Subito dopo il colpo di stato di Pinochet, per più di un anno la nostra ambasciata divenne il rifugio per tantissimi oppositori che la dittatura voleva far sparire. A organizzare la loro fuga all'estero c'era un giovane diplomatico. Che ora racconta tutto in un libro

A metà degli anni Settanta, dopo il golpe di Augusto Pinochet, per mesi l'ambasciata italiana di Santiago del Cile divenne il rifugio per centinaia di oppositori che rischiavano la vita. Mentre la giunta militare mostrava il suo volto più spietato con arresti indiscriminati, torture, stadi pieni di detenuti, desaparecidos e dissidenti buttati in mare dagli elicotteri, le residenze diplomatiche, in particolare la nostra, si riempirono di donne e di uomini che cercavano di sfuggire alla repressione.

Erano per lo più militanti di sinistra dei partiti che avevano appoggiato il governo Allende, ma anche tanti semplici cittadini che desideravano solo fuggire dal Cile.

A gestire la delicata partita (insieme all'allora ambasciatore Tomaso de Vergottini) fu un giovane funzionario della Farnesina di nemmeno 35 anni, poi divenuto a sua volta ambasciatore: Emilio Barbarani, spedito in tutta fretta in Cile dall'Argentina dopo che nel cortile dell'ambasciata italiana era stato rinvenuto il cadavere di Lumi Videla, un'esponente del Mir (Movimiento de izquierda revolucionaria), l'estrema sinistra cilena.

È proprio partendo da quell'episodio che Barbarani, ormai in pensione e a quasi 40 anni di distanza, ripercorre questa pagina dimenticata della nostra storia con un libro dedicato ai suoi drammatici 18 mesi a Santiago: 'Chi ha ucciso Lumi Videla? Il golpe Pinochet, la diplomazia italiana e i retroscena di un delitto' (Mursia), in uscita in questi giorni.

Ambasciatore Barbarani, quando arrivò a Santiago del Cile?

«Nel dicembre 1974, pochi giorni dopo il delitto Videla. Fui trasferito da Buenos Aires, dove ero console aggiunto, per dare una mano all'ambasciatore: secondo la versione ufficiale, infatti, la giovane era stata uccisa nel corso di un'orgia. Ma era ovvio che non era così e che in realtà il cadavere era stato gettato di notte dall'esterno a scopo intimidatorio, nei confronti nostri e dei rifugiati. Era un momento di altissima tensione. Inoltre non ero accreditato e nemmeno l'ambasciatore lo era, perché il governo italiano non aveva riconosciuto la giunta militare».

Pinochet si era insediato da oltre un anno, perché la situazione restava così tesa?

«C'era il timore di un golpe all'interno della stessa giunta, ancora più duro e radicale. E la paura di un'irruzione nei nostri uffici di qualche squadra di estrema destra era concreta. C'erano già centinaia di persone in ambasciata e i militari avevano deciso che avrebbero bloccato le partenze finché non fosse stato identificato il colpevole dell'omicidio. La mia prima incombenza fu quindi gestire la vicenda e amministrare la collettività dei rifugiati. Le prime due settimane alloggiai in un albergo ma la situazione era talmente tesa che poi l'ambasciatore mi pregò di andare a vivere nella residenza. Ricordo ancora le sue parole: 'Barbarani, vada lì per qualche giorno'. Ci sarei rimasto un anno e mezzo».

Com'era la vita quotidiana in ambasciata?
«Estremamente caotica. Quando arrivai io c'erano già un centinaio di rifugiati ma arrivammo fino a 250 contemporaneamente, fra uomini, donne, vecchi e bambini. Ogni giorno entrava qualcuno nuovo, scavalcando. Ma c'era anche qualche criminale comune e sicuramente infiltrati dei servizi, che si fingevano richiedenti asilo per poi seguire quelli veri all'estero. Tutti dormivano per terra su materassi della Croce rossa, stipati fin negli abbaini. C'erano solo cinque o sei bagni a disposizione e si formava una lunghissima fila anche solo per lavarsi o radersi. Per mangiare entrava un camioncino due volte a settimana portando i generi alimentari, che venivano cucinati nelle cucine dell'ambasciata dagli stessi rifugiati. Di fatto era una sorta di autogestione».

Funzionava?
«I rifugiati avevano eletto un comitato politico formato da un responsabile per ogni partito e ciascuno si impegnava a far rispettare le regole stabilite ai propri militanti e organizzare il servizio di sorveglianza. Avevamo riunioni tutti i giorni, lunghe sedute per studiare la situazione politica e come gestire tutta la massa di persone. Il problema erano quelli che non erano inquadranti in alcun partito, i criminali e gli infiltrati, che non riconoscevano l'autorità del comitato».

Com'erano i rapporti fra i rifugiati?
«Bisogna considerare che erano quasi tutti militanti dei partiti ormai clandestini che avevano sostenuto Salvador Allende. Si andava dal Mapu (Movimiento de acción popular unitaria, ndr), che era la sinistra cristiana, fino al Mir e si erano subito ricreate tutte le divisioni politiche precedenti, con tanto di accuse reciproche sulle responsabilità del golpe».

