S'è laureato in economia a Milano. Mamma lo voleva dirigente di banca. Papà commercialista. Lui invece è volato in Australia. Ha fatto il cameriere, il barbiere, il lavapiatti e adesso raccoglie albicocche a 10 dollari l'ora. Già. Il dottor Nicola Passoni, 23 anni, è un tipo che non bada a pioggia o vento, lui che è nato nell'umida Pianura padana e ha infilato senza perdere un tram liceo e università col massimo dei voti: "Poi ho deciso di emigrare, come zio Mario", dice: "Era proprio lo zio d'America, quello della leggenda. Se n'è andato negli anni Sessanta e ha fatto fortuna, quando si sognava la California. Io ho scelto Sydney, i tempi sono cambiati. E come me tanti miei coetanei". Tanti. Tantissimi. Anche se al consolato australiano di Berlino, dove smistano i visti d'ingresso dall'Unione europea, è difficile radiografare cifre precise, su un dato concordano tutti, statistiche, diplomatici e agenti di viaggio: nel 2010 sono stati oltre 50 mila gli emigranti italiani che hanno fatto rotta sull'Australia. Mentre nel 2011 pare si confermi un trend in continua crescita, che potrebbe quindi sforare quota 60 mila. Sydney, Melbourne o le distese incontaminate del Nord con koala e canguri cambia poco. Perché il nipotino Nicola, cinquant'anni dopo lo zio Mario, s'è ritrovato di nuovo in un'Italia senza lavoro e senza futuro: "In molti come me ormai preferiscono un anno sabbatico, a caccia di fortuna, a un anno di pellegrinaggi fra agenzie interinali e promesse di un'assunzione che poi non arriva".
Quel che più di tutto sta trasformando l'Australia nella nuova America degli italiani si chiama "working holiday visa". È un visto per turisti fra i 18 e i 30 anni, dura un anno e si ottiene anche on line senza troppa fatica, niente cavilli o grossi requisiti. Non serve un posto di lavoro, né conti correnti come garanzia. Puoi comprarti un biglietto aereo low cost e andare all'avventura, proprio come i pionieri del West. Una volta a Sydney si può lavorare per sei mesi, così da racimolare quanto basta per sbarcare la giornata, e poi studiare inglese per altri quattro mesi. Scaduto il visto, non c'è nemmeno l'obbligo di rimpatrio. Al consolato concedono infatti una proroga di tre mesi se, come fa Nicola, si prestano le braccia all'agricoltura. Laggiù c'è richiesta di manodopera per mandare avanti una miriade di piccole aziende agricole. Ed ecco che un po' per evadere, un po' per provarci l'architetto italiano si inventa giardiniere australiano e l'ingegnere riempie cesti di frutta grondando sudore. Col sogno di un visto più stabile, quello per lavoro esperto. Funziona come la patente a punti, più sei "indispensabile" all'economia australiana più rimani. E così gli italiani si inventano chef (60 punti), igienisti dentali (40 punti) o carpentieri nei cantieri per yatch di lusso. E le richieste di proroga sforano quota 15 mila.
L'identikit del migrante 2.0 è presto fatto: chi chiede un "working holiday visa" ha dunque meno di 30 anni, spesso la laurea, pochi soldi in tasca e tanta voglia di sfondare laggiù, dove il motto nazionale è "Fair go", che tradotto a spanne significa quello che in Italia non si può più dire: "Se sei onesto, qui vai avanti". Doveva essere insomma un'opportunità per conoscere la terra dei canguri e del surf e per masticare un po' di inglese. Ma, complici la recessione e la crisi dell'euro, sta diventando un vero e proprio esodo di massa. "Sempre più italiani volano in Australia. La loro è spesso una fuga da sognatori", spiega Daniela Di Monaco della South Australian Tourism Commission a Roma: "Viene vista come la nuova terra promessa, un luogo sicuro, senza crimini, capace di darti il benessere occidentale e la natura incontaminata. È un posto dove si trova facilmente lavoro, a differenza dell'Italia, dove puoi cambiare vita e mestiere anche molte volte in pochi anni. È lontana, ma non mette angoscia. Dà un senso di speranza".
Un biglietto aereo costa un po', ma non è più proibitivo. In media si spendono 1.200-1.400 euro. A maggio, quando nell'altro emisfero bussa l'autunno, sui low cost con un po' di fortuna si trovano offerte anche sotto i mille euro. E così il sogno può diventare realtà per molti più giovani di un tempo. Una volta sbarcati là, parecchi "cervelli" made in Italy perfezionano l'inglese, si sistemano con qualche lavoretto e nel frattempo progettano il salto. Con le braccia potano arbusti e arano campi, con la testa e la mail cercano un lavoro sempre più stabile. Chi fa colloqui con gli studi professionali, chi si mette in società per aprire un ristorantino, chi produce gelati alla crema e chi vende caro l'italian style. Con un obiettivo comune: restare il più a lungo possibile a dieci ore di fuso orario dalla vecchia e sgangherata Italia. Che non li fa sognare.
