Nel cuore dell'Unione europea c'è un Paese con un governo ultranazionalista che reprime il dissenso, retto da un partito antisemita che 'mette ordine' con la sua milizia. E i movimenti spontanei di opposizione chiedono aiuto

Una svastica sbarrata fatta di candele illumina il marciapiede, mentre a pochi passi un manifestante con il volto nascosto dal passamontagna guida un corteo di cittadini. "Resistete ad Arturo Ui", recita la scritta del cartello che impugna. Fa riferimento all'opera di Bertolt Brecht sull'ascesa di Hitler, è l'appello dell'Ungheria antifascista che, nonostante il gelo, scende per le strade della capitale. L'"Arturo Ui" dei nostri giorni è il primo ministro Viktor Orbàn l'uomo che ha spaccato in due il Paese, lo sta trascinando verso una forma di autoritarismo che assomiglia sempre di più a una dittatura e ha voltato le spalle all'Europa. Silente troppo a lungo, ora però la società civile si ribella, comincia a far sentire la sua voce contro la sospensione di alcune fondamentali regole democratiche e con l'incubo dell'espulsione dal consesso internazionale.

Si moltiplicano le sigle di partiti e movimenti di opposizione. E si susseguono le manifestazioni di protesta sulla Andrassy utca, la via più elegante di Budapest e vicina al cuore del potere. Tra le vetrine con le migliori griffe, sfilano in migliaia e quasi quotidianamente hanno un'occasione buona per esprimere dissenso. È successo, ad esempio, nei giorni scorsi quando è stato nominato il nuovo direttore del Teatro Új Színház. Il prescelto, György Dörner, è un doppiatore al cinema di Mel Gibson. Ma non è stato scelto per meriti artistici, bensì per la nota simpatia politica per l'estrema destra: non a caso aveva indicato come sovrintendente István Csurka, drammaturgo antisemita, prima che questi morisse improvvisamente il 7 febbraio scorso. Il dissenso non è tollerato. E se per contrastarlo non scendono direttamente in campo gli apparati di repressione del regime, lo fanno, al loro posto, gli uomini della Guardia Nazionale ungherese, un corpo paramilitare e filonazista del partito estremista Jobbik che, col suo 17 per cento di consenso, non solo è una stampella del governo di Orbàn, ma rappresenta anche una punta avanzata di quei movimenti populisti e xenofobi che, come un'onda nera, stanno invadendo l'Europa. Attaccano, i ragazzi della Guardia, con grida che ricordano un triste passato. Slogan come "Sporchi ebrei, traditori della patria" accompagnano i loro pestaggi violenti. "E la polizia non interviene", commenta attonito Vilmos Hanti, leader dell'Alleanza dei resistenti e degli antifascisti.

Il governo ha stilato una lista nera di personalità che avrebbero fornito ai media stranieri informazioni diffamatorie per denigrare l'immagine dell'Ungheria. Una lista di proscrizione che rimanda alla biografia di Orban, già a capo della Commissione di controllo degli intellettuali. Con la scusa di difendere la patria, il governo licenzia professori, giornalisti e attori, chiudendo teatri, radio e giornali. "Tutto ricorda la tattica del salame, con cui alla fine degli anni Quaranta i comunisti decimarono "fetta dopo fetta" i propri nemici", spiega Aranka Szavuly, 32 anni, giornalista televisiva che assieme al collega Balasz Nagy-Navarro ha perso il lavoro per aver promosso un sit in con tanto di sciopero della fame fuori dalla sede della tv di Stato. "Volevamo denunciare la manipolazione dell'informazione, ce l'hanno fatta pagare, ma non sono riusciti a farci tacere".