C'erano differenze di approccio alla situazione politica fra loro?
«I militanti del Mir erano molto intelligenti, decisi, rapidi nel capire le situazioni e sono stati un grande aiuto per gestire la massa dei rifugiati. I comunisti erano più rigidi, meno "agili" per motivi ideologici ma assolutamente affidabili, mentre lo stesso non si poteva dire dei socialisti, un amalgama difficile da controllare ai quali non a caso non ho mai chiesto aiuto. Ricordo che una volta, quando l'ultimo mirista stava partendo per Cuba, a mio rischio e pericolo mi assunsi la responsabilità di fare entrare in ambasciata un carabinero cileno in uniforme: doveva telefonare per sollecitare l'arrivo dell'auto per portarlo all'aeroporto, che era in ritardo. Ma se lo avessero visto gli altri rifugiati, molti dei quali avevano denunciato torture, avremmo potuto perdere il controllo della situazione. Andò tutto bene ma a fine giornata il responsabile del Pc mi confidò: 'Signor Barbarani, avete agito di nascosto ma sapevano già tutto ed eravamo pronti a intervenire se le avessero fatto del male o avessero assalito il carabinero'».

In Italia la Dc aveva condannato il golpe ma teneva anche all'alleanza con gli Usa, che lo aveva ispirato. Che indicazioni vi davano il presidente del Consiglio Aldo Moro e il ministro degli Esteri Mariano Rumor?
«Dal governo e dal ministero degli Esteri era giunta la disposizione di non giudicare i singoli casi, cioè di accogliere chiunque ne facesse richiesta. Complessivamente ho calcolato sono transitati per l'ambasciata circa 750 rifugiati: noi italiani siamo stati quelli che ne hanno accolti di più. Se avesse dovuto darci delle istruzioni più precise, Roma ci avrebbe detto di comportarci come facevamo. In quella situazione, però, il rischio era tutto nostro: se qualcosa fosse andato male, saremmo stati richiamati in Italia e i rifugiati sarebbero stati abbandonati al loro destino. Il nostro timore principale era quindi che si verificassero episodi violenti premeditati dagli infiltrati per creare un fatto di sangue: avremmo dovuto chiedere l'intervento della forza pubblica, legittimando di fatto la giunta, e saremmo stati costretti a chiudere l'ambasciata per ragioni di sicurezza».

Come fu accolto il vostro comportamento in Italia?

«Molti commentatori si domandavano perché io e l'ambasciatore fossimo disposti a rischiare tanto e ci fu chi ipotizzò che volevamo solo fare carriera o entrare in politica. Altri invece dissero che lo facevamo perché eravamo di sinistra».

Era vero?
«Di certo non stavamo coi fascisti ma neppure eravamo di sinistra. Io personalmente sono sempre stato un uomo di centro, all'epoca votavo democristiano. E anche l'ambasciatore de Vergottini. In realtà, pur non condividendo il credo politico dei rifugiati, avevamo solo una forte sensibilità umanitaria. Ci interessava solo la difesa dei diritti umani. Vennero a Santiago perfino tre giornalisti italiani che, come in seguito mi avrebbero confidato, avevano avuto l'incarico dal Pci di indagare se io potessi essere considerato un affidabile difensore della sinistra cilena».

Com'erano i rapporti con la giunta militare?
«Trattavamo con loro a testa alta. Abbiamo sempre tenuto corrette relazioni, anche se erano formalmente proibite dal governo italiano, dal momento che il golpe non era stato riconosciuto a Roma e noi non eravamo accreditati. Ma d'altronde erano le autorità militari che autorizzavano le partenze e non potevamo fare diversamente. L'importante è stato aver salvato centinaia di rifugiati».

Chiedevano tutti quanti di venire in Italia?
«No, facevano richiesta per diversi Paesi. Le altre destinazioni erano Romania, che offriva casa e un lavoro, Francia e Svezia. I fattori di scelta erano casuali, solo i militanti del Mir chiedevano tutti di andare a Cuba: erano gli unici che sceglievano un Paese per convinzione politica».

Lei aveva avuto l'autorizzazione a circolare armato e nel libro ricorda che alcuni militanti del Mir le avevano confidato di aver sventato diverse azioni ostili nei suoi confronti. Ha mai temuto direttamente per la sua vita?
«Una volta sono rimasto coinvolto in una sparatoria e un'altra trovai il comitato politico eletto dai rifugiati nella mia camera da letto: avevano deciso di "ricevermi" lì per mettermi in guardia dai rischi, invitandomi a guardare sempre sotto il letto quando mi mettevo a dormire. E presto i militanti del Mir e i comunisti, di loro iniziativa, decisero di farmi la guardia fuori dalla stanza la notte».

Perchè ha deciso di parlare solo ora, a quasi 40 anni di distanza?

«L'omicidio Videla, il nostro operato e l'opposizione alla giunta militare erano argomenti di una delicatezza tale che ho deciso di non risollevare il tema finché ero in carriera, mi pareva politicamente inopportuno. Ma dopo essermi ritirato, ho sentito che non era giusto portarmi in silenzio queste cose di cui si è vociferato ma mai scritto. Soprattutto sentivo il peso della morte di quella ragazza. Mi sono sentito meno coinvolto di un tempo e ho deciso di parlarne».

Nel libro ci sono dialoghi ricostruiti e a più riprese un'atmosfera da spy story: dopo tutto questo tempo, le diranno che ha inventato o ingrandito molti degli episodi raccontati…
«In questi 40 anni ho perso i contatti con tutte le persone che abbiamo salvato, anche perché molti sono tornati in patria dopo il ritorno della democrazia. Li ho mantenuti solo con la giornalista Patricia Mayorga, che ora è corrispondente da Roma per un quotidiano cileno. Alla prima "accusa", chiamerò lei a testimoniare se ho inventato o esagerato qualcosa…».

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