Francesco, 23 anni, era partito da Milano con Nicola. Poi ad aprile si sono divisi. Una sbronza d'addio a Melbourne e ora si sentono solo via Skype. Anche se i loro destini restano incrociati: "Nicola è andato a Sydney, io sono arrivato fino a Shepparton, Victoria. Ero distrutto dal viaggio, non avevo soldi, ma tornare in Italia era l'ultimo dei miei pensieri. La guida Lonely Planet spiegava che in quella zona c'era molta richiesta di manodopera agricola e così sono partito per allungare il visto", racconta a "l'Espresso". Ha trovato lavoro alla Orchard Lenne, una fattoria a 20 minuti dalla cittadina. Da queste parti pagano 25 dollari a bidone se raccogli frutta, parecchio se riesci a riempirne tre al giorno come fa lui. S'è preso un letto in ostello a 6 dollari a notte, mangia con una decina di dollari e il suo lusso sono un paio di birre al Murphy's e una cenetta tutta italiana ogni tanto allo Spaghetti Hollow sulla strada per Kialla. Di storie come la sua da queste parti ce ne sono a centinaia. "Quando si arriva si passa la prima settimana a fare su e giù per la città, vasche e vasche per depositare curriculum dappertutto. Con i soldi del primo lavoro si cerca un appartamento e così avanti. Solo che gli italiani, e sono tantissimi, hanno il solito difetto: cercano casa tutti insieme, parlano solo italiano, mantengono le usanze di casa", spiega.
Questi globe-trotters con la voglia di mettere su casa qui li chiamano "backpackers", sono i viaggiatori con lo zaino in spalla. Stefano Zoli, in anno sabbatico, spera di trasferirsi presto sulla baia a costruire barche di lusso: "Lo zaino ho cercato di tenerlo il meno possibile. Negli ostelli vedevo passare gente di ogni tipo, gente che cerca di racimolare i soldi per pagarsi una stanza. I lavori più richiesti sono medici, infermieri, tecnici ospedalieri, ma anche esperti informatici, ingegneri e tecnici del settore minerario. Oltre ai cantieri, ovviamente", racconta. Anche lui è arrivato con il "working holiday visa" e adesso fatica per un permesso più lungo: "Mi avevano offerto 30 dollari l'ora come giardiniere, ma io voglio restare qui e ho scelto di lavorare in un cantiere che costruisce barche enormi. Guadagno la metà, ma sento che qui posso farcela". Vive a Manly, un sobborgo affacciato sull'oceano, ma dopo tre mesi già pensa di spostarsi a Byron Bay, la sua Mecca. "Voglio mettere su casa, fra tavole da surf e onde", dice: "Voglio sfondare nella cantieristica, che in Italia è in crisi nera e qui va".
Sono tutti così, infatuati dall'isola misteriosa governata da due donne, Sua maestà Elisabetta II e la premier laburista Julia Gillard, 50 anni, che invoca la Repubblica. E che a molti connazionali convince più della nostra politica mangiona, tanto in era Berlusconi quanto in tempi da Monti. Il problema è che proprio miss Gillard s'è trovata lo scorso giugno, fresca di elezione, con una grana imprevista: "Il working holiday visa si sta snaturando, viene utilizzato come trampolino per emigrare in Australia. Il lavoro nero nei ristoranti, soprattutto italiani, aumenta e il fenomeno rischia di diventare un'emergenza", spiega una fonte all'ambasciata australiana a Roma. Ed ecco che le regole si sono fatte via via più rigide. Le proroghe sono più brevi. E i controlli serrati. Così molti laureati in cerca dell'oro finiscono per rinunciare.
Da un paio d'anni si moltiplicano pure i siti, le pagine di Facebook, le associazioni di connazionali a supporto dei nuovi emigranti. Il Faro è forse il più famoso. L'ha fondato Marco Cocurullu, sbarcato in Australia cinque anni fa per sposare un'australiana. Lui lo sa bene che laggiù le cose vanno meglio che qui da noi. Ma sa anche che non è più come qualche anno fa: "Sono sempre di più gli italiani che vogliono vivere qui", spiegano al Faro. "Ma ottenere un visto permanente non è più così semplice.
C'è molta gente che parte e poi è costretta a tornare indietro". È il caso di Alessandra, 26 anni, scappata da Napoli sette anni fa per sfondare. Ha fatto rotta su Londra, come era di moda allora, poi ha sentito parlare dell'Australia. Così un anno fa è decollata da Heatrow con il suo prezioso visto temporaneo in tasca ed è partita di nuovo. "Avevo un buon curriculum e un buon inglese, ma non è bastato. Troppi italiani e sempre meno posti", racconta. Dopo un anno senza troppi quattrini, ha perso l'entusiasmo. Mamma chiama dall'Italia, che certo non sta messa bene, ma almeno c'è la famiglia, le ripete tutti i giorni. "Sto per cedere", ammette lei. Poi c'è pure chi resta affezionato al più vecchio dei sistemi. Come Stella, 43 anni, un metro e 58, divorziata, tre figli. "Sono dolce, forte e determinata, romantica e realista", reclamizza di sé. Cerca lavoro in Australia? Beh, intanto cerca marito. Il sogno australiano, insomma, non è tutto oro. Lo racconta anche Aldo Mencaraglia, una specie di guru per gli emigranti. Ha fondato il blog Italiansinfuga e ha scritto un libro che spiega come cambiare vita nell'altro emisfero. Un manuale di sopravvivenza in terra d'Australia che molti seguono alla lettera. Basta parlare con Christian Antonini, che ha lasciato Bolzano per sposare un'australiana. Oggi vive a Sydney ed è "finance manager" di una casa di moda. Dell'Australia ama tutto quello che in Italia non c'è: la burocrazia snella e la politica efficiente. "Perché fuggiamo? Da noi le facce non cambiano mai. Basta guardare la politica. Il futuro è qui".