Da un pretesto nasce una scintilla che ben presto si propaga. Fino a scuotere dal torpore un'opinione pubblica che ha visto crescere sotto i propri occhi un'Ungheria impresentabile e diventata maggioranza. Benedek Javor faceva il biologo ambientalista prima di decidere che era tempo di dare una mano al suo Paese. È il leader dei verdi. Dice: "In molti, come me, hanno optato per la piazza perché ormai in Parlamento è impossibile fare opposizione". Tamas Szekely, cofondatore del movimento Szolidaritas, sostiene che l'obiettivo è quello di creare un "ombrello sotto il quale poter far riparare una popolazione impoverita e sfiduciata". Un altro gruppo di recente formazione richiama, fin dalla sigla, la necessità di voltare pagine per entrare in una nuova fase politica. Il suo nome è 4k! dove il numero adombra la necessità di passare alla quarta Repubblica. "Perché la terza", spiega il suo fondatore Andras Istvanffy, "è finita l'1 gennaio con l'entrata in vigore della nuova Costituzione. Siamo i maggiori oppositori del "Viktatore" Orban".

La nuova Costituzione è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Il nome del Paese da "Repubblica d'Ungheria" è diventato, semplicemente "Ungheria", senza riferimenti alla forma di Stato. Un segnale simbolico circa gli intenti del premier. E fosse poi solo una questione simbolica. Con la nuova Carta fondamentale si mina l'indipendenza della Banca centrale, l'autonomia della magistratura e dell'autorità garante della privacy. A nulla sono valse le proteste di Commissione europea, Fondo monetario internazionale e Stati Uniti. Vikor Orban tira dritto e, invece di addolcire la sua politica, la radicalizza. Gli oppositori lanciano l'allarme: "Vuole manipolare l'opinione pubblica e sopprimere il dissenso interno puntando a costruire la Grande Ungheria nazionalista". Impresa che gli poteva sembrare vicina forse due anni fa, nel 2010, quando diventò premier e il suo partito Fidesz era forte del 53 per cento dei consensi ottenuti alle urne. Il sondaggio più recente gli attribuisce adesso non più del 16 per cento a cui vanno sommati i voti (17 per cento) degli alleati di Jobbik. Se ancora il primo ministro può fare la voce grossa è perché i sondaggi sono appunto sondaggi, ma in Parlamento gode di una maggioranza indiscussa. Dovuta al fatto che l'opposizione ufficiale, quella socialista, è scesa ai minimi storici a causa di un clamoroso autogol: venne diffusa una registrazione in cui Ferenc Gyurcsány, l'allora premier, confessava di avere mentito ai cittadini sulle tragiche condizioni economiche del Paese, per vincere le elezioni. Successe nel 2006 ma quell'incidente continua a pesare ancora oggi .

Così, per fare argine, sono cresciuti i movimenti spontanei. Spinti anche dal malcontento diffuso, oltre che per certe scelte estreme, anche dal disastroso andamento dell'economia. Nel programma di Orbàn le leve del potere finanziario, dominato da investitori stranieri, dovevano tornare nelle mani della borghesia cristiana locale: quella con le ville sulle colline di Buda e il Suv. Una categoria agevolata dall'introduzione della "flat tax", per cui i redditi sono tassati con un'aliquota fissa del 16 per cento indipendentemente dalla fascia di reddito (prima l'imposta era del 32 per cento per la fascia di stipendi più alti). Una follia in un Paese sull'orlo della bancarotta, con il più alto livello di indebitamento dell'Est Europa (77,7 per cento del Pil) e la crescita più bassa. Tanto da meritare un declassamento da parte dell'agenzia di rating Moody's dei titoli di Stato a livello "junk bonds": spazzatura. Di conseguenza il fiorino ungherese continua a deprezzarsi. A scapito dei piccoli risparmiatori: circa il 60 per cento dei mutui delle famiglie sono in valuta estera. Spiega László Csaba, ex ministro delle Finanze e professore di economia politica: "Alla débâcle economica si sta sommando una crisi di fiducia sia verso le istituzioni nazionali da parte delle forze economiche, sia verso il modello europeo". Il risultato è la progressiva perdita di punti di riferimento: "E se, come diceva Seneca, un uomo non sa verso quale porto è diretto, nessun vento gli è favorevole". La nave-Ungheria, sballottata dalla tempesta, rischia il naufragio mentre la ciurma ha finalmente cominciato a contestare il comandante.

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