Il caso
Lo scandalo della grazia ai pedofili travolge il sistema Orban
La scelta di concedere la clemenza ai colpevoli di abusi su bambini ha costretto alle dimissioni figure al vertice dello Stato. Tutte persone legatissime al premier ungherese
Uno scandalo che è «la più grande minaccia al governo del primo ministro Viktor Orbán da quando è tornato al potere nel 2010». È così che la Bbc ha definito l’ondata di proteste e indignazione che ha investito l’Ungheria nelle ultime tre settimane e che ha costretto alle dimissioni la presidente della Repubblica, la ministra della Giustizia e diverse figure apicali del sistema politico nazionale. Una parola, pedofilia, che grava come una mannaia sul partito di governo magiaro e avrà delle conseguenze anche alle prossime elezioni europee.
I fatti risalgono all’aprile del 2023 quando, in occasione di una visita di papa Francesco a Budapest, la presidente della Repubblica, Katalin Novák, ha concesso la grazia a 25 persone contemporaneamente. Come in molti altri Paesi del mondo, la grazia è una prerogativa presidenziale, ma si è trattato della prima volta nella storia recente dell’Ungheria che a un numero così alto di condannati veniva concessa la libertà. Forse era un modo per confondere le acque. Tra quei 25 graziati, infatti, figura Endre K., ex vicedirettore di un orfanotrofio di Bicske (una cittadina nei pressi di Budapest) che è stato giudicato colpevole di aver costretto dei bambini vittime di abusi sessuali da parte del direttore dell’istituto dove lavorava a ritrattare la confessione contro quest’ultimo. Endre K. nel 2018 era stato condannato per queste pressioni e per complicità con il direttore dell’orfanotrofio, che ha ricevuto otto anni per aver abusato di almeno 10 bambini tra il 2004 e il 2016. Tutto era passato in sordina fino al 2 febbraio scorso, quando la notizia è diventata di dominio pubblico e ha acceso l’indignazione in tutto il Paese. A Budapest si sono organizzate proteste che hanno bloccato il famoso Ponte delle Catene e hanno portato centinaia di persone di fronte al ministero dell’Interno, al Parlamento e al palazzo del presidente lo stesso fine settimana in cui nei pressi del castello di Buda si riunivano i neonazisti di mezza Europa per celebrare il cosiddetto Giorno dell’onore.
E la coincidenza non poteva essere più sfavorevole per Viktor Orbán. Il caso Ilaria Salis ha portato i media internazionali a interessarsi del suo sistema giudiziario e carcerario determinando critiche da ogni parte su quello che ha tutte le sembianze di un processo politico. Ma come si può essere così duri con una ragazza accusata, per ora senza prove determinanti, di percosse che hanno determinato 5 e 8 giorni di prognosi e concedere la grazia a chi ha tentato di coprire un pedofilo seriale? È il trionfo dell’arbitrarietà e, difatti, gli ungheresi stavolta non hanno taciuto. «La gente qui è molto più scandalizzata per la vicenda della Novák che per il raduno dei neonazisti», spiega Francesco, un giornalista italiano che vive a Budapest da oltre 20 anni, «sia perché la pedofilia in Ungheria è un’arma politica di Orbán, sia perché sono coinvolte personalità molto molto vicine al premier». La “legge per la prevenzione della pedofilia” del 2021 è diventata una delle bandiere ideologiche del partito di governo, Fidesz. Di fatto è una legge omofoba che accomuna la pedofilia all’omosessualità e vieta la propaganda di un’idea diversa di famiglia rispetto a quella in cui c’è un padre maschio e una madre femmina. Dopo diverse rimostranze l’Ue si era decisa ad aprire una procedura di infrazione con lo spauracchio dei tagli ai fondi destinati all’Ungheria. Orbán, per tutta risposta, aveva annunciato un referendum, lo stesso giorno delle elezioni parlamentari del 2022. Nonostante il premier abbia conquistato il suo quarto mandato, al referendum è mancato il quorum ed è risultato nullo.
Ma nello scandalo dell’orfanotrofio sono state bruciate due figure pubbliche sulle quali l’autoritario premier ungherese puntava molto. Katalin Novák, prima presidente donna della storia d’Ungheria, era stata scelta come simbolo di «madre della nazione». La sua elezione aveva la funzione mediatica di stemperare lo stile aggressivo e autoritario di Orbán diffondendo un’immagine della politica più accomodante ed empatica. Il premier ha provato a difenderla fino alla fine imponendo il silenzio al governo, ma stavolta le piazze non si sono placate e così l’11 febbraio la presidente ha annunciato: «Ho emesso una grazia che ha causato sconcerto e agitazione per molte persone, ho commesso un errore», dimettendosi subito dopo.
Assieme a lei Orbán perde anche Judit Varga, la «dura». L’ex ministra della Giustizia, infatti, è un’orbaniana di ferro, a lei il premier aveva affidato il compito di tenere sotto stretta osservazione il sistema giudiziario del Paese ed è sempre lei che avrebbe dovuto guidare Fidesz nella battaglia contro i «burocrati di Bruxelles» alle elezioni europee di giugno. Ma in qualità di Guardasigilli è stata Varga a controfirmare la grazia emanata dalla presidente Novák, il che l’ha costretta alle dimissioni da parlamentare e al «ritiro dalla vita pubblica» privando Orbán di una figura riconosciuta anche dagli alleati nell’Europarlamento. Altre due figure sono finite sotto attacco ed è qui che il sospetto arriva al capo del governo determinando l’accusa, come dice l’opposizione, che «tutto il sistema sia basato su corruzione e clientelismo». Si tratta di Antal Rogán, capo della comunicazione del premier e suo responsabile per i Servizi segreti, e Zoltán Balog, vescovo protestante, capo della Chiesa riformata ungherese, per sei anni ministro delle Risorse umane di Orbán e tra i suoi uomini più fedeli fin dagli anni ’90. Secondo l’opposizione sarebbe stato Balog ad aver esercitato pressioni nell’ombra per ottenere la clemenza nel caso Endre K. Il vescovo ha negato l’accusa categoricamente ma poi si è dimesso venerdì 16 febbraio, a poche ore dalla «manifestazione degli influencer» che ha portato oltre 50 mila persone in piazza.
L’iniziativa è stata lanciata dai profili di 8 influencer che hanno voluto caratterizzare la manifestazione come una «protesta per i diritti civili» senza bandiere di partito. Lo scandalo degli abusi sui bambini dell’orfanotrofio è diventato il leitmotiv di tutta la protesta. Particolarmente dura Edina Pottyondy, comica e youtuber, secondo la quale «il caso di clemenza ha dimostrato che in Ungheria esiste un sistema di caste, con regole diverse per chi è in buoni rapporti con il partito di Orbán». Il gruppo dirigenziale di Fidesz sta pensando al contrattacco e ha chiamato alla levata di scudi. «Dobbiamo dimostrare la nostra forza», ha scritto in un editoriale bellicoso il quotidiano filogovernativo Magyar Nemzet, che ha proposto una manifestazione dei sostenitori del governo il 15 marzo, giorno della festa nazionale.