rischio

All'aeroporto internazionale “Ben Gurion” di Tel Aviv (Israele) giovedì mattina il direttore generale Shmuel Zakay, appena avuta la notizia che si era inabissato nel Mediterraneo l'aereo egiziano in volo da Parigi al Cairo con 66 persone a bordo, ha convocato una riunione d'emergenza per chiedere ai suoi stretti collaboratori: “Cosa ci insegna questo episodio? Dobbiamo cambiare qualcosa nei nostri sistemi di sicurezza?”. Il sottotesto era: non sappiamo ancora nulla di preciso, ma ha tutta l'aria di un attentato terroristico. La risposta, unanime, è stata: “No, il nostro livello di protezione è sufficiente”. Del resto da tempo, quando c'è un attacco di qualsiasi tipo in qualunque aeroporto del mondo, al “Ben Gurion” sono abituati a simulare l'aggressione così come è avvenuta altrove per capire se lì, eventualmente, sarebbe stata possibile. E ogni volta, compresa la simulazione del 22 marzo di Bruxelles, il verdetto è sempre stato lo stesso: saremmo riusciti a intercettare e neutralizzare il commando prima che entrasse in azione.

Lo scalo di Tel Aviv è esasperante per i viaggiatori: lunghe code, controlli serrati. Ma sta diventando un modello se nel giugno prossimo riceverà i rappresentanti degli aeroporti di trentatré Paesi dei 5 Continenti (Italia compresa) per spiegare come funziona a chi ha una confidenza meno rodata con le formazioni terroristiche in generale e jihadiste in particolare: la conferma che Israele è un prototipo del nostro futuro se la sfida lanciata dal fondamentalismo anche in Europa adesso ci accomuna assai più che in passato.

Shmuel Zakay è un ex generale della brigata di fanteria “Golani”, molto benemerita per le battaglie sostenute in difesa dello stato ebraico e dalla quale arriva anche Zohar Gefen, il direttore della sicurezza. Più in generale tutti i diecimila dipendenti a vario titolo dello scalo sono ex militari. Conditio sine qua non per essere assunti. La “Israel aeroports authority”, la società di gestione, è l'unica responsabile della sicurezza senza interferenze di altri apparati come polizia ed esercito. E questo accentramento di poteri è considerato come una delle chiavi di successo dell'aeroporto più a rischio del mondo e tuttavia tra i più sicuri. Ha più che raddoppiato il numero dei passeggeri negli ultimi dieci anni, da 7 a oltre 15 milioni, gestisce 104.500 tra decolli e atterraggi. E non subisce assalti particolarmente sanguinosi dal 1972 quando furono fanatici giapponesi a violarlo. Nonostante Hamas da Gaza e Hezbollah dal Libano abbiano il sogno di colpirlo per bloccarne l'attività e di conseguenza isolare un Paese che non ha altri sbocchi via aria col resto del mondo.

Qualche mese fa, per la verità, un razzo di Hamas è atterrato a un paio di chilometri dall'aerostazione, costringendo le compagnie americane (e qualche europea) a sospendere momentaneamente i voli. “Ma poi”, spiega Zakay, “abbiamo invitato i responsabili delle compagnie a visitarci e hanno ripreso immediatamente il collegamento”. Perché hanno potuto verificare l'efficacia del sistema “Iron Dome” nell'abbattere i razzi. Sistema peraltro rivelatosi efficace anche durante le ultime guerre d'Israele.

Nessun luogo è sicuro al 100 per cento, dunque nemmeno il Ben Gurion. Però la maniacale attenzione ai dettagli (la stessa che porta allo sfinimento dei passeggeri) riduce di molto il livello di rischio. Due diversi sistemi elettronici di allarme controllano il perimetro esterno e la delicata area di decollo. Nelle due uniche entrate tutte le automobili e tutti i passeggeri sono controllati. Davanti all'ingresso dell'aerostazione ci sono paracarri che bloccano eventuali autobombe, mentre un ulteriore filtro è rappresentato da uomini che vigilano gli ingressi. I cestini dei rifiuti in metallo scaricano verso l'alto gli effetti dell'esplosione se qualcuno vi deponesse una bomba. E nel caso l'accorgimento non fosse sufficiente e l'onda d'urto investisse le vetrate, delle sbarre di ferro speciali attutirebbero i danni.

Anche se non si vedono persone in divisa la hall è presidiata da agenti della sicurezza in grado di intervenire in tempo reale in ogni angolo dello scalo. Qualunque passeggero è sottoposto a un interrogatorio. Breve o lungo dipende dalle risposte. Perché chiedere, invariabilmente, se si hanno delle armi? Pare una domanda stupida, nessun malintenzionato risponderà mai di sì. “Per un duplice motivo. Intanto perché diverse persone in Israele sono soldati o poliziotti che vanno in vacanza, sono abituati a portarsela addosso e magari si sono scordati di lasciarla a casa. L'altro motivo è che i nostri uomini hanno fatto corsi di psicologia e hanno l'occhio allenato nel riconoscere se qualcuno è a disagio nel rispondere. Il linguaggio del corpo è spesso eloquente”.

A seconda del giudizio sull'interrogatorio viene applicato sul passaporto un post-it di diverso colore. Il verde è il più rassicurante. Nei controlli successivi, a seconda del cromatismo, la perquisizione personale o del bagaglio attraverso i soliti scanner sarà più o meno accurata. “Sottoporre le persone e le valigie a più di un check ci ha evitato tanti guai”.

La sfida si rinnova ogni giorno e nessuno si illude sia vinta. I terroristi elaborano progetti sofisticati per eludere ogni sorveglianza e colpire. I manager del Ben Gurion spendono milioni di dollari in tecnologia e per formare il personale ogni anno. I nemici sono vicini. L'aeroporto non ne ha l'aspetto esteriore. Ma è come fosse un'area militare usata dai civili.

Israele ha poco più di sette milioni di abitanti. Ha adattato le misure alla propria taglia. Dunque non è un modello imitabile in modo pappagallesco da Paesi molto più grandi e da aeroporti con un traffico passeggeri molto maggiore. E non è imitabile anche perché in Europa non ci sono Hamas ed Hezbollah sull'uscio. Però si può prendere il meglio, far tesoro della loro esperienza e adattarla. A questo ci obbliga il terrorismo ormai penetrato nelle strade d'Europa.

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